AUTONOMIA SENZA RISORSE = ISTIGAZIONE A DELINQUERE?

 

Personalmente sono un convinto assertore dell’autonomia universitaria. Non posso tuttavia evitare di osservare che, sotto opportune ipotesi (che nel nostro Paese non mancano mai di verificarsi), essa può produrre effetti francamente perversi.

Quando le norme a carattere generale comunque vigenti impediscono una gestione elastica e  funzionale del bilancio ordinario, mentre permettono quasi senza limiti operazioni a carattere “straordinario”, in omaggio al principio per cui pecunia (purché non ministeriale) non olet, e quando il finanziamento pubblico viene costantemente eroso non solo dai fenomeni inflattivi ma anche dagli aumenti automatici degli oneri stipendiali determinati dal costante invecchiamento “medio” del personale, allora la tentazione di ricorrere con sempre minori scrupoli alle azioni “straordinarie” risulta sempre più difficile da respingere, per una comunità che peraltro non ha certo mai fatto dell’etica la sua bandiera più gloriosa.

C’è chi s’indebita fino all’inverosimile nella speranza di giorni migliori (per lui) in cui qualcun altro sarà chiamato a pagare, e chi invece impegna i gioielli di famiglia (nel senso di Cornelia).

Basta trovare un privato desideroso di un poco di pubblicità (per lui) a buon mercato, o in cerca della possibilità di ottenere a costi molto limitati una prestazione di ricerca altrimenti molto onerosa, ed è facile imbastire un meccanismo di “finanziamento del reclutamento” che il Ministero riconosce ed accetta, per non dire incoraggia(va). Si badi bene: ho volutamente indicato soltanto motivazioni di natura venale ma non ignobile.

Non mi sento certo senza peccato, e non sto quindi scagliando la prima pietra su nessuno: sono stato anzi anch’io duramente ed autorevolmente contestato come corresponsabile per azioni di questa natura messe in atto dallo stesso Ateneo cui afferisco e dei cui organi di governo faccio parte. E non voglio nemmeno prendere a pretesto questa situazione per “battere cassa”, come di solito si fa in questi casi.

Leggo i giornali, e un poco so far di conto, e mi è quindi perfettamente chiaro che i quattrini, al momento, non ci sono.  Ma mi pongo comunque il problema di cercare una qualche soluzione, ancorché provvisoria. E parto da una constatazione: il sistema universitario ha comunque una capacità di spesa (derivante da risorse pubbliche) approssimativamente doppia di quella che risulta dal finanziamento ordinario. Ci sono tuttavia vincoli all’utilizzo di queste risorse, la cui origine è da rintracciarsi piuttosto in una logica di politica-spettacolo e di falsa moralizzazione che non in reali obiettivi di contenimento della spesa pubblica (in regime di autonomia il bilancio dello Stato non è modificato né ora né poi dal modo in cui le Università spendono le cifre ad esse destinate). Questi vincoli producono, oltre al fenomeno di cui ho parlato all’inizio, almeno altri due effetti perversi: uno è di natura morale, ed è la formazione di una “cultura” dell’aggiramento delle norme, mentre l’altro è molto concreto, e consiste nell’incentivazione all’uso indiscriminato di ogni forma di lavoro precario e sottopagato, poiché questo tipo di utilizzo delle risorse, mascherato sotto l’etichetta di borsa di ricerca o di contratto di docenza, sfugge ai capestri che rendono invece ardua non dico l’assunzione a tempo indeterminato, ma anche soltanto la stipula di un “decente” contratto a tempo determinato.

Io credo che su questo punto si possa intervenire, forse senza nemmeno il bisogno di una nuova legge-quadro, ma con l’alleggerimento di alcune regole e l’appesantimento di altre. Faccio solo un esempio: è vero che il finanziamento PRIN è per definizione aleatorio (anche troppo…), ma la somma dei finanziamenti PRIN di un dato Ateneo è, se non certa e fissata, perlomeno probabile e prevedibile quasi quanto il fondo di finanziamento ordinario. Perché allora non ammettere che una quota percentuale (10-20%) di tale finanziamento possa essere destinata – a livello di Ateneo – a forme di reclutamento stabile, interdicendo invece l’uso (attualmente sistematico) dei PRIN per l’erogazione di borse e borsette la cui durata, per uno dei tanti capestri normativi, non riesce nemmeno a coprire l’intero arco temporale del finanziamento? E perché non proibire le borse “autofinanziate” da docenti o gruppi di docenti con i fondi destinati alla ricerca? E non mi si dica che i borsisti servono appunto a fare la ricerca: la farebbero altrettanto bene, e probabilmente meglio, se il loro “contratto” di lavoro non li obbligasse a passare metà del loro tempo a cercare il “contratto” successivo (e la parola è virgolettata  in quanto usata come eufemismo per qualcosa che ha ben poco di contrattuale). Qui non si tratta di ledere l’autonomia, si tratta di tutelare i diritti dei lavoratori, compreso quello di non essere sfruttati, che significa talvolta qualche posto in meno (la storia del movimento sindacale dovrà pure insegnarci qualcosa!) ma alla lunga è una battaglia vincente.

 

paolo rossi

Dipartimento di Fisica “E. Fermi”

Università di Pisa