I FALSI PROBLEMI
DELL’UNIVERSITÀ’
(Paolo Rossi – 12
aprile 2005)
Un promemoria per chi ha
voglia di pensare seriamente a un futuro programma di governo
DIDATTICA:
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Il
nuovo ordinamento 3+2 non ha abbassato “per legge” il livello degli studi
universitari. L’impoverimento culturale, quando c’è stato e dove c’è stato, è
il risultato delle scelte fatte in autonomia dei singoli Atenei, Facoltà e
Corsi di Studi, il più delle volte strumentalmente al fine di ritagliare spazi
più ampi a specifici settori scientifico-disciplinari dotati di maggior potere
contrattuale sulla base degli equilibri accademici, e con la lusinga
dimostratasi poi falsa che ciò preludesse a un’espansione numerica per il
personale docente delle aree che avevano conquistato gli spazi più ampi. In
altri casi, e spesso in buona fede, è stata data una lettura ingenua del
concetto di professionalizzazione, che ha portato a privilegiare aspetti
ritenuti più facilmente spendibili sul mercato del lavoro (spesso con
valutazioni abbastanza erronee della richiesta reale) a scapito di una
formazione culturalmente più solida e sicuramente più pagante nel medio
periodo, soprattutto in regime di flessibilità occupazionale. Questi errori
potevano (e potrebbero) essere evitati senza bisogno di mettere mano a
modifiche radicali dell’impianto tendenti ad allontanarci da un processo, già
avviato, di armonizzazione europea degli ordinamenti.
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In
subordine al precedente, è un falso problema la proliferazione delle
denominazioni dei corsi di studio. Nella misura in cui il valore legale del
titolo di studio (altro falso problema, comunque) resta legato alla Classe, la
proliferazione può essere nella migliore delle ipotesi un’opportunità di
espressione di vocazioni particolari delle sedi e dei loro territori, nel
peggiore dei casi un fatto puramente folcloristico, che produce danni reali
solo quando non siano rispettati requisiti minimi (quantitativi e qualitativi)
rigorosi (o comunque più rigorosi di quelli attuali)
RICERCA:
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E’
un falso problema la contrapposizione tra ricerca di base (o cosiddetta
fondamentale) e ricerca finalizzata, vista come opzione cruciale da effettuare
nel momento in cui vengono direzionati gli investimenti. Nei settori più
avanzati, che dovrebbero essere anche quelli che stanno più a cuore di tutti, e
che sono comunque quelli che in ogni caso richiederebbero i maggiori
investimenti, la distanza tra ricerca di base e ricerca applicata è nel mondo
contemporaneo sempre più breve, perché le dinamiche dell’interscambio culturale
e dell’interdisciplinarità favoriscono uno scorrimento di idee e un
trasferimento di metodologie sempre più rapido ed efficace. La contrapposizione
vera è quella tra buona e cattiva ricerca, dove la cattiva ricerca è spesso
proprio quella dettata dall’esigenza di mascherare con l’abito dell’immediata
spendibilità alcune attività che invece nella sostanza obbediscono solo alla
logica interna dell’accademia, in primo luogo la perpetuazione delle “scuole”
anche ben oltre i limiti storici di validità culturale dei loro presupposti
concettuali.
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L’incomparabilità
degli ambiti disciplinari è uno dei baluardi di chi difende i meccanismi di
finanziamento a pioggia delle attività di ricerca. Si potrebbe anche ammettere
che, per decidere gli investimenti, la valutazione delle priorità tra
differenti e specifici ambiti disciplinari debba essere un fatto essenzialmente
e irriducibilmente politico, ma non andrebbe comunque trascurata la possibilità
di individuare criteri di valutazione quantitativa della domanda sociale, che non
si esprime soltanto con il numero delle immatricolazioni ma anche, e forse
principalmente, con i differenti livelli di richiesta di competenze provenienti
dal mondo produttivo e, in modo complementare, con i differenti livelli di
richiesta sociale di servizi, materiali e culturali. E in ogni caso la
conclamata incomparabilità non può assumere il carattere solipsistico implicato
dall’attuale struttura dei settori scientifico-disciplinari, nei quali al
limite (ma non ne siamo più molto lontani) solo il singolo ricercatore, unico esperto della materia, è competente a
giudicare la qualità della propria ricerca. Sono perfettamente immaginabili
agenzie di valutazione, terze sia rispetto al mondo accademico che rispetto alle
istituzioni strettamente politiche, e in grado di esprimere un giudizio di
merito sulla qualità, e non solo sulla quantità, della ricerca scientifica di
individui, gruppi e istituzioni di ricerca.
DOCENZA:
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E’
un terribile ma suggestivo paralogismo quello per cui, dal fatto che
l’Università italiana è mediamente “vecchia”, deriverebbe che essa sia
destinata a svuotarsi rapidamente della maggior parte del proprio corpo
docente. In realtà la distribuzione anagrafica della docenza è, per motivi che
trovano una banale spiegazione nella storia legislativa dell’Università,
estremamente concentrata intorno ai valori medi, che per quanto elevati (59
anni per gli ordinari e 52 per gli associati) sono del tutto compatibili, a
legislazione invariata, con un’ancor lunga permanenza in ruolo (o fuori ruolo),
non inferiore in media a una quindicina d’anni, tenendo conto del fatto che gli
ordinari più anziani possono restare in servizio fino al compimento del
settantacinquesimo anno d’età, e tutti
gli associati fino al settantesimo. Guardando poi al dettaglio della
distribuzione si scopre che, almeno per i prossimi sette anni, il livello dei
pensionamenti sarà addirittura irrisorio, non solo di molto inferiore al
turnover necessario per assicurare una crescita equilibrata, ma addirittura
insufficiente a garantire nel lungo periodo anche soltanto il mantenimento dei livelli numerici attuali,
se non vi saranno adeguate (e necessariamente eccezionali) politiche di
sostegno al reclutamento. Non solo questo è un fenomeno predicibile, ma è anche
già accaduto, in questo stesso Paese, e
la carenza di personale scientifico nella fascia d’età che attualmente sta tra
i 45 e i 50 anni è già chiaramente avvertibile in molte situazioni.
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L’eventuale
immissione degli attuali ricercatori in un’eventuale terza fascia del personale
docente è quasi il prototipo di come i problemi dell’università possano venire
deformati e travisati al punto da renderne apparentemente impossibile la
soluzione anche quando in realtà manca la sostanza del contendere. In primo
luogo chiunque neghi l’esigenza della creazione della terza fascia, o non
conosce la realtà universitaria, nella quale la terza fascia esiste già di
fatto anche se non di diritto da almeno quindici anni, o la vuole
stravolgere in modo non dichiarato in
favore di modelli diversi nei quali si darebbero comunque soltanto due
possibilità: o una riduzione del fabbisogno di docenza mediante una restrizione
generalizzata degli accessi, in contrasto con ciò che avviene nel resto del
mondo, o la creazione di un ampio e permanente precariato docente,
sostanzialmente estraneo alla ricerca e puramente finalizzato alla gestione di
un’università di massa licealizzata e senza qualità (ma in questo caso non si
capisce perché un servizio pubblico comunque costoso e necessario dovrebbe
essere gestito con modalità che a livello liceale nessuno si sognerebbe di
proporre). Se partiamo quindi dal presupposto che la terza fascia, più ancora
che necessaria, è inevitabile (anche economicamente, perché non ci possiamo
permettere un numero congruo di docenti, anche soltanto al costo
dell’associato), e che i numeri possono essere soltanto uguali o meglio
superiori a quelli attuali, e se diamo per scontata l’impossibilità politica e
strutturale di espellere chicchessia, allora la richiesta di non immettere automaticamente
(e, si noti bene, a costo zero) tutti gli attuali ricercatori in terza fascia
non trova alcun fondamento se non di tipo nominalistico, fatta salva qualche
più o meno inconfessabile esigenza di “numero chiuso” nel caso di settori
legati a professionalità molto remunerative in contesti ovviamente
extra-accademici.
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L’ultima
parte del punto precedente si lega a un ulteriore falso problema: quello della
distinzione tra tempo pieno e tempo definito. La distinzione sarebbe
perfettamente possibile e legittima, forse anche utile proprio nei settori
fortemente professionali in cui alcune competenze di elevata qualità sarebbero
difficilmente remunerabili in misura adeguata ai valori di mercato volendo
rimanere nell’ambito strettamente accademico. Il problema è solo quello di una
seria implementazione, che sgombri il campo dagli abusi anche clamorosi
consentiti da una normativa barocca e farraginosa ma spesso facilmente
aggirabile qualora nel contesto accademico di riferimento prosperi una cultura
diffusa della cattedra come sinecura e soprattutto del “vivi e lascia vivere”.
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Il
falso problema “per eccellenza” dell’Università italiana è comunque quello dei
concorsi (o valutazioni comparative che dir si voglia). Esistono al mondo
differenti sistemi universitari che funzionano abbastanza bene, e sono basati
sui più diversi sistemi di reclutamento. Viceversa non è mai esistito, e non è
nemmeno immaginabile, un sistema di reclutamento che, in quanto tale, e solo
grazie alle procedure, garantisca la qualità dei reclutati e l’imparzialità dei
giudizi. Fintantoché le Università che reclutano personale scadente non ne
pagheranno comunque nessuna conseguenza pratica non ci sarà mai un sistema di
progressione di carriera veramente funzionante. Il problema quindi è quello di
stabilire meccanismi di valutazione “ex post” delle scelte fatte e di prevedere
a seguito di valutazioni negative effetti sanzionatori (non necessariamente
economici, ad esempio blocco o riduzione di ulteriori progressioni). Un sistema
di premi e punizioni realmente efficiente ed efficace, unito a forti incentivi
anche economici alla mobilità del personale docente, renderebbe l’intero
apparato concorsuale praticamente inutile. Eventuali “sacche” di resistenza
alla meritocrazia sarebbero prima o poi condannate a marginalizzarsi o a
estinguersi.
GOVERNANCE:
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Pensare
che i problemi degli Atenei possano derivare da un troppo scarso potere dei
rettori, o dall’articolazione degli organi centrali di governo, è un’illusione
che può diventare pericolosa se tutta l’energia riformatrice si dovesse
concentrare su questo punto specifico. Il problema non sta tanto negli organi
centrali quanto in quelli decentrati, e nei rapporti tra organi “politici” e
organi amministrativi. L’organizzazione per Facoltà, ancora così radicata nella
coscienza soggetttiva e collettiva degli universitari, è totalmente superata
dalla storia e più specificamente, che piaccia o no, a seguito dell’autonomia e
della riforma degli ordinamenti didattici.
La doppia affiliazione, per Facoltà e Dipartimenti, è spesso una
finzione (laddove le Facoltà sono omogenee e i Dipartimenti sono privi di reale
importanza), oppure diventa un elemento di attrito e di contraddizione (laddove
le Facoltà diventano federazioni di Dipartimenti “forti” a scapito di componenti
magari culturalmente essenziali ma organizzativamente deboli o scientificamente
eterogenee rispetto alle aree dominanti). Addirittura devastante è poi il ruolo
dei settori scientifico-disciplinari, legato al “potere” concorsuale (vedi il
punto precedente), e quindi chiave di volta di un’organizzazione “feudale”
degli Atenei, con tutti i corollari strutturali e sociali che gli studiosi
delle società di tipo feudale ben conoscono, dall’omaggio all’incastellamento,
dalla conflittualità endemica all’economia curtense.
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Un
altro falso bersaglio è l’idea che l’autonomia sia di per sé uno strumento atto
soltanto a favorire le realtà forti e tendenzialmente autosufficienti e invece
punitivo per le situazioni deboli e prive di retroterra economico-sociale. Vero
è che un’autonomia disgiunta dall’esercizio delle funzioni di sostegno e di
controllo, alle quali un governo attento del Paese non dovrebbe mai rinunciare,
corre sicuramente i rischi indicati, ma è altrettanto vero che il ritorno
dall’autonomia a un’”amministrazione controllata” in cui le risorse sono
comunque (spesso in modo clientelare) garantite, oltre a tradire lo spirito di
un disposto costituzionale segnerebbe anche la fine di molte di quelle
potenzialità d’innovazione che sono invece cruciali per lo sviluppo.
RISORSE:
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Non
è corretto affermare, senza ulteriori qualificazioni, che le risorse per il
sistema universitario sono insufficienti. Esse sono oggi (e in ogni futuro
prevedibile) sicuramente inadeguate a garantire che, in un Paese delle
dimensioni del nostro, ci sia praticamente in ogni provincia una sede
universitaria “generalista” in cui si insegnano tutte le discipline e si
effettuano ricerche in tutti i settori, inclusi quelli più avanzati e
dispendiosi e meno legati a vocazioni specifiche del territorio. Non ci possono
essere in Italia 44 “vere” Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali,
tutte in grado di offrire una formazione almeno approssimativamente
comparabile, perché a sua volta sostenuta e affiancata da una comparabile
quantità di ricerca scientifica. Prendendo atto di questa realtà e traendone le
dovute conseguenze (e spesso basterebbe solo applicare seriamente i requisiti
minimi) si libererebbero risorse per la ricerca in misura forse ancora non
sufficiente ma sicuramente significativa. Occorrerebbe ovviamente intervenire
in parallelo e in modo adeguato sul fronte del diritto allo studio per evitare
eccessivi squilibri nelle reali opportunità, da offrirsi a tutti i giovani
“capaci e meritevoli”, di seguire le proprie vocazioni indipendentemente
dall’origine geografica.
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Un
problema “potenzialmente” falso è poi quello dell’edilizia universitaria, e più
in generale delle cosiddette spese di investimento, che nella misura in cui
sono destinate a gravare sui bilanci ordinari degli Atenei (i cosiddetti
F.F.O.) rappresenteranno sempre un ostacolo economico insormontabile a
qualunque politica di ampio respiro. Ma bisognerebbe prendere atto da un lato
che costruire edifici ha ben poco a che vedere con la “missione” degli Atenei
(e con le capacità della maggior parte
delle persone che vi operano), e dall’altro che l’edilizia è invece sempre
percepita come un buon investimento per capitali, anche di piccoli investitori,
in cerca di collocazione, e bisognerebbe quindi immaginare con coraggio e
fantasia forme di partecipazione “privata” (ovviamente in posizione non
dominante) ai progetti finanziari degli Atenei, ad esempio creando (o favorendo
la creazione di) Fondi Pensione legati alle stesse comunità accademiche, anche
con funzioni suppletive e integrative specificamente mirate a quelle categorie
nella cui vita professionale vi sono fasi che non trovano oggi tutela, sotto il
profilo previdenziale, nei meccanismi riservati alle forme di occupazione più
tradizionali.
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Un
altro tabù riguarda la misura della contribuzione studentesca. L’idea che
“equità” significhi che pressappoco tutti, con eccezioni talvolta derisorie,
debbano pagare la stessa cifra è una mistificazione che sembra ignorare del
tutto i risultati della banale analisi per cui in questo modo i “poveri” pagano
gli studi, attraverso la fiscalità generale, ai figli dei “ricchi”, che
arrivano all’Università in frazione decisamente superiore alla consistenza
numerica del proprio ceto. L’idea che, al di sopra di un certo reddito, si
debba pagare tutto il costo degli studi e non solo una frazione di esso, anche
se pone qualche problema tecnico di implementazione per la difficoltà di
accertamento dei redditi reali proprio nei casi in cui essi sono più elevati,
può difficilmente essere contestata dal punto di vista della giustizia fiscale.
E non stiamo certo parlando di cifre “americane”, ma di massimali che vanno dal
doppio al triplo di quelli atttuali, e comunque non superiori al 5% del valore
dei corrispondenti redditi annui
CONDIZIONE STUDENTESCA:
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In
questo caso non vi sono falsi problemi da elencare, perché i problemi legati
alla condizione studentesca sono tutti purtroppo estremamente veri e reali. Ma
c’è forse qualcuno che se ne preoccupa?