Il Canone XVII del Concilio di Calcedonia del 451 stabilisce testualmente : “Se poi una città fosse stata fondata o è fondata dal potere imperiale, anche l’ordinamento delle parrocchie ecclesiastiche segue le circoscrizioni civili e pubbliche.”

Questo principio è così profondamente radicato in tutta la tradizione organizzativa della Chiesa cattolica che lo troviamo, pressoché immutato, nelle previsioni del Trattato del 1929 tra la Chiesa e lo Stato italiano, e soltanto una “leggerezza” postconciliare ma soprattutto postmoderna lo vede rilassarsi e scomparire negli accordi di revisione del 1984.

Ma per millecinquecento anni di storia, almeno italiana, assistiamo al continuo tentativo, sempre necessariamente imperfetto e malriuscito, di allineare strutture amministrative civili ed ecclesiastiche, in un’altalena di priorità ovviamente dipendente dalle contingenze e dagli equilibri politici e sociali dell’epoca e della regione cui si voglia di volta in volta fare riferimento.

All’interno di questa “tres logue duree” è quindi possibile rintracciare un filo rosso che lega, tramite il rapporto dialettico con la diocesi di riferimento, il comitatus imperiale a quello feudale, il comune cittadino alla provincia postunitaria, passando perfino attraverso i Dipartimenti napoleonici.

Forse non è vero che studiamo il passato per capire il presente, più probabilmente inventiamo ogni volta il nostro passato per giustificare il nostro presente. Ma questa professione di relativismo non ci esime dal tentativo, rinnovato in ogni generazione, di oggettivare le nostre conoscenze alla luce di ogni nuova acquisizione documentaria e metodologica.