FELLONE ED EROE

Corrado il Rosso duca di Lorena e la fidelitas nel X secolo

 

  1. Introduzione

Tutte le poche fonti storiografiche che ci rimandano qualche remoto barlume delle vicende e degli uomini della prima metà del decimo secolo non mancano di annotare, pur nella brevità (e spesso nell’ellitticità) della narrazione, la poco più che meteorica presenza di Corrado il Rosso (Conradus Rufus), che a partire dal 944 e per meno di un decennio fu duca di un territorio (Regnum Lotharii, Ducatus Lothariensium) che per brevità chiamiamo e chiameremo Lorena (ma che sarebbe totalmente improprio confondere con la regione che modernamente identifichiamo con questo nome), e che dopo aver perduto titolo e territorio nel 953 a seguito di una ribellione contro il suo sovrano Ottone di Sassonia volle comunque essergli accanto nella spedizione contro gli Ungari del 955 e nel giorno di san Lorenzo lasciò la vita, dopo essersi ricoperto di gloria, nell’epocale battaglia del Lechfeld.

La sua biografia è, per molti aspetti, paradigmatica di un’epoca e di un gruppo sociale: epoca breve e confusa, di quelle che si definiscono di transizione (ma quale non lo è?), e gruppo sociale assai ristretto, ma purtroppo l’unico per il quale le fonti ci offrano la possibilità (comunque alquanto limitata) di tentare una ricostruzione sia delle vicende esistenziali che delle Weltanschauungen.

Rileggere la vicenda di Corrado il Rosso, in particolare, ci permette di ripensare, anche alla luce di un sommario confronto con numerose altre vicende contemporanee, al tema della fedeltà personale nell’Alto Medioevo, e al reale significato che tale concetto poteva possedere per gli uomini (o meglio: per i nobili) del X secolo, e quindi al reale impatto che esso poteva avere sulle loro, spesso drammatiche, scelte.

Le nostre fonti primarie sono soprattutto Widukind di Corvey, Flodoard di Reims e il Continuatore di Reginone; in minor misura, perché più tardivi, anche Thietmar di Merseburg e Richer di Saint-Remi. Da tutti e da ciascuno, pur nella differenza degli atteggiamenti mentali e dei punti di vista, dei propositi e degli stili, ricaviamo l’impressione fortissima che significato e valore della fedeltà vassallatica fossero, almeno in quella particolare stagione, qualcosa di molto diverso da ciò che oggi viene evocato dalla parola, e che sia quindi necessario analizzare ancora una volta i fatti (e le opinioni contemporanee) con la massima attenzione e la massima assenza di pregiudizi. Non è in gioco soltanto una più o meno corretta ricostruzione di Denksformen e di Lebensformen, perché si tratta di un concetto che, proprio a partire dall’esperienza medievale, ha impregnato di sé il nostro immaginario collettivo, e sicuramente condizionato la nostra, implicita o esplicita, definizione dei rapporti tra etica e politica finanche, crediamo, nel pieno della realtà contemporanea.

 

  1. Nato da buona famiglia

Di Corrado il Rosso non sappiamo assolutamente nulla fino agli anni 943-944, quando compare ex abrupto nelle narrazioni già con un ruolo di primo piano. Questo non ci esime ovviamente dal tentativo, prosopografico piuttosto che biografico, di dargli una data e un luogo (almeno approssimativi) di nascita, e soprattutto di definire un contesto familiare e sociale plausibile per un personaggio destinato a raggiungere i vertici della gerarchia politica e sociale in un sistema ben poco aperto all’ascesa dei mediocres. Basti ricordare per tutte l’esemplare vicenda di Aganone, consigliere e favorito del re di Francia Carlo il Semplice, la cui ascesa da umili origini risultò così intollerabile, secondo Flodoard e ancor più secondo Richer, da causare la ribellione dei “veri” nobili di Francia e la deposizione del re a favore di Roberto di Neustria. Il fatto che le origini di Aganone non fossero realmente umili (era lorenese, parente di Stance padre di san Gérard di Brogne, e forse collegato alla famiglia della regina Frederuna, moglie di Carlo), e che ben altre fossero le cause della ribellione dei magnati, non ci devono sviare dall’osservazione che anche il solo sospetto di aver dato spazio alla mediocritas poteva in quella stagione servire da copertura ideologica per giustificare un’azione eversiva contro un sovrano al quale si era giurata fedeltà.

Dunque per Corrado ci sentiamo di dar credito, senza troppi scrupoli, alle fonti (purtroppo non a lui contemporanee) che rimandano a un’ascendenza nobilissima, e in particolare a quel san Liutwin (v.655-715/22) arcivescovo di Treviri che tra l’altro si colloca alla radice dell’albero genealogico della potentissima famiglia dei Lamberti-Widoni, a sua volta strettamente imparentata con i primi Robertingi. Tutte famiglie, queste, che nella prima fase della propria ascesa mostrano un significativo insediamento nella regione della Germania renana, con titoli comitali (Wormsgau, Lobdengau, etc) e possedimenti (Hornbach) che torneranno poi regolarmente nella storia della dinastia Salia, della quale Corrado è però soltanto il secondo esponente storicamente documentato in modo non ambiguo, il primo essendo il padre di lui, Werner [V](v.899-v.935) conte in Speyergau e Wormsgau, e secondo alcuni marito di Hicha, figlia di Burcardo II duca di Svevia (morto il 28 aprile 926). Ma per due secoli la storia di famiglia è coperta da una fitta nebbia, dalla quale emerge qui e là qualche modesto punto di riferimento, senza che ci sia data la possibilità di stabilire ponti certi tra queste sporadiche evidenze.

Ricordiamo un conte Lamberto di Hornbach (v.730-av.783), probabile discendente di Liutwin, che dalla moglie Dietberga (di cui altro non si sa) ebbe un Werner [I] (Warnharius) di Hornbach (av.783-814). Questi fu, al tempo di Carlo Magno, prefetto d’Ostland tra l’802 e l’806, sposò forse una Friderun e nell’814 morì assassinato ad Aquisgrana; si presume che potesse essere il padre di Werner [II] (morto dopo l’847), conte in Wormsgau tra l’815 e l’837.

Poi il percorso si confonde, forse irrecuperabilmente. Abbiamo un Werner [III], conte in Lobdengau nell’858, morto non prima dell’877, di cui non sappiamo altro di preciso, e registriamo la presenza di un Werner [IV] (870/5-917/9), conte in Wormsgau, Nahegau (891) e Speyergau (901), che avrebbe sposato una figlia di Corrado il Vecchio di Franconia (morto il 27 febbraio 906), e con ciò trasmesso, attraverso il figlio Werner [V], titoli e nome al nostro Corrado.

Ma, se gli stretti legami con i Corradini non sono contestati da nessuno, la forma presa da tali legami non è così certa; secondo altri infatti sarebbe Werner [V] (morto in tal caso prima del 920) ad aver sposato una figlia, non già di Corrado il Vecchio ma di suo fratello Eberardo e di Wiltrud figlia di Walaho. Si noti che proprio il nome Walaho (presente nell’importante clan renano dei Megingoz, conti in Wormsgau) è inteso da taluni come equivalente o sostitutivo di quello di Werner [II] o anche di quello di Werner [III] nel ruolo di marito di Oda, figlia del conte Roberto III di Wormsgau e sorella di Roberto il Forte, capostipite dei Capetingi.

L’inevitabile conclusione è frustrante: di Corrado filius Werinheri (come attesta il Continuator Reginonis all’anno 943) non conosciamo con certezza nemmeno la famiglia della madre.

Soltanto l’onomastica da un lato, e dall’altro la continuità nel possesso di titoli patrimoniali (soprattutto Hornbach) e negli incarichi comitali ci raccontano la storia di una famiglia certamente potente, e certamente legata a doppio filo da un grande numero di vincoli parentali agli altri clan della più alta nobiltà francone e renana, ma della quale sembra ormai del tutto impossibile tracciare un albero genealogico sufficientemente documentato.

L’incertezza sulla data di nascita di Corrado si intreccia strettamente con le già citate perplessità sulla data di morte del padre. Abbiamo nelle fonti un riferimento abbastanza impegnativo, in quanto Widukind (R.g.S. II, 33), parlando di Corrado al momento in cui fu investito del ducato di Lorena (e quindi intorno all’anno 944), usa l’espressione adolescens, che difficilmente a quell’epoca potrebbe essere stata riferita a chi avesse superato il ventunesimo anno d’età. Per questo motivo è abbastanza comune nella letteratura trovare l’indicazione dell’anno 922 come data più probabile per la nascita di Corrado. Ma questa datazione si scontra evidentemente con l’ipotesi che Werner [V] sia morto prima del 920, e di conseguenza anche su questo punto non siamo in grado di approdare a una soluzione definitiva.

Nulla sappiamo del primo ventennio di vita di Corrado il Rosso. Le prime modeste tracce documentarie sembrano indicarcelo come conte in Nahegau, Niddagau, Speyergau e Wormsgau, e quindi nell’area controllata dal padre e dai suoi (presunti) antenati, a partire dal 941/2. Ma la sua prima comparsa negli annali porta la data del 943, in corrispondenza della quale il Continuator Reginonis annota che, alla morte del duca Otto, Corrado gli successe nel ducato di Lorena.

L’anno 943 degli Annales

Probabilmente il Continuator, che scrive molti anni dopo i fatti, sbaglia la datazione, perché Flodoard, annalista affidabile e contemporaneo, annota “Otho dux Lothariensium vita decessit” all’anno 944, e questa è la data comunemente ritenuta per l’insediamento di Corrado in Lorena.

Ma per alcuni aspetti il 943 è un anno topico, in particolare proprio alla luce degli Annales di Flodoard, e per questo motivo lo assumeremo come data di riferimento per una rapida descrizione sincronica della situazione in cui si trovavano i territori che avevano fatto parte del grande impero di Carlo Magno, ormai smembrato definitivamente da più di mezzo secolo, ma il cui modello (o forse soltanto la cui ombra) ancora si proiettava a determinare in qualche misura le ideologie e i comportamenti delle classi dirigenti, almeno per quanto riguarda la Francia (nell’accezione ristretta che identifica il paese tra Loira e Mosa), il Regnum Lotharii (tra Mosa e Reno) e la Germania Transrhenana.

Ci racconta Flodoard all’inizio del 943 (ma l’evento va datato al 16 o 17 dicembre 942) che Arnolfo conte di Fiandra fece uccidere con l’inganno Guglielmo Lungaspada, principe dei Normanni. L’episodio sembra aver toccato profondamente i contemporanei, a giudicare dalla traccia lasciatane nel famoso Planctus scritto per l’occasione, e ci interesserà per i suoi riflessi ideologici, in quanto dovremo tornare a lungo sul tema del tradimento, ma è rilevante anche sul piano événementiel, in quanto apre un periodo di instabilità nello spazio normanno le cui conseguenze si faranno spesso sentire nel corso di questa narrazione, e che cesserà definitivamente soltanto qualche anno dopo, quando Riccardo figlio (illegittimo) di Guglielmo avrà consolidato il suo controllo sulla Normandia. Un primo forte segnale di instabilità ci viene, nello stesso 943, dalla vampata insurrezionale capeggiata dal pagano Setric (di recente provenienza scandinava) e da Turmod, “ritornato all’idolatria”. Con la sconfitta di costoro e la soppressione del rigurgito anticristiano ad opera del re Ludovico [IV] d’Oltremare viene comunque definitivamente a cessare il ruolo dei Normanni come antagonisti di sistema, e diventa permanente la loro integrazione nel gioco politico che, nel farsi e disfarsi delle alleanze, contrappone tra loro sovrani e magnati di Francia.

Il 23 febbraio muore Eriberto [II] conte di Vermandois, discendente in linea maschile diretta da Carlo Magno, ma attraverso il ramo diseredato di Pipino (†810) e di suo figlio Bernardo (†818), re di Lombardia, ribelle allo zio imperatore Ludovico il Pio e da lui fatto accecare. Con Eriberto scompare l’avversario più subdolo e forse più temibile di tutti i sovrani di Francia della sua generazione, siano essi i Carolingi Carlo [III] il Semplice (re dall’893 al 923, morto prigioniero di Eriberto a Péronne nel 929) e Ludovico [IV] (re dal 936) o il loro oppositore Rodolfo di Borgogna (re dal 923 fino alla morte nel 936). Eriberto non rivendica mai per sé il trono, e non nega, di volta in volta, ai sovrani la propria nominale sottomissione, ma è costantemente proiettato verso la costruzione di un principato territoriale e di un potere dinastico che sono strutturalmente incompatibili con una monarchia forte e autorevole. Parte fondamentale del suo schema è il controllo della sede arcivescovile di Reims, che fin dal 925 ha ottenuto fosse affidata nominalmente al figlio minore Ugo, all’epoca quinquenne, che il re nel 931 gli ha tolto nominando arcivescovo il monaco Artaud a lui fedele, e che Eriberto nel 940 ha ripreso con la forza e con l’aiuto del cognato Ugo il Grande, reinsediando il figlio sul trono episcopale. Il suo è un gioco che quasi non conosce regole, e per questo ci interesserà particolarmente studiarne le basi “culturali” e le implicazioni ideologiche sul versante dell’interpretazione del concetto di fedeltà. Dovremo tornare sulla sua figura, quasi immagine speculare di quella di Corrado, ma in realtà suo naturale complemento all’interno di un quadro sfaccettato e di una realtà estremamente composita.

La successione di Eriberto (che avrà anch’essa pesanti ripercussioni negli anni successivi) determina come conseguenza immediata un episodio minore nei fatti, ma con alcuni formidabili riflessi nel mondo delle ideologie e delle immagini mentali. Lo riportiamo con le parole stesse di Flodoard, che ci narra che “i figli [di Eriberto] lo seppellirono presso Saint-Quentin, e udendo che Rodolfo, figlio di Rodolfo di Gouy, era arrivato come per invadere la terra di loro padre, assalitolo lo uccisero.”

Questo è tutto ciò che gli Annales ci dicono di quel Rodolfo che nell’epica diventerà Raoul de Cambrai, protagonista ed eponimo di una delle chansons più interessanti e singolari. Ce ne resta una redazione tardiva, non anteriore all’ultimo quarto del XII secolo, ma che nel miscuglio tra realtà, leggenda e fantasia porta ancora vivi alcuni colori dell’epoca che pretende di descrivere, e getta su di essa una luce tutta particolare, aprendoci un ulteriore spiraglio verso la comprensione degli atteggiamenti mentali di un gruppo sociale che, nella solo apparente solidità, e nella sostanziale contraddittorietà, dei principi e dei valori che l’ispirano, appare alla (quasi disperata) ricerca di un’identità che la storia ha già cessato (o non è ancora in grado) di fornirgli.

È dello stesso anno 943 la nomina di Ugo il Grande (che tiene a battesimo una figlia del re) a duca di Francia, come risultato di un processo formale di riconciliazione (di assai breve durata, come vedremo) che sancisce un potere pressoché incontrastato del figlio di re Roberto I (e padre del futuro re Ugo Capeto) sulla regione compresa tra Loira e Senna, l’antico marchesato di Neustria affidato ai suoi avi già da alcune generazioni. Anche Ugo, come Eriberto, non pone mai la propria candidatura al trono dei Franchi, che preferisce sempre (nel 936 come poi nel 954) lasciare al “legittimo” sovrano Carolingio, ma la sua, spesso frustrata, ambizione è più grande di quella del cognato. Il suo modello (certamente non esplicito) sono forse i maestri di palazzo della tarda stagione merovingia, veri e inamovibili “primi ministri” di una monarchia che regna ma non governa. Su questa strada lo seguirà anche il figlio Ugo Capeto, fino al giorno in cui la dinamica storica imporrà una scelta radicale: ma a quel giorno manca ancora quasi mezzo secolo.

Spostiamo ora la nostra attenzione verso la frazione più orientale del territorio ex-carolingio, verso le terre tra la Mosa e l’Elba che nell’anno 943 sono soggette, in modi e forme differenti, alla sovranità di Ottone re di Germania. Ottone è succeduto, non senza contrasti, al padre Enrico l’Uccellatore (†2.VII.937); ha fondato Magdeburg, alla frontiera con gli Slavi, nel 937; si è fisicamente impadronito di Corrado Welf, erede minorenne del regno di Borgogna Giurana alla morte del padre Rodolfo [II] (937), e controlla quindi di fatto il piccolo regno alpino e gli importanti valichi delle Alpi occidentali; ha represso nel 938 la ribellione del fratellastro Tancmaro, ucciso negli scontri; ha battuto e visto morire ad Andernach nel 939 i duchi ribelli Gisleberto di Lorena ed Eberardo di Franconia (Gerberga, sorella di Ottone e vedova di Gisleberto, sposerà quasi immediatamente Ludovico [IV]); ha ottenuto nel 941 la definitiva sottomissione del fratello Enrico, che si era unito ai ribelli; ha imposto a Ludovico, con l’incontro di Attigny e il trattato di Visé del 942, la rinuncia ad ogni ulteriore tentativo di annettere la Lorena da parte del re Franco occidentale. In questo scenario di forte e crescente controllo su un paese che fino a quel momento era stato poco più che una federazione di ducati etnici (Sassonia, Franconia, Alamannia e Baviera) e di espansione in tutte le direzioni (oltre l’Elba a sottomettere e cristianizzare le tribù Slave, oltre il Reno per stabilire una ferma egemonia sulla Lorena) esiste tuttavia una variabile ancora completamente fuori controllo, costituita dagli Ungari e dalla loro quasi irrefrenabile mobilità, che li rende capaci di periodiche campagne di saccheggio, tanto feroci quanto efficaci. La sconfitta subita a Riade nel 933 ad opera di Enrico di Sassonia non ha impedito la grande incursione del 937, che giunge fino alla Borgogna e alla Champagne, né la spedizione in Sassonia del 938. Nel 942 e nel 943 gli Ungari sono in Italia, ma anche in Baviera, dove il 12 agosto sono fermati sulla Traun.

Ciò nonostante Ottone comincia già a guardare verso Mezzogiorno, e non soltanto verso il regno di Borgogna, la cui sovranità nominale giunge al Mediterraneo, dopo la rinuncia di Ugo d’Arles che nel 933, in cambio delle mani libere sull’Italia, ha lasciato a Rodolfo [II] tutti i diritti sulla Provenza, peraltro infestata dai continui saccheggi operati dai Saraceni, che dalla loro roccaforte di Fraxinetum, dove si sono stabiliti già dall’891, riescono a spingere le loro scorrerie fino al Piemonte e ai passi alpini. Nel 942 Ugo d’Arles ha tentato, con l’aiuto dei Bizantini, di portare un attacco definitivo contro la fortezza saracena, ma l’impresa è stata interrotta dallo squilibrio determinatosi con la fuga in Germania del suo più potente vassallo italiano, il marchese Berengario d’Ivrea, che dopo aver tramato a lungo contro Ugo, vistosi scoperto, è corso a mettersi sotto la (non certo disinteressata) protezione di Ottone. In uno scenario magmatico il re d’Italia giunge addirittura ad allearsi con i Saraceni, combattuti fino a quell’istante, per assicurarsi la chiusura dei valichi alpini a fronte di una possibile azione offensiva di Berengario e dei suoi alleati.

E veniamo infine alla Lorena, cuore dell’impero carolingio e quindi naturale terreno di scontro in tutte le lotte per l’egemonia su quanto resta di quella straordinaria costruzione. Controllata dai Carolingi di Francia fino alla deposizione di Carlo [III] nel 923, è passata con il suo duca Gisleberto all’obbedienza tedesca, rafforzata dal legame familiare che questi, come si è detto, ha stabilito con re Enrico. L’instabile Gisleberto, pur continuando a impicciarsi nelle contese tra i magnati di Francia, con un ruolo per molti aspetti non troppo dissimile da quello di Eriberto, suo frequente alleato, ha tendenzialmente mantenuto la Lorena nell’orbita dei sovrani transrenani fino alla grande ribellione del 939. Dopo la sua morte, e dopo un breve interludio in cui il paese è stato affidato a Enrico, fratello di re Ottone e ben presto anch’egli ribelle, nel 940/1 l’investitura è passata a Otto di Verdun, figlio di Ricuino, potente magnate lorenese con un forte radicamento territoriale, e con stretti legami familiari che lo uniscono agli altri principali clan nobiliari della regione. Ma la parabola di Otto sta concludendosi, e il rischio dell’ennesimo vuoto di potere in un’area così cruciale per gli equilibri interni ed esterni di due regni si profila rapidamente all’orizzonte.

E l’anno 943 degli Annales di Flodoard si conclude con una nota breve e in parte enigmatica, ma come vedremo densa di implicazioni: “Il re [di Germania] Ottone mise in prigione, avendoli catturati, certi fedeli di Ludovico che lo insidiavano; da ciò nacque uno scandalo tra gli stessi re.”.

 

Duca in Lorena, dux in Francia

Chi sono questi “fedeli di Ludovico” che insidiavano re Ottone? Autorevoli commentatori hanno creduto di poterli identificare con Reginaro e Rodolfo, che (sempre seguendo Flodoard) l’anno successivo, dopo che i loro castelli furono posti sotto assedio dal duca Ermanno di Svevia, chiesero perdono al re. Non obiettiamo a quest’ipotesi, ma crediamo che la vicenda vada comunque messa in relazione con altre, molto importanti per la nostra ricostruzione biografica. Troviamo il primo, e più diretto, riferimento in Widukind (R.g.S. II, 31), che ci parla dell’ordine di catturare e anche uccidere i ribelli, dato da Ottone soprattutto su suggerimento dei Franchi, Ermanno, Udo e “Cuonradus qui dictus est Rufus”. Poche righe più avanti (R.g.S. II, 33) apprendiamo che Corrado “adolescens acer et fortis, domi militiaque optimus, commilitonibus suis carus” alla morte di Otto fu investito del ducato di Lorena.

All’anno 944 (ma la data va corretta al 945, sulla base del diploma emanato da Ottone a Duisburg il 15 maggio di quell’anno: MGH Dipl. I, 146) troviamo nel Continuator l’informazione che lo stesso Corrado, qualificato come duca, in un placito del re a Duisburg con i magnati Lorenesi e Franchi (anche in questo caso intendendosi con tale etnonimo gli abitanti della Franconia renana), accusò di infedeltà a Ottone l’arcivescovo di Treviri Roberto (†19.V.956) e il vescovo di Liegi Richer (†23.VII.945), i quali furono però presto prosciolti dall’accusa.

Difficile credere che non vi sia alcuna relazione tra i due fatti, non solo perché in entrambi i casi si tratta di vicende e interessi incentrati sulla Lorena, e non solo perché nel caso di Richer ci troviamo di fronte a un fedele dei Carolingi di Francia, che deve il suo vescovado a Carlo padre di Ludovico, che nel 920 l’ha imposto contro il già eletto Ilduino, candidato della fazione filotedesca. Ci pare che la presenza, in entrambi i casi, di Corrado come consigliere e accusatore, oltre ad accomunare ulteriormente gli episodi, indichi anche l’importanza assai rapidamente assunta dal nuovo duca e il suo ruolo di rigido, e non certo diplomatico, garante degli interessi di Ottone.

È sicuramente un personaggio irruento, se già nell’anno 945 (ci dice il Continuator) tocca a re Ottone, che si trova in quell’epoca a Kassel, il compito di riconciliarlo con il duca Ermanno, con il quale Corrado pare avesse maturato “quasdam inimicitias”. Ma il 945 è anche l’anno in cui per la prima volta Ottone trova il modo di spendere le evidentemente eccedenti energie del duca di Lorena dentro il quadro della propria politica espansionista. Ugo il Grande, che sta tenendo in ostaggio il re Ludovico, gli ha chiesto un colloquio, ma Ottone, che è certamente pressato dalla sorella Gerberga in favore del marito di lei, e in più vuol sfruttare a proprio vantaggio il conflitto tra Ugo e Ludovico, preferisce inviare al colloquio il duca Corrado, il quale non deve rivelarsi un maestro di diplomazia, se dopo il colloquio Ugo risulta “indignato col re Ottone”, come ci riferisce Flodoard.

Non ci stupiamo troppo della (forse preventivata) conclusione bellica della vicenda: nel 946, dopo che nel frattempo Ludovico ha riavuto la libertà cedendo a Ugo la capitale Laon come prezzo del riscatto, Ottone, a capo di una vasta armata, portandosi dietro Ludovico e Corrado re di Borgogna in un ruolo palesemente subalterno, attraversa la Francia settentrionale, prende Reims ristabilendovi (questa volta definitivamente) l’arcivescovo Artaud, saccheggia le terre di Ugo (ma senza riuscire a conquistarne le fortezze) e fa ritorno in Germania.

In questa spedizione Corrado non compare esplicitamente (anche se interviene in favore di una certa Leva in un diploma di Ottone, senza data né luogo, ma senza dubbio dello stesso autunno 946: MGH Dipl. I, 159), ma la sua stella è comunque in ascesa, se l’anno successivo trascorre la Pasqua (11 aprile) col re ad Aquisgrana, ed essendo, secondo il Continuator, “regi … pene pre omnibus carus” ottiene di prendere in moglie Liutgarda (nata verso il 931), figlia del re e della sua prima moglie Editta (†946), a sua volta figlia di Edmondo re degli Angli. Quasi inutile ripetere qui per l’ennesima volta la straordinaria importanza che”sposare la figlia del re” (che è perfino un topos del folklore) ha nel sistema delle relazioni personali e politiche dell’alto medioevo; ci basti sottolineare che in questo caso specifico l’operazione matrimoniale si inquadra anche perfettamente nella politica ottoniana di sostituzione sistematica di tutte le dinastie ducali tradizionali della Germania, a forte base etnica, con una rete di “parenti del re” che (pur, come vedremo, tra alti e bassi) assicuri un livello di fidelizzazione alla corona decisamente più elevato.

Da questo momento in poi, e per qualche anno, Corrado unisce alla carica ducale una funzione meno formalizzata ma altrettanto necessaria alla strategia di Ottone: tocca a lui il compito di assicurare, con le sue truppe Lorenesi, l’interveto militare in Francia ogni qual volta se ne avverta l’esigenza. E le occasioni non mancheranno.

Nel 948, nel pieno dello scontro tra Ugo, che tiene ancora Laon, e Ludovico, che ora controlla Reims, si tengono numerosi sinodi a sostegno delle richieste del re di Francia: a Verdun, a Mouzon, ma soprattutto a Ingelheim, dove almeno trenta vescovi di Francia e di Germania, alla presenza del legato papale Marino, si pronunciano in favore di Artaud nella vertenza per l’arcivescovado. A questo punto Ludovico chiede ancora una volta l’intervento diretto di Ottone contro Ugo il Grande, e Ottone invia il duca Corrado, che con i suoi Lorenesi si porta nel distretto di Laon, assedia e prende, ma con fatica, il castello di Montaigu, tenuto da Teobaldo di Blois, e giunge fin sotto Laon, che però rinuncia ad assalire. Tiene anch’egli a battesimo una figlia di Ludovico, rinsaldando con questa parentela “morale” i vincoli familiari col re Carolingio, poi dopo aver distrutto il castello di Mouzon, roccaforte del vescovo scomunicato Ugo figlio di Eriberto, fa ritorno in Lorena. Tutta l’impresa non è memorabile, ma non dimentichiamo mai, seguendo queste vicende, che a Ottone (e quindi a Corrado) non interessa risolvere davvero tutti i problemi del cognato, che in assenza di altre preoccupazioni potrebbe avere un ritorno di interesse per gli affari di Lorena, ai quali, per tradizione familiare e per la collocazione geografica del proprio patrimonio, non è mai del tutto e veramente estraneo. Toccherà poi a Rodolfo (di Clastres?), padre dello storico Richer e fedele di Ludovico, riprendere Laon l’anno dopo con la forza e un po’ d’astuzia. E comunque la torre fortificata resterà ancora a lungo nelle mani degli uomini di Ugo.

Il duca Corrado, che il 15 maggio del 949 era ad Aquisgrana presso Ottone (MGH Dipl. I, 193), poco tempo dopo la presa di Laon riappare sullo scenario francese, inviato da re Ottone con un esercito “ex tota Belgica” (come ci segnala Richer (II. 92) con uno dei suoi consueti arcaismi), ma di fatto il suo compito (a conferma della nostra analisi precedente) è soltanto quello di negoziare tra Ludovico e Ugo una tregua fino al mese d’Agosto. Ci sembra invece poco probabile che egli abbia partecipato alla scaramuccia nei pressi di Senlis cui erano presenti “certi Lorenesi” e ai successivi saccheggi delle terre di Ugo.

Nel 950 Ludovico si reca da Ottone per chiedere ancora una volta il suo aiuto, ma questa volta con l’obiettivo di giungere a una pace effettiva. E Corrado è ancora una volta incaricato di gestire l’operazione. Si reca “con vescovi e conti” da Ugo, tratta, manda i propri conti a riferire a Ludovico le condizioni poste da Ugo, e ritorna in Germania. Il 27 febbraio 950 è probabilmente presso Ottone a Spira per rendere conto della missione in Francia. Quindi riprende la strada, e finalmente riesce a combinare un incontro di pace, che si tiene sul fiume Marna. Dopo un lungo andirivieni tra le due sponde del fiume, dove sono accampati i due avversari, si giunge a un accordo, del quale sono garanti, oltre Corrado, anche Ugo il Nero duca di Borgogna e i vescovi Adalbéron di Metz (†26.IV.962) e Fulberto di Cambrai (†1.VII.956). Ugo accetta di sottomettersi, prestando omaggio “per manus et sacramentum”, dice Richer (II.97), salvo continuare poi in futuro ad approfittare di ogni piccola occasione per colpire, se non il sovrano, almeno i suoi fedelissimi, e la torre di Laon è infine restituita al re.

È di quello stesso anno 950 un episodio d’incerta interpretazione, in quanto il Continuator lo riferisce a una neptis di re Ottone, e solo il più tardivo Thietmar (Chronicon, II, 24) fa invece espresso riferimento a Liutgarda, figlia di Ottone e moglie di Corrado. Si tratterebbe comunque dei seguenti fatti: un certo Corrado (Conone), figlio del conte Gebhard, della famiglia dei Corradini, avendo tentato senza successo di sedurre la figlia del re, la diffamò millantando di aver giaciuto con lei. Ottone informato dei fatti svolse un’inchiesta sommaria, e avuta dalla figlia una testimonianza giurata d’innocenza chiese ai suoi fedeli che qualcuno ne difendesse con le armi l’onore. Il conte Sassone Burcardo si mise a disposizione, dichiarando pubblicamente che Conone era un bugiardo. Ne seguì un duello in quel di Worms, nel quale Burcardo tagliò la mano destra a Conone, che fu così riconosciuto mentitore in base al “giudizio di Dio”. Questa stessa figlia di Ottone, sempre secondo Thietmar, sarebbe stata disprezzata dal marito (il nostro Corrado, quindi) e oppressa con lavori pesanti, e avrebbe sopportato la situazione con virile pazienza fino alla morte. Che fare di questa narrazione? Se accettarla al valore nominale sembra impossibile (anche per la confusione delle parentele), il fatto che sia stata raccontata sembra a noi indicare una ricerca, da parte dello storiografo, di qualche motivo evidente e facilmente comprensibile, per gli standard dell’epoca, per un sotterraneo dissidio che, forse non ancora alla data indicata, ma di certo poco più avanti, sarebbe esploso tra suocero e genero, e soprattutto tra sovrano e vassallo.

Se invece seguiamo il filo degli avvenimenti più concretamente attestati, troviamo che nel 951, quando Ugo il Grande, dopo avergli inviato in dono due leoni, fu invitato da Ottone a trascorrere la Pasqua insieme a lui ad Aquisgrana, Corrado fu poi incaricato di riaccompagnarlo fino alla Marna, e già che era in viaggio colse l’occasione per abbattere le torri di certi Lorenesi con i quali era irritato, per spogliare degli onori certi abitanti di Verdun e per impadronirsi di un castello del conte Reginaro [III] d’Hainaut, mentre metteva l’assedio anche alle altre fortezze dello stesso importante feudatario. Nella sua Historia Remensis Ecclesiae Flodoard ci racconta anche che in quello stesso anno fu inviato in missione da Ottone per recuperare certi beni della chiesa di Reims usurpati da un vassallo di Corrado, e che questi fece restituire il maltolto. Questa restituzione fu poi confermata da un diploma di Ottone, rilasciato a Bothfeld (presente Corrado) il 9 settembre 952.

Ma eventi di ben maggiore portata ormai incombevano: il 22 novembre 950 era morto a Torino, forse fatto avvelenare da Berengario d’Ivrea, il giovane re d’Italia Lotario, figlio di Ugo d’Arles, succeduto al padre che Berengario stesso, ridisceso in Italia nel 945, aveva costretto nel 946 ad abdicare e ad autoesiliarsi in Provenza (dove era poi morto il 10 aprile 947). Subito proclamatosi re, e incoronato a Pavia il 15 dicembre, Berengario non solo mostrava di non dare più alcun peso alle dichiarazioni di sudditanza e fedeltà rese a Ottone all’epoca dell’esilio tedesco, ma cercava anche di rafforzare il proprio potere sul regno costringendo Adelaide di Borgogna, figlia di re Rodolfo II e vedova di Lotario, al matrimonio con Adalberto, figlio ed erede dello stesso Berengario. Adelaide tentò la fuga in Germania, ma fu presa a Como (20.IV.951) e imprigionata (forse nel castello di Garda). Dopo una fuga rocambolesca, dal rifugio di Canossa offertole dall’emergente Adalberto-Atto (fondatore della dinastia Canossana) chiese soccorso a Ottone, e questi nel settembre del 951 prese la via del Brennero con un grande esercito, per andare a ristabilire un’egemonia che faceva ormai parte integrante del programma strategico del sovrano Sassone. Lo accompagnavano i fratelli Enrico, duca di Baviera, e Brunone, per il momento abate di Lauresheim, e non mancavano i tre arcivescovi tedeschi di Colonia, Magonza e Treviri. Con loro era anche Corrado, duca di Lorena.

 

Un’iniziativa non gradita

Nessuno oppose resistenza: il vescovo Manasse aprì le porte di Trento, il conte Milone quelle di Verona, e il 23 settembre Ottone entrò in Pavia, rapidamente evacuata da Berengario, e si proclamò re d’Italia, ricevendo subito l’omaggio di gran parte dei magnati del Regnum. Poi, prima che l’anno finisse, vedovo già da qualche anno, sposò Adelaide, legittimando in questo modo, se pure ce ne fosse stato bisogno, l’assunzione della corona italica. Fece un tentativo diplomatico volto a farsi ricevere a Roma, puntando probabilmente a un qualche tipo di consacrazione papale, ma Alberico, incontrastato signore della città, nemmeno ricevette gli inviati di Ottone. La Germania pareva inquieta, e nei primi mesi del 952 il re e la moglie “consors regni”, rinunciando per il momento ad ulteriori avventure italiane, passarono le Alpi, lasciando a Pavia il duca Corrado “ad persequendum Berengarium”, come ci dice il Continuator.

Ma questa volta (e sembrerebbe la prima volta) Corrado fece di testa sua, e aprì con Berengario una trattativa alla quale nessuno evidentemente l’aveva autorizzato. Sia stata l’abilità di Berengario, sia stata l’ansia di protagonismo di Corrado, fatto sta che i due si misero d’accordo su uno schema che comportava, a fronte di un atto di sottomissione da parte di Berengario e di suo figlio nei confronti di Ottone, il perdono e la restituzione di beni e poteri. Con questi patti Corrado e Berengario partirono insieme verso l’estate per la Germania. Ottone, sobillato anche dal fratello Enrico di Baviera che aveva evidentemente le proprie mire almeno sulla parte del Regnum più vicina ai territori da lui controllati, manifestò grandissima irritazione per l’iniziativa di Corrado. Quando Berengario giunse nella città in cui si trovava Ottone, gli fu imposto di restare chiuso nell’alloggio che gli fu destinato (una sorta di arresti domiciliari) e per tre giorni non poté nemmeno vedere la faccia di Ottone, secondo l’attendibile racconto di Widukind (R.g.S. III, 10).

Le cose alla fine non andarono poi tanto male a Berengario, che alla grande dieta di Augusta (agosto 952) ottenne il perdono del re (e della regina, ci ricorda Thietmar in Chronicon II, 3) e la restituzione della sovranità sull’Italia, anche se venivano sottratte al Regnum, per incorporarle al ducato di Baviera retto da Enrico, le marche di Verona e Aquileia, e se la corona d’Italia era concessa, a Berengario e al figlio Adalberto, soltanto a titolo di vassalli del re di Germania.

Ma l’iniziale comportamento di Ottone a sua volta offese profondamente Corrado, che trovò presto una consonanza con Liudolfo, figlio di primo letto di Ottone e da tempo ostile nei confronti dello zio Enrico. Secondo il Continuator poi questi fatti produssero anche un avvicinamento di Corrado all’arcivescovo Federico di Magonza, conclamato orchestratore di complotti contro Ottone e, fino a quel momento, nemico personale di Corrado stesso. Siamo chiaramente a un punto di svolta nella vita del duca di Lorena: se fino a questo momento ci è apparso come un mero e fedele esecutore della volontà del sovrano, ora comincia a dimostrarsi non soltanto capace di iniziativa autonoma (per quanto politicamente non brillante), ma anche per la prima volta incerto sul significato e sulle implicazioni della lealtà nei confronti del sovrano. Nel giro di pochi mesi, a partire da queste premesse, vedremo la situazione precipitare.

In quello stesso anno 952 Corrado ritorna ancora una volta in Francia, dove incontra Ugo il Grande sulla Marna, e insieme con lui pone l’assedio a Mareuil, una fortezza costruita sul fiume da un altro emergente, Rainaldo conte di Roucy, fedele dell’arcivescovo Artaud di Reims e vicino a re Ludovico. L’assedio è difficile e lungo, e comporta l’impiego di molte macchine da guerra e la perdita di molti uomini, ma alla fine il castello è preso e incendiato, dopo che i difensori, sulla parola di Corrado, sono usciti e se ne sono allontanati. Poi Corrado torna in Lorena, e Artaud e Ludovico ricostruiscono immediatamente la fortificazione. Le fonti tacciono, ma tutto farebbe pensare a un’iniziativa che già porti i segni di un certo dissidio con Ottone, che non si capisce perché avrebbe dovuto appoggiare questa spedizione sgangherata e apertamente ostile al re di Francia.

Come abbiamo già visto il 9 settembre 952 Corrado è poi a Bothfeld, e in un diploma di Ottone (MGH Dipl. I, 237) intercede per la restituzione dei beni renani della chiesa di Reims.

 

L’anno 953

Se già da tempo il fuoco forse covava sotto la cenere, fu nel 953 che la discordia, latente all’interno del clan ottoniano, prese la forma di un aperto conflitto. La causa scatenante fu la nascita (a cavallo tra la fine del 952 e l’inizio del 953) del primo figlio della regina Adelaide, battezzato Enrico come il nonno re di Germania. Sappiamo bene che l’assenza di un principio di primogenitura nella successione dei capi delle etnie germaniche fu un elemento permanente di instabilità per tutto l’alto medioevo, e l’ascesa al trono dello stesso Ottone non era avvenuta senza scontri. Di conseguenza Liudolfo, duca di Svevia, che all’epoca doveva avere circa 23 anni e che fino a quel momento era stato l’unico figlio maschio legittimo di Ottone, non poté non percepire nell’avvenimento una concretissima minaccia alla propria successione al regno, che fino ad allora tutti, a partire dal padre, avevano dato per scontata, al punto che, come ci riferisce Widukind (R.g.S. III, 1) quando Liudolfo raggiunse i 16 anni di età il padre provvide ad associarlo al trono facendolo riconoscere dai grandi come proprio successore. Notizia questa confermata in altra forma da Flodoard (anno 953), che ricorda che prima della partenza per l’Italia Ottone aveva imposto ai magnati di giurare fedeltà a Liudolfo, nell’eventualità di un proprio mancato ritorno. Valutando forse che la probabilità di ereditare il regno potesse per lui d’ora in poi soltanto diminuire, Liudolfo decise di giocarsi il tutto per tutto e organizzò la ribellione, con l’idea di rivendicare fin da subito per sé il regno. Aveva dalla propria parte i suoi sudditi Svevi, tra i quali pare fosse molto popolare, e poteva forse contare sul consenso di molti Bavaresi, che erano ostili al loro duca Enrico, suo zio, ma anche suo avversario.

A questo punto non ci stupiamo troppo di trovare Corrado tra i ribelli al fianco di Liudolfo. Ritorneremo sul significato ideologico di questa scelta; per il momento limitiamoci ad analizzare la sequenza dei fatti a noi noti, seguendo prevalentemente Widukind (di cui Thietmar fa poco più che una sintetica parafrasi) ma integrandolo con alcune annotazioni del Continuator e di Flodoard.

Celebrato il Natale (952) a Francoforte Ottone passò in Alsazia, dove donò l’abbazia di Erestein alla suocera Berta di Svevia, madre di Adelaide. (Continuator a. 953). Ma mentre il re tornava dall’Alsazia per celebrare la Pasqua (3 aprile), percorrendo la Franconia cominciò a rendersi conto dei preparativi di un complotto ordito da Liudolfo e Corrado, che raccoglievano giovani scontenti da Franconia, Sassonia e Baviera, preparavano armi e rafforzavano le proprie fortificazioni, senza nemmeno cercare di nascondere le proprie intenzioni.

Ottone pensò fosse prudente fermarsi a Magonza, chiedendo l’ospitalità dell’arcivescovo Federico, che all’epoca era impegnato nelle penitenze della Quaresima. La figura di Federico è certamente ambigua. Se Widukind (R.g.S. III, 15) ne sottolinea le virtù religiose sospendendo il giudizio sul suo ruolo nell’intera vicenda, il Continuator non dubita della sua complicità con i ribelli, asserendo che Federico cercò di non far entrare Ottone in Magonza (a. 953), e più avanti commentando nell’epitaffio (a. 954) nisi in hoc tantum videbatur reprehensibilis, quod, sicubi vel unus regis inimicus emersit, ipse se statim secundum apposuit.

Federico comunque favorì un tentativo di riconciliazione, nel quale Liudolfo e Corrado, presentandosi davanti al re, negarono ogni addebito diretto, manifestando soltanto una dura ostilità nei confronti del fratello del re, Enrico di Baviera, e minacciando di assalirlo se si fosse presentato per la celebrazione della Pasqua (a Ingelheim, secondo il Continuator a.953). Ottone fu almeno inizialmente costretto dalle circostanze a fingere di credere alla loro versione dei fatti. Chiese tuttavia che venissero fatti i nomi di quelli che avevano preparato la rivolta, per poterli punire, ma Federico cercò di convincerlo a rinunciare anche a questa richiesta, attirando però su di sé maggiori sospetti. La celebrazione della Pasqua, dapprima prevista ad Aquisgrana (Widukind, R.g.S. III, 14), avvenne invece nel villaggio di Drotmann (Continuator) nei pressi di Colonia. Dobbiamo forse leggere anche in questo episodio il segnale di una situazione di tensione diffusa e di scarsa sicurezza per il sovrano nell’area Francone e Lorenese. Dopo la Pasqua Ottone organizzò una grande assemblea a Fritzlar, in cui Enrico attaccò esplicitamente l’arcivescovo Federico. Fu forse in questa sede che il vescovo di Metz tentò una riconciliazione e molti Lorenesi si riavvicinarono al re. Dopo l’assemblea Ottone si ritirò temporaneamente in Sassonia, probabilmente per raccogliere truppe.

Si colloca in questo periodo, e cioè nella tarda primavera, lo scontro di Corrado con i sudditi Lorenesi, già forse da tempo insofferenti del suo controllo, e quindi pronti ad approfittare dell’ormai debole posizione del duca nei confronti del sovrano. A capo dei notabili Lorenesi che si opposero a Corrado troviamo Reginaro, conte d’Hainaut e nipote del defunto duca di Lorena Gisleberto. Reginaro assediò un castello di Corrado, che tentò di sciogliere l’assedio. Ci fu (forse sulla Mosa) uno scontro sanguinoso (Widukind, R.g.S. III 17) nel quale il duca, con truppe numericamente inferiori, combatté con coraggio leonino, uccidendo personalmente molti avversari, e perse il suo alleato ed amico Corrado, figlio di Eberardo. La battaglia si concluse al calar della notte senza un vero vincitore, ma in sostanza Corrado, di fronte al continuo rinforzarsi delle truppe nemiche, dovette ritirarsi (Annales, a. 953) e si diresse verso Magonza, contando evidentemente di ritrovarvi l’appoggio di Federico.

A questo punto la situazione precipitò definitivamente, poiché Ottone verso l’inizio di Luglio fece ritorno dalla Sassonia con l’esercito, dirigendosi anch’egli verso Magonza. L’arcivescovo Federico, che in teoria avrebbe dovuto difendere la città contro i nemici del re, si defilò, ritirandosi nel castello di Brisach (latibulum semper Deo regique rebellantium, sottolinea il Continuator) dove trascorse quasi tutta l’estate aspettando gli sviluppi della situazione. Magonza rimase quindi nelle mani di Corrado e di Liudolfo, che nel frattempo si era ricongiunto al duca.

Si deve probabilmente ricondurre a questo periodo un evento cruciale per Corrado: la decisione da parte di Ottone di spogliarlo del ducato di Lorena. Ciò che sappiamo per certo è che il 9 Luglio morì Wicfrido arcivescovo di Colonia, e che al suo posto Ottone ben presto ottenne che fosse nominato presule il proprio fratello Bruno, fino ad allora abate di Lauresheim. Contestualmente alla nomina, a quanto appare dai testi, Ottone affidò al fratello anche il controllo del ducato di Lorena, che quindi a quel punto era già stato sottratto a Corrado.

Giunto a Magonza Ottone circondò la città e pose l’assedio, che fu lungo e aspro (Widukind III, 18), con ampio uso di macchine d’assedio, rivelatesi tuttavia inefficaci, con numerosi scontri alle porte, ma anche con significativi temporeggiamenti, segno della mancanza di un chiaro consenso sia tra le truppe di Ottone che all’interno della città assediata, come i fatti successivi mostrarono poi più chiaramente. Notiamo che traspare già in questa fase, pur dal resoconto chiaramente filo-ottoniano dei narratori, l’esistenza di un dubbio di legittimità, serpeggiante tra molti dei magnati tedeschi, indecisi forse non solo opportunisticamente, ma anche “giuridicamente”, tra il dominator regni e il successor al quale pure avevano giurato fedeltà.

Dopo oltre due mesi d’assedio si cominciarono a intavolare trattative. Ottone concesse come ostaggio il cugino Ecberto, che entrò in città, permettendo in questo modo a Liudolfo e Corrado di uscirne per presentarsi davanti al re. Si riprodusse tuttavia nuovamente a fine estate la situazione già vista all’inizio della primavera, in quanto la condizione posta da Ottone per una pace duratura era la consegna dei complici, mentre Liudolfo si riteneva vincolato a proteggerli dal giuramento di fedeltà e quindi non poteva acconsentire alla richiesta. Vi fu uno scontro verbale tra Liudolfo ed Enrico (che in tutta questa vicenda appare dai testi come una sorta di anima nera, sempre pronto a sobillare Ottone contro i suoi avversari, anche quando la mediazione è ancora possibile), al termine del quale Liudolfo (e Corrado con lui) rientrò in città senza aver raggiunto un accordo col padre.

È sintomatico che in questa fase l’”ostaggio” Ecberto decida di schierarsi con Liudolfo. Secondo Widukind (R.g.S. III, 19) Ecberto era già irritato con Ottone per vicende precedenti, ma apparirebbe allora abbastanza incongruo che la sua consegna potesse essere apparsa agli assediati come una garanzia sufficiente. È vero piuttosto che la crisi stava rapidamente evolvendo, come appare chiaramente dal fatto che la notte successiva (Widukind, R.g.S. III, 20) i conti Bavari lasciarono Enrico e passarono a Liudolfo, con il quale si allontanarono di nascosto da Magonza per andare a prendere la capitale Ratisbona e altre città Bavaresi. Liudolfo si impadronì del tesoro di Enrico, dividendolo con i suoi, e cacciò dalla città Giuditta, moglie di Enrico, e i figli di questo. Un ruolo cruciale nell’operazione sembra aver avuto Arnolfo, fratello di Giuditta, e figlio diseredato del precedente duca autoctono di Baviera.

Appartengono a questa fase convulsa alcuni episodi che è difficile collocare con sicurezza nel corretto ordine cronologico. Ermanno Billung, duca di Sassonia, inviò verso Magonza in appoggio a Ottone un esercito comandato da Thiedric e Wichmann, che però furono circondati da Liudolfo e Corrado. Pattuita una tregua, ne seguì un tentativo di corruzione che non riuscì con Thiedric, ma ebbe successo con Wichmann, che insieme a Ecberto creò problemi in Sassonia al più importante alleato del re (Widukind, R.g.S. III, 23-25)

A questo punto Ottone, valutando evidentemente prioritario risolvere la crisi bavarese, decise di togliere l’assedio da Magonza. Secondo Flodoard vi fu in colloquio di Ottone con Corrado, nel quale fu pattuita una tregua con scambio di ostaggi, e mentre Ottone muoveva verso la Baviera Corrado tolse il proprio presidio da Magonza. Di Ottone basterà dire che pose l’assedio a Ratisbona, lo mantenne inutilmente per tre mesi, fino a Natale, e alla fine dell’anno si rassegnò a fare ritorno in Sassonia senza aver nulla concluso.

Seguiamo invece, sulla scorta di poche note di Flodoard, le vicende di Corrado. Lasciata Magonza, ma intenzionato a mantenere le ostilità, egli si diresse verso la città di Metz, che prese con un’irruzione improvvisa e inattesa, e che poi saccheggiò pesantemente, rassegnandosi ad abbandonarla, pare, soltanto a seguito delle pressanti esortazioni di Agenoldo, abate di Gorze dal 933 (e fin oltre il 967). Un altro evento cruciale per Corrado avvenne in quello stesso periodo: il 18 Novembre sua moglie Liutgarda, figlia di Ottone, morì, e fu sepolta nella chiesa di sant’Albano a Magonza. Anche quest’ultimo legame personale con il sovrano veniva quindi a mancare.

Il 953 si chiudeva quindi su una Germania drammaticamente divisa tra i sostenitori di Ottone e quelli di Liudolfo, senza che si profilasse ancora con chiarezza un possibile vincitore della contesa, al punto che la maggior parte dei notabili ecclesiastici, con la consueta prudenza, cercava di non prendere posizione o di barcamenarsi in attesa degli avvenimenti.

All’interno di questo scenario Corrado, che conforme al proprio carattere ha invece fatto una netta scelta di campo, appare tuttavia disorientato, forse confuso, di certo incapace di definire una propria strategia, inevitabilmente pronto a scelte estreme, come quelle che presto seguiranno.

 

Catastrofe e riconciliazione

Prima ancora dell’inizio della Quaresima (8 Febbraio) del 954 Ottone, ricostituito l’esercito, fece nuovamente ritorno in Baviera, dove la posizione dei ribelli si era evidentemente indebolita, al punto da indurre Liudolfo a una scelta estrema: la ricerca di un’alleanza con gli Ungari. L’accordo fu trovato, ma si trattava di alleati evidentemente incontrollabili, che una volta ammessi sul suolo tedesco si abbandonarono senza alcuna remora alla loro consueta pratica di scorrerie e devastazioni, sostanzialmente indifferenti alla (teorica) posizione di alleati o di avversari di coloro che si trovavano sul loro cammino. Il 19 marzo, la domenica prima di Pasqua, erano a Worms, dove ottennero la resa degli abitanti e ricche donazioni in oro e in argento

Corrado aveva ancora tentato, poco tempo prima, un incontro con i Lorenesi, ora capeggiati dall’arcivescovo Bruno, da tenersi nel pagus Blesensis presso il villaggio di Rimlinga (Continuator a.954), ma l’abboccamento, per cause sconosciute, non ebbe luogo. A questo punto, caduta ogni remora, si pose egli stesso alla guida degli Ungari attraverso il regno Lorenese e contro le terre del suo nemico Reginaro. Attraversò la vasta foresta Carbonifera, che rappresentava all’epoca una sorta di confine naturale tra i due regni, visitò Gembloux (Sigebert, Vita Wicberti c.14), il 2 Aprile saccheggiò Lobbes sulla Sambre e il 6 Aprile, passando per Liessies, giunse davanti a Cambrai. Gli abitanti, guidati dal vescovo Fulberto, si richiusero nella città fortificata, mentre i sobborghi furono saccheggiati e incendiati. Dopo tre giorni di inutili attacchi gli Ungari rinunciarono all’assedio, e seguendo un copione ben collaudato negli anni e decenni precedenti, si diressero verso Sud per fare ritorno alle proprie terre passando attraverso l’Italia. La loro azione era stata devastante ma totalmente priva di conseguenze strategiche, e aveva semmai alienato ulteriori consensi ai ribelli.

La Baviera, ora oggetto della non più divisa attenzione di Ottone, non era in grado di resistere a lungo all’esercito regio. Fu chiesta una tregua, e fu concessa fino a metà Giugno, dopodiché si tenne a Cinna un placito nel quale Liudolfo cercò di giustificarsi dall’accusa più grave, quella di aver chiamato gli Ungari, ma fu al solito duramente attaccato da Enrico, e se ne andò quindi a rinchiudersi a Ratisbona, ancora intenzionato a mantenere le ostilità.

Ma a questo punto la partita era ormai perduta, e di questo sembra fossero chiaramente coscienti sia l’arcivescovo Federico che Corrado, che infatti cercarono invano di persuadere Liudolfo a sottomettersi, e poi vista l’inutilità del tentativo lo abbandonarono, Deo regique sese iungentes, come scrive Widukind (R.g.S. III, 33). Di Federico resta poco da aggiungere, perché morì il 25 Ottobre di quello stesso anno, e fu subito rimpiazzato da Guglielmo, un figlio illegittimo di Ottone, che consolidava così ulteriormente il suo controllo sulla regione renana.

Anche la resistenza di Liudolfo non durò comunque a lungo. Assediato in Ratisbona, infine, dopo un mese e mezzo, e dopo la morte accidentale del suo ultimo alleato Arnolfo, dovette arrendersi e sottomettersi, implorando la pietà del padre. Ottone fu generoso, e gli concesse la grazia, ma lo spogliò del ducato di Svevia, che fu concesso a Burcardo, mentre la Baviera tornava nelle mani di Enrico.

Anche per Corrado ci fu il perdono, ma anche per lui non mancò la punizione. La perdita del ducato e degli altri benefici fu confermata, ed egli dovette ritenersi (con le parole del Continuator) vita et patria et predio contentus. La sua capacità di recuperare le grazie del re fu comunque subito notevole, e probabilmente legata alle sue non comuni doti militari. Lo vediamo infatti, in quello stesso anno 954 che avrebbe potuto segnare la sua definitiva rovina, inviato da Ottone a sostegno del marchese Gerone, nella sua infine vittoriosa lotta contro gli Slavi Ucri (Widukind, R.g.S. III, 42)

 

Il campo della gloria

All’inizio di Luglio del 955 Ottone, ancora impegnato sul fronte Slavo, ricevette con la massima disponibilità gli inviati degli Ungari, che parevano intenzionati a negoziare accordi di pace. Ma si trattò di una breve illusione, perché pochi giorni dopo la visita gli giunse dalla Baviera la notizia che una grande spedizione Ungara si era messa in moto, con l’evidente intenzione di mettere a ferro e fuoco l’intera Germania meridionale, e forse anche la Francia. Poiché i Sassoni erano impegnati sul fronte orientale, Ottone convocò ad Augusta i contingenti Franconi, Svevi e Bavaresi. A capo della cavalleria Francone troviamo ancora una volta Corrado, al cui arrivo, ci dice Widukind (R.g.S. III, 44), l’esercito fu talmente galvanizzato da dichiararsi pronto allo scontro immediato. Il cronista, che fino a questo punto non si era particolarmente sbilanciato in favore di Corrado, si lascia andare a questo punto a un elogio incondizionato: “Nam erat natura audacis animi et, quod rarum est audacibus, bonus consilii et, dum eques et dum pedes iret in hostem, bellator intolerabilis, domi militiaeque sociis carus.” E più avanti insiste definendolo “vir omni virtute animi et corporis magnus atque famosus” (R.g.S. III, 47): ma si tratta ormai di un epitaffio.

Abbiamo un resoconto molto accurato delle varie fasi della battaglia, che fu detta del Lechfeld perché si svolse intorno al fiume Lech, nei pressi di Augusta, e che evidentemente fu percepita fin da subito come un momento di svolta epocale. Ottone mise in campo otto “legioni”, di cui le prime tre costituite dai Bavari del duca Enrico, non personalmente presente perché già malato (e infatti morì di lì a poco). La quarta era appunto formata dai Franconi capeggiati da Corrado, mentre la quinta, di Sassoni, era comandata dal re. Nella sesta e nella settima stavano gli Svevi di Burcardo, mentre l’ottava, con le salmerie, era quella degli alleati Boemi condotti dal loro re Boleslao.

Ma gli Ungari, con abile tattica, passarono il fiume alle spalle dei Tedeschi e attaccarono proprio l’ultima e meno organizzata legione, impadronendosi delle salmerie e mettendo in fuga non solo i Boemi, ma anche i soldati della settima e della sesta legione. Fu a questo punto cruciale l’intervento di Corrado, che con un rapido assalto di cavalleria, la cui efficacia non mancò di stupire gli stessi veterani dell’armata regia, liberò i prigionieri e recuperò il bottino.

Nel giorno di san Lorenzo, il 10 Agosto del 955, Ottone, esortati i suoi, benedetto dal santo vescovo Ulrico e simbolicamente armato della Sacra Lancia, diede l’ordine di attacco generale.

Gli Ungari, forse ormai disorganizzati, non opposero una seria resistenza e dopo poco cominciarono a fuggire, inseguiti dalle truppe di Ottone. Molti furono uccisi, molti bruciarono nei villaggi in cui si erano rifugiati, messi a fuoco dagli inseguitori; il loro campo fu invaso e tanti furono presi prigionieri. La cattura e il massacro proseguirono poi nei due giorni successivi nell’intera regione, e i comandanti Ungari presi prigionieri furono condannati a morte e impiccati. A Lechfeld cessò definitivamente la minaccia Ungara sull’Europa occidentale, e la statura di leader di Ottone assurse altrettanto definitivamente a dimensioni continentali.

Ma la vittoria, come sottolinea il cronista (Widukind, R.g.S. III, 46) “non adeo incruenta fuit”. Accadde infatti che, essendo la giornata caldissima, il duca Corrado, in una pausa del combattimento, per cercare di rinfrescarsi un poco sciogliesse i legacci della corazza. Tanto bastò perché una freccia nemica lo raggiungesse e, trafiggendogli la gola, lo uccidesse all’istante. Il corpo, amorevolmente raccolto, fu per ordine del re trasportato a Worms e là onorevolmente sepolto “cum fletu et planctu omnium Francorum” (R.g.S. III, 47). Così esce per sempre dalle cronache Corrado il Rosso, ricordato ancora brevemente soltanto da Thietmar (Chronicon II, 24), che narra il recupero da parte di Ottone delle sue spoglie, finite non si sa come nelle mani di certi Slavi.

 

Eroe o fellone?

La vicenda di Corrado il Rosso ci è apparsa del tutto esemplare. Vincolato da un doppio giuramento di fedeltà feudale, al padre Ottone in quanto sovrano, ma anche al figlio Liudolfo in quanto erede formalmente e solennemente designato, nel momento in cui i due vincoli sembrano elidersi vicendevolmente egli compie una scelta che a noi pare “arbitraria” e opta per quello che ai nostri occhi parrebbe il più debole dei due impegni, sfidando un sovrano la cui legittimità non è inficiata da altra e autorevole fonte di legittimazione (come sarebbe accaduto per esempio in caso di scomunica).

Eppure non troviamo nelle fonti a noi accessibili, malgrado esse siano per lo più filo-ottoniane o al massimo neutrali, parole di severa condanna dell’operato di Corrado. Nel caso di Widukind possiamo anche pensare di attribuire questa cautela nel giudizio a un tratto caratteriale del cronista, come già abbiamo avuto modo di osservare a proposito del suo commento all’operato dell’arcivescovo Federico di Magonza. Ma abbiamo pur notato che sull’aspetto “eroico” del personaggio Widukind non lesina gli aggettivi. E il Continuator, che su Federico è tranchant fino al sarcasmo, non infierisce su Corrado, pur responsabile, anche al di là della “fellonia” vera e propria, di un’azione così grave come poteva esserlo a quel tempo aprire la strada alla devastazione Ungara. Flodoard (che ha il dono dell’understatement) sembra esprimere qualche riserva sul saccheggio di Metz, ma la critica è piuttosto sottintesa che dichiarata. Thietmar (forse semplicemente troppo lontano nel tempo dagli avvenimenti) sembra imputare a Corrado, sulla base di una notizia orecchiata e forse fraintesa, soprattutto la colpa di essere un cattivo marito.

Si tratta di pietà per l’eroe, che si è riscattato morendo gloriosamente? Forse, anche se ci pare un paradigma più adatto ad analizzare la letteratura romantica che non l’annalistica altomedievale. Noi pensiamo piuttosto che qui sia in gioco una concezione affatto differente della fidelitas, una concezione più “civile” che “penale”, per cercare di rendere l’idea usando un linguaggio moderno e consapevolmente anacronistico. Questa vicenda, come molte altre che proveremo a richiamare rapidamente nel seguito, ci suggerisce l’idea che la fidelitas fosse una sorta di contratto, con clausole e scappatoie, il cui rispetto era non solo legato al mutuo (e non unidirezionale) mantenimento degli impegni presi, ma anche soggetto a un’implicita “clausola di rescissione” ogni qual volta uno dei contraenti giungesse a ritenere troppo onerose per sé le condizioni pattuite. Se questa interpretazione può parere estrema (e certo non ci azzarderemmo a cercare di estenderla al di fuori dei confini di un secolo, qual è il decimo, molto complesso e assai poco riconducibile ai paradigmi di epoche precedenti o successive), restiamo tuttavia in attesa di spiegazioni altrettanto soddisfacenti del fatto che in un secolo “di ferro” anche il crimine più grave, quello di maiestatis, diede solo assai sporadicamente luogo a conseguenze altrettanto gravi per chi se ne rese colpevole.

 


Un secolo di traditori.

In attesa di un serio e sistematico censimento degli episodi di fellonia tramandatici dalle fonti (e delle loro conseguenze) vogliamo soltanto sommariamente ricordare un certo numero di casi eclatanti che si allineano a quello da noi fin qui esaminato. Già in questa stessa vicenda, accanto a Corrado, troviamo Liudolfo, le cui motivazioni materiali sono talmente chiare da esimerci dal bisogno di una chiave di lettura più introspettiva o addirittura psicoanalitica; ma troviamo anche Ecberto e Wichmann, parenti di Ottone, il primo addirittura consegnato dal re come ostaggio a garanzia della tregua. Sempre contro Ottone abbiamo già registrato, una quindicina di anni prima, la grande ribellione di Gisleberto di Lorena (genero del re) ed Eberardo di Franconia, che finirono per restare vittime, è vero, della loro scelta, ma probabilmente soltanto perché soccombettero sul campo di battaglia. Gisleberto poi non era nuovo a certi comportamenti, se Richer (che poteva forse avere anche qualche antico rancore familiare) ce lo propone come un archetipo dell’inaffidabilità, modellando la sua descrizione su quella sallustiana di Catilina. Eppure fino alla tragica morte per annegamento nel Reno, in fuga dopo la sconfitta di Andernach (939) non pare che Gisleberto abbia mai dovuto pagare il fio dei suoi continui cambiamenti di fronte.

Se ci spostiamo nel regno dei Franchi occidentali, non meno clamoroso ci appare il ruolo giocato da Eriberto II di Vermandois, che nel 923 con un atto di tradimento senza scrupoli e senza attenuanti cattura il proprio sovrano Carlo il Semplice e lo tiene prigioniero per sei anni, fino alla morte, salvo un breve periodo nel 928 in cui strumentalmente (ma sempre tenendolo in condizioni di libertà vigilata) finge di volerlo ristabilire nelle sue funzioni sovrane. Ma inutilmente cercheremmo in Flodoard, che ci racconta i dettagli di queste vicende, espressioni di condanna. La cosa si può certamente imputare a prudenza, vista la debolezza dell’annalista remense nei confronti di chi di fatto controllava la città di Reims. Ma di solito lo scandalo, quando è percepito come tale, traspare anche dal resoconto più velato, e qui non è il caso. C’è nella narrazione di Flodoard quasi la freddezza di un Machiavelli che descrive il modus operandi del Principe. Della stessa vicenda abbiamo anche il resoconto di Richer, che è assai più tardivo, e quindi non condizionato da pressioni ambientali, e inoltre scopertamente filo-carolingio, probabilmente per motivi familiari. Richer non esita quindi a condannare il tradimento, ma anch’egli deve ammettere che per la maggior parte dei contemporanei l’azione di Eriberto non risultò particolarmente esecrabile: in fondo il comportamento del re, poco rispettoso delle prerogative dei suoi magnati, giustificava ai loro occhi anche l’inganno e il tradimento.

Inganno e tradimento stanno al centro anche della vicenda che porterà all’uccisione, a Picquigny sulla Somme, di Guglielmo Lungaspada, figlio di Rollone e duca dei Normanni di Rouen, attirato in un’imboscata col pretesto di un incontro col conte Arnolfo di Fiandra. Nella romanzesca versione di Richer all’origine dell’episodio sta una questione di orgoglio ferito, in quanto Guglielmo avrebbe rimproverato ai magnati di Francia (in particolare Ugo il Grande e Arnolfo) la loro subalternità a Ottone nel colloquio di Attigny. Molto più concretamente era in gioco tra Fiamminghi e Normanni l’egemonia sulla fascia costiera della Francia settentrionale. Ma ciò che ci preme maggiormente notare, anche in contrapposizione al caso di Eriberto, è il fatto che in questo caso (ne è prova anche il già menzionato Planctus) i contemporanei furono fortemente colpiti dall’episodio, ma a quanto pare solo per la sua tragica conclusione, e non tanto per la rottura dei patti e dei giuramenti

La vicenda politica di Ugo il Grande duca di Francia è anch’essa un susseguirsi di atti di ribellione contro il proprio legittimo sovrano (peraltro in tutti i casi da lui fortemente sostenuto all’atto dell’insediamento). Ma anche quando i rapporti di forza si invertono e Ugo, scomunicato, non è più in grado di opporre una significativa resistenza, non si giunge mai a un processo vero e proprio, e la soluzione è ogni volta la formulazione di un nuovo patto di fidelitas, con clausole un poco diverse da quelle dei patti precedenti, quasi si fosse al termine non di un episodio di guerra civile ma di un’estenuante trattativa commerciale. E non molto diversa, nei vent’anni che separano la morte di Ugo il Grande dalla fine della dinastia Carolingia, sarà la traiettoria politica e umana di suo figlio Ugo Capeto. Si noti bene che stiamo sempre parlando di personaggi che non appaiono mai “titanici”, e quindi eventualmente riscattati dall’eroismo di qualche loro impresa esemplare.

Intorno a questi più visibili protagonisti c’è poi una selva di personaggi minori, piccoli felloni che consegnano un castello assediato in cambio di qualche promessa di arrangiamento personale, o trasferiscono opportunisticamente la propria fidelitas al magnate che appare detenere le maggiori chances di successo. Ne abbiamo contati a decine nelle cronache di Flodoard e Richer, e di alcuni ci sono stati tramandati anche i nomi, ma per dovere di cronaca, non per conservare la memoria di una condanna morale. In due soli casi, se non andiamo errati, la pena per il tradimento fu la condanna capitale (nel 960 a Dijon e nel 991 a Melun), e dalla lettura dei testi si ricava l’impressione che per i contemporanei il vero scandalo nascesse dal fatto che le sentenze furono realmente eseguite.

 

Vescovi infedeli

Un intero capitolo a parte meritano poi gli episodi di fellonia legati alla casta ecclesiastica. Anche qui si potrebbero moltiplicare gli esempi, ma vogliamo considerare soltanto i due casi che trovarono più ampio spazio nelle cronache.

Arnolfo era un figlio naturale di re Lotario di Francia, che grazie alla politica di appeasement di Ugo Capeto giunse nel 989, in assai giovane età, a occupare l’importantissima carica di arcivescovo di Reims, resa vacante dalla morte di Adalbéron. Suo zio Carlo di Lorena (fratello di Lotario), che rivendicava il trono, era riuscito nel frattempo a prendere la vicina Laon, vera e propria “capitale” carolingia, minando così seriamente l’autorità di Ugo. Arnolfo fu quindi spinto dai legami familiari e dall’opportunismo politico a passare dalla sua parte. Per mascherare il tradimento si servì del prete Adalger, che finse di rubargli le chiavi della città e aprì le porte di Reims agli uomini di Carlo. Dopo qualche giorno di simulata resistenza Arnolfo rinnegò la fidelitas che lo legava a Ugo e passò anche formalmente nel campo dello zio. Quando poi nel 991, grazie a un altro tradimento (di cui presto parleremo), Laon cadde e Carlo fu imprigionato, Arnolfo dovette subire un duro processo al sinodo di Saint-Basle. Fu deposto, è vero, ma non possiamo mancare di apprezzare che, nonostante l’imputazione fosse di lesa maestà, e le prove fossero schiaccianti, fu assicurata preliminarmente all’imputato la garanzia d’aver salva la vita, e che dopo poco tempo (forse un paio d’anni), mutando le circostanze politiche, Arnolfo poté rivendicare nuovamente, contro il suo successore Gerbert, la carica arcivescovile. E non solo Gerbert alla lunga dovette abbandonare Reims, ma per un’ironia della storia fu egli stesso, divenuto papa nel 999 col nome di Silvestro II, a riconoscere definitivamente il diritto di Arnolfo a occupare la sede remense. Per inciso, il prete Adalger se la cavò un po’ peggio, perché fu spretato, ma ebbe anch’egli salva la vita e dopo qualche tempo trovò un nuovo protettore nell’arcivescovo di Tours.

La storia di Adalbéron di Laon, più noto con l’ipocoristico Ascelin, è ancor più esemplare. Cancelliere di re Lotario nel 974 e vescovo di Laon nel 977, poco tempo dopo fu accusato di avere una relazione adulterina con la regina Emma. Il fatto che l’accusa fosse falsa (o dichiarata tale) non cancella il fatto che non dovette apparire del tutto inverosimile negli ambienti di corte, al punto che fu discussa nel sinodo di Sainte-Macre. Quando nel 988 Carlo di Lorena prese Laon, Ascelin riuscì a fuggire saltando dalle mura, ma dopo qualche tempo si presentò a Carlo, che fino a quel momento era stato un suo nemico personale, e riuscì non si sa bene come a entrare nelle sue grazie, offrendogli la propria fidelitas. Dopo una serata di bagordi, e dopo reiterati e sacrileghi giuramenti di fedeltà, narratici da Richer con dovizia di particolari, nella notte della domenica delle Palme del 991 Ascelin, nascoste le armi di Carlo, aprì le porte della città ai suoi avversari e lo fece imprigionare. Comunque si volesse giustificare l’azione di Ascelin, lo spergiuro era comunque patente e moralmente, se non politicamente, inaccettabile. Se poi in questo modo Ascelin poté ingraziarsi Ugo Capeto, quattro anni dopo era già pronto a tradirlo consegnando il sovrano e il paese a Ottone III di Germania. Fu messo sotto custodia, ma presto riprese la propria carica, che mantenne poi fino alla morte (1030), durante tutto il lungo regno di Roberto II il Pio. Sempre per un’ironia della storia fu poi lo stesso Ascelin che in vecchiaia, nel Carmen ad Rotbertum regem, lodando il buon tempo antico di cui si considerava evidentemente un illustre sopravvissuto, disegnò il quadro teorico dei tre ordini della società feudale, una società fondata su una fidelitas che egli per primo non si era mai seriamente preoccupato di rispettare.

Una voce fuori del coro

Fino a questo punto abbiamo cercato di ascoltare (o ricostruire) le opinioni che, sul tema della fedeltà feudale e in relazione agli episodi legati alla sua violazione, furono espresse dalle fonti più vicine alle vicende che abbiamo provato a raccogliere e confrontare. E non v’è dubbio che tali fonti debbano avere una posizione preminente nella formazione del nostro giudizio su questa materia.

Ma a nostro parere vale veramente la pena di giustapporre a questi testi un documento certo assai tardivo, nella redazione che ce ne è stata tramandata, ma per molti aspetti pertinente alla nostra analisi. Ci riferiamo alla già citata chanson de geste trasmessaci dal XII secolo con il titolo di Raoul de Cambrai, che merita la nostra attenzione non soltanto perché si riferisce, pur nella trasfigurazione letteraria, a un episodio storico reale e collocato nel pieno del periodo che stiamo esaminando, ma anche perché, a quanto ci sembra, essa conserva, attraverso quella che deve essere stata una lunga tradizione (se orale o scritta non sappiamo) anche la memoria di alcuni elementi di ideologia più facilmente riferibili all’epoca dei fatti narrati che non a quella dell’ultima redazione.

Come vedremo v’è in quest’epica ben poco che sia direttamente riconducibile alla visione idealizzata della cavalleria che tante altre chansons ci hanno trasmesso. Il Raoul de Cambrai è una voce fuori del coro, che ci parla di un’epoca nella quale le motivazioni all’uso della violenza come metodo standard per risolvere le vertenze non hanno ancora trovato il modo di travestirsi dietro “nobili” giustificazioni, e le cause materiali che spingono gli uomini a combattersi (e a tradirsi) emergono con una trasparenza talvolta impressionante. È una narrazione che contravviene alle regole basiche del romanzo, e rimanda piuttosto per certi aspetti alla fatalità della tragedia classica. Risulta impossibile, a chi scrive e a chi legge, individuare e separare chiaramente i buoni e i cattivi, ma questa maggior somiglianza con il mondo reale è ciò che ci rende più interessante il testo.

Ma prima di proseguire nell’analisi è opportuno cercare di sintetizzare la trama della chanson. Raoul è il figlio di Raoul Taillefer conte di Cambrai (in realtà Raoul di Gouy conte d’Amiens, morto nel 926), che non può succedere al padre nella carica comitale perché ancora bambino. Il re di Francia, che nella chanson è sempre Ludovico [IV], concede allora Cambrai a un suo fedele, spogliando Raoul (che è detto suo nipote) della legittima eredità. Quando Raoul raggiunge la maggiore età, ed è fatto cavaliere, chiede al re di essere reintegrato nei beni paterni, ma il re non acconsente a restituirgli il feudo. Nel frattempo è morto Eriberto di Vermandois (nel 943, come s’è visto) e Raoul chiede al re, in cambio di Cambrai, di subentrare a Eriberto. Il re dapprima rifiuta, ricordando che Eriberto ha quattro figli maschi, suoi eredi legittimi (i loro nomi nella chanson tuttavia non corrispondono a quelli reali), ma alla fine cede alla richiesta, senza tuttavia impegnarsi a sostenerla militarmente. Scoppia così la contesa tra Raoul e i figli di Eriberto, complicata dal fatto che Bernier, grande amico e fidelis di Raoul, è però il figlio (illegittimo) di Ybert, uno dei figli di Eriberto. Nonostante i consigli di Bernier e della madre, che gli suggeriscono di evitare il conflitto, Raoul, sostenuto dallo zio Guerri il Rosso (forse da identificarsi con un membro della famiglia degli Enguerrand, conti in Hainaut e Ponthieu), opta per la guerra aperta, entra nelle terre di Eriberto saccheggiandole e attacca la cittadina di Origny. Nell’incendio della chiesa muore la madre di Bernier, e questi giura vendetta contro Raoul e si ricongiunge al padre e agli zii. Segue un vano tentativo di riconciliazione, chiuso da uno scatto d’ira di Bernier, che tenta di uccidere Raoul. Si giunge infine alla battaglia campale, nella quale muoiono molti nobili cavalieri, e che si conclude con un duello nel quale Bernier ha la meglio su Raoul e lo uccide. Fin qui, con molte aggiunte di fantasia, incluso (per quanto ne sappiamo) il personaggio di Bernier, stiamo seguendo la traccia della reale vicenda storica. A questo punto la narrazione abbandona definitivamente ogni legame con la realtà, ma non perde di interesse per la comprensione dell’ideologia. Lo scontro resta sospeso per anni, fino alla maggiore età di Gautier, cugino di Raoul, che con l’appoggio di Guerri si incarica di vendicarlo. Dopo un inconcludente scontro armato si conviene finalmente di risolvere la vertenza con una singolar tenzone tra Gautier e Bernier. Il lungo duello riduce entrambi in fin di vita, ma non risolve il conflitto. Dopo qualche tempo re Ludovico convoca tutti i contendenti per convincerli alla pace, ma la tensione si alza e si giunge a un altro duello tra Bernier e Gautier, nel quale nuovamente entrambi giungono in fin di vita. Ma mentre sono curati i due si parlano, e riconoscono che la guerra deve finire. Si stabiliscono accordi di pace, che includono la successione di Bernier al padre in Vermandois. Il re però respinge questa soluzione, riservandosi di destinare la contea a un proprio fedele alla morte di Ybert. A questo punto le parti si capovolgono, perché gli antichi contendenti concludono che tutti i loro conflitti sono stati originati dal comportamento del re, si coalizzano contro di lui e mettono a ferro e fuoco Parigi. La chanson si interrompe qui, con i nuovi alleati che insieme si preparano a difendersi dal re.

Come si vede gli spunti per un’analisi sono moltissimi, a partire dal ruolo dominante dei legami familiari, che trasforma ogni conflitto in una faida, e dall’evidente contrapposizione tra un modello di feudalità incentrato sul potere del sovrano di disporre a proprio arbitrio del feudo alla morte del titolare e uno in cui il diritto di successione si applica al feudo come a ogni altro bene patrimoniale (con una chiara indicazione di preferenza culturale per questo secondo modello). Molto ci sarebbe da dire anche sul carattere totale e devastante dello scontro bellico, che coinvolge senza limiti e tutele le popolazioni, o sul ruolo giudiziario del duello (anche nel senso del “giudizio di Dio”, che il narratore richiama esplicitamente asserendo che la vittoria di Bernier su Raoul è dovuta al fatto che “la [sua] causa era giusta”). Ma gli aspetti che più ci interessa in questa sede sottolineare sono quelli relativi al senso e ai limiti della fidelitas. Ci sembra che a tale proposito l’elemento che emerge con maggior chiarezza sia il carattere non discriminante dell’impegno di fedeltà vassallatica nella formazione delle decisioni dei protagonisti. La fedeltà è riconosciuta e dichiarata, ma al momento della scelta di campo sono altri i fattori che determinano il posizionamento individuale: in primo luogo, come abbiamo già evidenziato, i legami familiari e di clan, poi gli interessi (e le vendette) personali. Un denominatore comune a questi due gruppi di motivazioni è l’esistenza di strategie dinastiche, che guidano le scelte profonde di tutte le parti in gioco, incluso il sovrano, e in nome delle quali si giustificano, almeno soggettivamente, scelte ed azioni che sono in tendenziale contrasto con il principio di fedeltà. L’altro aspetto che emerge con grande chiarezza è il carattere simmetrico della fedeltà, che una visione strettamente gerarchica del sistema feudale porterebbe a oscurare, fraintendendo un aspetto cruciale dei legami personali e sociali. Chi raccoglie un impegno di fedeltà con ciò stesso assume nei confronti del suo fedele un impegno altrettanto vincolante a difenderne gli interessi, ovviamente all’interno di un quadro di pattuizioni che definiscono ciò che è esigibile e ciò che è inesigibile. La violazione di questo impegno di tutela è clausola risolutiva del “contratto” di fedeltà, ed è ciò che legittima, nella chanson, il distacco di Bernier dalla fedeltà a Raoul e l’insurrezione finale di tutti i contendenti contro il sovrano. Che poi dialetticamente le parti si scambino accuse di tradimento sembra quasi far parte di un rituale, senza che questa parola, apparentemente carica di connotazioni negative, abbia in realtà il potere di modificare il giudizio di chicchessia (personaggio o lettore) sulla legittimità delle azioni compiute.

Quanto di questi contenuti ideologici e culturali del Raoul de Cambrai appartiene al secolo X in cui la chanson è ambientata ed è stata (fuor di ogni ragionevole dubbio) inizialmente composta, e quanto invece è rinviabile a incrostazioni successive, dovute a cambiamenti di prospettiva intercorsi durante gli oltre due secoli della tradizione orale? È una domanda alla quale è difficile dare una risposta precisa, fondata su basi analitiche, ma quella che a noi pare una perfetta consistenza logica tra questa narrazione e le vicende storiche reali cui abbiamo in precedenza fatto riferimento ci induce a pensare che ci troviamo in presenza di un documento che riflette in modo non troppo mediato una percezione del significato dei rapporti di fedeltà che già apparteneva in larga misura agli uomini del X secolo.

L’”eroe fellone” letterario Bernier, che può tradire e addirittura uccidere il proprio signore feudale in nome di altri princìpi, avvertiti come preminenti dalla coscienza collettiva, si affianca all’”eroe fellone” Corrado, figura pienamente storica e ben poco idealizzata dai cronisti, che ce lo mostrano altrettanto pronto a catturare il suo re che a farsi uccidere per lui. Leggiamo in queste contraddizioni e in queste ambivalenze i segni di un’epoca di mutazione, senza pretendere di trarne alcuna conclusione troppo generale se non (ancora una volta) un ammonimento sull’ampiezza dello iato che ha spesso separato (e separa) le idee e le visioni degli uomini dalle loro azioni concrete.