I PROBLEMI DELL’ATENEO

(intervento al Corpo Accademico del 22 maggio 2006)

 

Cari colleghi,

            io prendo qui oggi la parola per adempiere, con grande fatica psicologica personale, all’ obbligo morale, che sento fortemente in un’occasione come questa, di esporre pubblicamente il mio punto di vista sui problemi dell’Ateneo, con spirito di servizio e nella speranza che chi sarà chiamato a dirigerla possa trarre qualche spunto per tentare di risolverne almeno qualcuno.

            Chi mi conosce sa che da molto tempo ho maturato la convinzione che i problemi della nostra Università siano ben più impegnativi di ciò che un singolo, anche illuminato, Rettore pro tempore può pensare di fare nel corso del suo mandato. Perciò non me ne vogliano i colleghi candidati se esprimo fin d’ora tutto il mio scetticismo rispetto alla probabilità che i programmi che ci hanno qui esposto possano essere realizzati, se non molto parzialmente. Io credo infatti che un cambiamento reale, a mio parere necessario e prima o poi inevitabile, richieda innanzitutto una diffusa consapevolezza della sua necessità e una diffusa partecipazione alla sua realizzazione. E invece questo Corpo Accademico si presenta al rituale appuntamento elettorale con le usuali modalità, schierandosi per lo più sulla base di appartenenze, siano esse di Facoltà, di Dipartimento o di settore disciplinare, e non sulla base di una precisa volontà di andare in una specificata direzione. Anzi, per essere più preciso e più tranchant, da molti indizi credo di poter dire che la volontà dominante in questo, come in molti altri Corpi Accademici, sia quella di non andare da nessuna parte, di lasciare per quanto possibile le cose come stanno, preservando ogni minuscola particella di micropotere, ogni sedimentata incrostazione organizzativa, ogni anche superflua istanza decisionale o consultiva. E questo al di là di ogni ideologia e di ogni logica di schieramento.

Date queste premesse me ne viene l’obbligo di specificare con chiarezza quali siano questi nodi che a mio parere dovrebbero essere sciolti con scelte radicali, prima che le circostanze esterne impongano decisioni che a quel punto sarebbero necessariamente affrettate, casuali e inefficaci.

Per non approfittare troppo della vostra pazienza parlerò soltanto delle cose che ritengo più importanti, anche se ovviamente ce ne sarebbero molte altre.

Per la didattica è (o meglio sarebbe) stagione di tagli drastici. Tutte le iniziative, anche lodevoli, che non hanno incontrato una risposta adeguata dovrebbero scivolare molto rapidamente nel dimenticatoio, per permettere all’Ateneo di concentrare le proprie risorse soprattutto in quegli ambiti nei quali si focalizza la domanda sociale di formazione. Domanda che, sia ben chiaro, non si quantifica solamente sulla base del numero delle iscrizioni, ma che va misurata anche sulla base degli indirizzi generali di politica economica, scientifica e culturale del Paese e sulla risposta che il mondo del lavoro ci sta dando in termini di assorbimento dei nostri diplomati (di ogni livello). Il pur doveroso mantenimento di presídi di insegnamento e di ricerca in settori nei quali non c’è oggi un adeguata domanda di formazione non può e non deve superare la soglia minima di sopravvivenza. Sono ancora troppi i colleghi che, a fronte del carico esorbitante di altri, riescono a mantenere livelli d’impegno assolutamente minimali, anche abbarbicandosi a una titolarità ormai formalmente scomparsa ma che ha trovato una nuova roccaforte dentro il  perimetro apparentemente invalicabile del (micro)settore scientifico-disciplinare.

Discorso analogo vale per la ricerca: non si può fare bene tutto, e quindi bisogna fare soprattutto ciò che si sa fare meglio, ma anche qui riconoscendo l’esigenza di dare risposte alle domande specifiche che la società ci pone (risposte che, si badi bene, richiedono almeno tanta ricerca cosiddetta “di base” quanta ricerca cosiddetta “applicata”), e non soltanto quella di soddisfare le proprie solipsistiche curiosità intellettuali, ma soprattutto non soltanto cercando di mantenere artificialmente in vita quei filoni di ricerca ai quali ognuno di noi è comprensibilmente affezionato, avendovi dedicato spesso l’intera esistenza, ma dei quali la storia ha talvolta già decretato la morte clinica.

Non insisterò su didattica e ricerca, che pure sono e devono rimanere la principale missione dell’Università come istituzione, perché credo di aver chiarito, seppur schematicamente, il mio punto di vista. Ci sono infatti altri temi sui quali le scelte che si impongono sono a mio avviso ancor più drammatiche.

Penso all’edilizia, per la quale non esistono ormai più margini per soluzioni palliative: si devono adottare strumenti gestionali e finanziari di tipo fortemente innovativo, che a mio parere comportano in primo luogo il passaggio a una gestione di tipo privatistico, e parallelamente la ricerca di partners in grado di immettere nel sistema una quota significativa di capitali d’investimento (non penso tanto a venture capital quanto a fondi pensione e ad azionariato diffuso, a cominciare dagli stessi dipendenti dell’Ateneo). Se non si farà questo anche il migliore e più largamente condiviso piano edilizio è destinato a rimanere un “libro dei sogni”, perché non c’è e non ci può essere né la capacità tecnica né quella finanziaria per realizzarlo.

Penso al bilancio, il cui disavanzo diventerà assolutamente insostenibile in un arco di tempo molto breve (due-tre anni) e che quindi richiederà cure da cavallo su diversi fronti: quello del personale in primo luogo, con la presa d’atto che anche il personale a tempo determinato costa, e che gli impieghi devono essere drasticamente razionalizzati, superando ogni logica di difesa dello status quo e ogni automatismo nell’assegnazione e riassegnazione delle risorse. Questo non significa precludere il reclutamento: significa l’esigenza di ancorarlo a una logica non solo formale di programmazione, e agire con estrema e doverosa onestà nei confronti di tutti coloro che oggi stiamo indecorosamente illudendo e ai quali non saremo purtroppo mai in grado di offrire un vero e dignitoso posto di lavoro.

Penso ai costi crescenti di un’organizzazione che disperde grandi energie a causa della parcellizzazione delle competenze e della proliferazione dei centri di spesa, Come Direttore di Dipartimento assisto a continui e inevitabili balletti di risorse assegnate ad A perché le destini a B e a B perché le destini ad A, quando logica vorrebbe che al posto di entrambi ci fosse un’unica entità erogatrice di servizi e responsabile del budget. Conseguenze dell’assetto attuale sono rallentamento del funzionamento, conflitti di competenza e di interessi, deresponsabilizzazione individuale e collettiva. Mentre invece c’e’ un intenso bisogno di semplificazione istituzionale da un lato, per migliorare la qualità della vita e del lavoro di tutti noi, e di precise assunzioni di responsabilità dall’altro, perché risulti sempre a tutti chiara l’attribuzione del merito (o demerito) delle scelte. E c’è bisogno di governo vero e autorevole, non perennemente condizionato dai diritti di veto che qualunque portatore di interessi (non necessariamente legittimi) si sente intitolato a esercitare.

Ma tutte queste cose importanti  non si fanno e non si potranno mai fare con il vigente sistema di governance, sia a livello centrale, con la schizofrenica ripartizione delle competenze tra Senato, Consiglio d’Amministrazione, Prorettorati e Uffici Amministrativi, sia soprattutto a livello locale, con il perverso dualismo Facoltà-Dipartimenti abbinato alla proliferazione di Biblioteche, Centri, Poli, e quant’altro. Siamo ancora vittime della mancata riforma del 1969 (il d.d.l. 612, per chi ha buona memoria), e stiamo ancora pagando il prezzo di infinite “rivoluzioni” incompiute.

Ma quando questi temi sono stati portati all’attenzione del Senato Accademico la ripulsa è stata unanime e trasversale, indipendentemente dalla provenienza e dalla collocazione dei colleghi.

E forse aveva ragione (e qui mi avvio a concludere con una citazione che la mia non ambigua storia politica mi permette di fare senza indurre strani sospetti) il ministro Bottai quando già nel lontano 1940 scriveva “l’università italiana non ha bisogno di una nuova riforma di struttura, quanto di una riforma morale, del costume dei suoi docenti e dei suoi discenti.”

Grazie per la vostra attenzione.

 

Paolo Rossi

Diretttore del Dipartimento di Fisica “E. Fermi”

Rappresentante dei Dipartimenti nel Senato Accademico dell’Università ddi Pisa