IDENTITA’ COLLETTIVA: OSSIMORO O “ULTIMA DEA”?

 

Ogni generazione riscrive la storia. Per una sorta di involontario paradosso orwelliano, condannati dalle ideologie dominanti ma ancor più condizionati dal nostro stesso “essere nella storia”, ogni volta rileggiamo la trama delle vicende passate alla ricerca delle tracce che dovrebbero aiutarci a spiegare (e/o giustificare), in ultima analisi a rendere significante, il nostro “qui” e il nostro “ora”. Siamo liberi di fingere che ciò non sia vero, ma in tal caso la demistificazione dei nostri sforzi sarà il (facile) compito delle generazioni a seguire.

Più semplice e più utile forse, allora, dichiarare fin dal principio, nella misura in cui ne siamo capaci, la soggettività dei nostri propositi, e fare esplicitamente i conti con essa.

Io credo che una delle chiavi di lettura della nostra epoca stia nella dialettica tra ricerca e dissoluzione delle identità collettive.

Il processo ineludibile che va sotto il nome di “globalizzazione”, con tutti i suoi corollari non soltanto socioeconomici ma anche di psicologia collettiva, è un processo di negazione di identità, di omologazione negativa in cui l’idea di un “pensiero unico” (al di là del pur evidente ideologismo) ha per certi aspetti addirittura il segno dell’utopia, seppur perversa, perché implica una dimensione progettuale che, a prescindere dalla sua eventuale condivisione o rigetto, sarebbe pur sempre manifestazione di una volontà di intervenire “razionalmente” (seppure con una razionalità tutta interna a una determinata concezione del mondo e dei rapporti etico-sociali) nelle dinamiche evolutive della società umana.

A me sembra invece (forse per deformazione professionale) che la globalizzazione sia piuttosto la manifestazione di un processo termodinamico, in cui la massimizzazione dell’entropia (ovvero del disordine) avviene attraverso lo stabilirsi di un equilibrio dissipativo in cui ogni possibile risorsa “energetica” (anche in senso lato e figurato) viene “consumata” nel piu’ breve tempo possibile. Per dirla con un’immagine, l’”equilibrio” del mercato non è quello dei cristalli, ma quello dei gas ad alta temperatura.

A equilibrio raggiunto ogni individuo, ogni comunità diventa totalmente fungibile, sostituibile con ogni altro individuo o comunità, e come tale finisce col risultare del tutto privo di un’identità che è necessariamente anche differenza, non-fungibilità.

E’ quasi banale osservare che una dinamica di questo tipo non può mancare di suscitare, per naturali meccanismi di difesa, dinamiche di segno opposto, ovvero rivolte alla ricerca, talvolta anche esasperata, di quegli elementi di identità, individuale e collettiva, capaci di restituire a persone e gruppi elementi per una, psicologicamente irrinunciabile, ricerca di senso a livello esistenziale.

Meno banale è prevedere le forme storiche in cui questi meccanismi possono finire col concretarsi.

Senza voler in alcun modo ipotizzare un’assimilazione che, in quanto tale, risulterebbe paradossale e/o risibile, non si può nemmeno negare del tutto l’esistenza di un denominatore comune, la cui natura è già stata sopra indicata, in fenomeni per il resto anche completamente diversi, che vanno dal recupero dei dialetti e dalla riesumazione delle sagre paesane, attraverso la richiesta di autonomie su base più o meno “etnica” o culturale (anche in senso antropologico) fino alle “pulizie etniche” e al risveglio islamico (con annesse, e non irrilevanti, appendici terroristiche).

 

Stretto tra i corni di un dilemma nel quale (per parafrasare Kissinger) “è un vero peccato che non possano essere sconfitti entrambi gli avversari”, l’intellettuale cosmopolita di formazione scientifica e illuministica (di cui pare che tuttora esistano alcuni esemplari) non sembra oggi affatto capace di elaborare proposte che individuino possibili percorsi d’uscita, addirittura nemmeno “fughe in avanti” a carattere utopico, e quindi oscilla tra il pessimismo cosmico e l’allestimento di rimedi estemporanei (leggi: cauto riformismo) miranti al tamponamento delle singole crisi, affrontate strettamente nell’ordine in cui si presentano.

E, anche senza voler scadere nel qualunquismo del “rimedio peggiore del male” o del “bene nemico del meglio”, non ci si può nascondere in alcun modo l’inadeguatezza strategica di tutti i nostri “rimedi” a problemi di dimensioni e natura epocali quali l’esaurimento tendenziale delle materie prime, i cambiamenti climatici e le altre trasformazioni ambientali indotte dall’ “umanizzazione totale” del pianeta, i rischi della manipolazione genetica, l’apparente (temporanea?) impraticabilità di obiettivi potenzialmente risolutivi di molti problemi, quali l’energia “pulita” o la colonizzazione spaziale, il tutto per non parlare della capitale contraddizione derivante dalla macroscopica disparità tra il “Nord” e il “Sud” del pianeta nel godimento delle risorse della Terra e dei prodotti della tecnologia.

Chiamato a rispondere “a tono” sul tema della dialettica tra affermazione e negazione dell’identità, il nostro intellettuale trova nella propria genealogia culturale spunti contrastanti.

Egli sa dalle scienze storiche e politiche che l’esigenza di identità si ritrova poi alla base di innumerevoli cause e pretesti di conflitto, in quanto il meccanismo di affermazione della “propria” identità sembra trovare naturale alimento nel processo di negazione dell’identità “altrui” e non occorrerebbe nemmeno spingersi fino all’esempio estremo dell’Olocausto per verificare l’articolarsi concreto di questa modalità.

Ma d’altra parte le scienze psicologiche e sociali gli insegnano che senza una forte identità personale e collettiva non esiste neppure la più remota speranza di costruzione di un consenso intorno a una progettualità “forte” e capace di dare risposte di respiro strategico ai problemi che una comunità deve in un determinato contesto storico affrontare.

In attesa e in preparazione del giorno (agognato) in cui ogni uomo diventi soggettivamente pronto, come Einstein nel 1933 davanti alla scheda di immigrazione negli U.S.A., a reagire alla domanda “razza” con la semplice risposta “umana”, in questa fase uno dei compiti storici degli intellettuali è, io credo, quello di contribuire alla costruzione di identità di gruppo che si definiscano in positivo, e non per contrasto con quelle di altri gruppi siano essi etnici, culturali, politici, sociali, religiosi.

In questo contesto è risultato fortemente avvilente, anche al di là delle onnipresenti strumentalizzazioni, il dibattito sull’”identità europea” da definire ed eventualmente porre tra le premesse del primo tentativo di carta costituzionale continentale.

Se da un lato è ovvio che, ancora una volta, si deve evitare il rischio di un’identità definita per negazione, quasi che il non discendere “geneticamente” da un determinato filone di pensiero filosofico o religioso possa diventare motivo pregiudiziale di esclusione da una comunità che deve invece nascere aperta e potenzialmente priva di “confini naturali”, dall’altro è impossibile negare che alla base dell’idea europea ci sia anche una circolazione plurisecolare (o meglio plurimillenaria)  di persone e di idee che, attraverso percorsi non lineari ma non per questo meno evidenti o più facilmente negabili hanno prodotto un sistema di valori etico-politici condivisi, senza il quale la stessa ipotesi di unificazione continentale risulterebbe priva di un fondamentale sostegno e non sarebbe quindi in grado di camminare, essendo la “gamba” economica, come sempre, allo stesso tempo essenziale e insufficiente.

Personalmente, ad esempio, e parlando da persona perfettamente laica, ma che un pochino conosce la storia, non provo alcun imbarazzo a parlare di identità cristiana dell’Europa, mentre temo ciò che si può nascondere sia dietro la volontà perentoria di “affermarla”, sia dietro il desiderio esorcistico di “negarla”, quasi che il silenzio su ciò che siamo stati possa facilitare il condono dei troppi errori commessi..

Ma, ovviamente, allo stesso titolo non vedrei a che titolo negare altre eredità, da quella classica a quella islamica (le “lettere” e i “numeri” del nostro linguaggio), da quella umanistica a quella illuministica, e non vorrei nemmeno che si dimenticasse, forse perché scontata, o forse perché “ingombrante”, l’eredità di cultura politica democratica la cui storia si intreccia indissolubilmente con quella del movimento operaio europeo.

Sono solo esempi, presi dall’attualità, di una discussione che però comunque avviene troppo sotto tono, o troppo sotto traccia, per incidere veramente sulle coscienze e sui sentimenti collettivi.

E’ piu’ facile, anche per gli intellettuali, parlare di calcio. E questa, purtroppo, non è una metafora.

 

Paolo Rossi – Marzo 2004