TRE IPOTESI SU MALACHIA

 

Incontrai per la prima volta il notaio Savetiez nel suo studio, nella cittadina della Champagne che egli non doveva aver mai abbandonato, almeno negli ultimi quarant’anni, e nella quale io mi trovavo per completare certe ricerche genealogiche di poco momento, ma la cui incompletezza mi tormentava ormai quasi ossessivamente. Mi ricevette in uno studio notarile di esasperante convenzionalità, dalle pareti rivestite di noce alla pesante scrivania, dagli scaffali carichi di contenitori zeppi di cartelle di antiche transazioni di provincia alla libreria di titoli polverosi e demodé e alle stampe settecentesche appese ad altezza d’uomo.

            Nell’anno 198... quell’anziano signore viveva come aveva vissuto suo nonno, e il padre di suo nonno forse, l’autore di una dimenticata storia della famiglia di Dampierre di cui solo per caso avevo trovato traccia nei volumi ottocenteschi della Revue de Champagne et de Brie frugando quasi senza scopo negli scantinati della Widener Library a Harvard, qualche anno prima.

            Evidentemente la lettera di presentazione dell’illustre medievalista parigino poteva qualcosa sull’animo dello studioso dilettante provinciale, se il notaio Savetiez mi accolse con un entusiasmo persino inappropriato per il perfetto sconosciuto che ero, mi fece accomodare in una poltrona quasi pontificale e si mise a mia completa disposizione prima ancora di sapere quale motivo mi portasse nella sua cittadina e nella sua vita.

            Forse, immaginai allora, anche la noia poteva avere avuto un peso non indifferente nel determinare la sua reazione vivace e, ripeto, quasi entusiasta al mio arrivo. Non era avventato supporre che, tra contratti di compravendita di terre e vigne e pomeriggi passati a scartabellare antichi documenti in archivi di nobiltà decadute, la vita del notaio non fosse propriamente movimentata. Una vita che, a giudicare dalla mite sciattezza dell’abbigliamento, dal silenzio della casa, da una certa opacità dello sguardo e da numerosi altri piccoli sintomi, non doveva aver conosciuto, da molto tempo e forse mai, neppure altre passioni più travolgenti di quella per le vecchie carte. Almeno su questo punto, tuttavia, dovetti riconoscere più tardi che mi ero sbagliato. Ma la passione che animava quell’uomo, devo dire a mia parziale discolpa, è la passione più segreta, la passione mistica; si legge in rari momenti in sguardi infiammati o perduti, ma non lascia altri segni di rilievo al di fuori di sé, almeno in taluni casi.

            Come, saltando da palo in frasca e di secolo in secolo, venimmo a parlare, partendo dalle memorie dell’abate Guibert de Nogent, un suo conterraneo del XII secolo, delle profezie di Malachia, monaco e santo irlandese, io non saprei ricostruire, ora – ma immagino che il discorso sia stato pazientemente pilotato, me inavvertente, dal mio forse un poco monomaniaco interlocutore. Certo è che, una volta giunti al suo argomento favorito, non ce ne staccammo per un pezzo: volle espormi per filo e per segno la sua teoria, che era non poco articolata, e documentarla su libri e opuscoli che di volta in volta pescava dalla libreria, senza sforzo, come chi fa riferimento ad opere di sua costante e assidua consultazione.

            Non proverò a riassumere la sua storia, ma cercherò piuttosto di riprodurre le sue parole, così come me le ricordo – parole che furono dette frettolosamente, come di chi ha paura di essere interrotto, e talvolta accendendosi, per poi calmarsi con uno sforzo di volontà, come di chi tema di essere preso per pazzo o visionario e voglia invece convincere gli altri di una sua assoluta sanità mentale, già evidentemente in precedenza messa in dubbio.

            “Lei certamente, con la sua ammirevole conoscenza della storia della Chiesa medievale, ha sentito parlare della curiosa vicenda – e curiosa è dir poco – che è legata al nome di Malachia, monaco irlandese: quella delle sue cosiddette profezie.” (e qui ci fu uno sguardo che voleva esser scettico, da uomo di mondo ad uomo di mondo).

            “Bene, le confesserò che, trovatami per le mani per combinazione una riedizione settecentesca della raccolta delle profezie, qualche anno fa, non seppi trattenermi dalla tentazione di spendere qualche giornata, a tempo perso, ad elucubrarvi sopra, come chissà quanti altri avranno fatto prima di me.” (e dicendo questo si alzò, e con nonchalance pescò da uno scaffale il libretto in questione e me lo mise tra le mani; io ascoltavo e sfogliavo, dapprima distrattamente, eppoi seguendo le sue indicazioni e le citazioni che mi andava facendo a memoria). “Così adesso anch’io, come tanti, ho la mia modesta interpretazione... che le posso brevemente raccontare, se le interessa...” (poi, datomi meno di un attimo per manifestare il mio interesse, o repulsione, attimo di cui non seppi fare alcun utile uso, proseguì)

            “Vede, Lei penserà che un notaio non debba avere la passione dei  numeri. Eppure il nostro è un mestiere dove, a ben vedere, di numeri ce n’è tanti: date che devono essere sempre esatte, e cifre di pagamenti e rateazioni, e aree di terre e superficie di appartamenti, e dati catastali, e articoli di leggi, decreti e ordinanze; è un’aritmetica semplice ma laboriosa, e altrettanto esatta che le matematiche più raffinate. Così la tentazione di applicare la scienza dei numeri alle profezie mi venne fuori come naturale ... eppoi in fondo anche le più famose profezie bibliche, quelle di Daniele, sono numerologiche. E i Pitagorici, e la Cabala ... basta, non devo spiegare a Lei quante e quali sono le relazioni tra i numeri e la mistica.

            Ecco, vede qui, la prima cosa che colpisce nell’elenco è il numero dei papi e antipapi, centoundici in tutto. Questa deve essere la chiave, evidentemente. Ma poi guardi, il primo papa della profezia, Celestino III, salì al soglio nell’anno del Signore 1143 ... questo numero non le dice niente? ma si ricordi che gli anni di Cristo furono trentatre, e l’anno 33 è la vera data d’inizio della Chiesa. E se si aggiungono millecentodieci anni, eccoci al 1143! e ora guardi qui, guardi qui!” (a questo punto si stava infiammando)  “aggiunga quattrocentoquarantaquattro anni, e arriviamo al 1587, e l’insegna del papa di quell’anno è Ascis in Medietate Signi, l’asse nella metà del segno. Potrebbe essere una descrizione dello stemma di Urbano V e, infatti, lo è, ma potrebbe avere anche un significato più profondo. Ed è un caso che, proprio sotto il suo pontificato, la profezia esce dalla leggenda e la prima edizione a stampa vede finalmente la luce? Ma allora il calcolo, a volerlo fare, è assai semplice: aggiungiamo altri quattrocentoquarantaquattro anni e arriviamo al 2031.

            Che cosa succederà nel 2031 lo lascio stabilire a Lei, vada all’ultima pagina del libretto e legga” (e qui iniziò a recitare a memoria):

“In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit Petrus Romanus qui pascet oves in multis tribulationibus, quibus transactis civitas septicollis diruetur; et judex tremendus judicabit populum” (la recitazione era stata enfatica, ma qui il notaio improvvisamente si calmò, tacque per qualche secondo, eppoi riprese più pacatamente)

            “Immagino Lei penserà che questi sono i vaneggiamenti di un vecchio arteriosclerotico, e forse pazzo. E, se la lasciassi a questo punto, non mi sentirei di darle torto. Ma vuole ascoltarmi ancora un poco? Le porterò altri argomenti, che forse le faranno mutare opinione. Argomenti storici, di quelli che Lei ama, e che saprà certamente apprezzare.

            Lei, come tutti, conosce la più famosa di tute le profezie sulla fine del mondo, quel “Mille e non più mille” da cui la parola stessa millenarismo deriva. Lei saprà anche che l’origine, se non le parole esatte, di questa profezia è nell’Apocalisse di san Giovanni, ove si parla dei mille anni accordati al regno dei saggi e dei mille anni della battaglia contro il Dragone, che è poi il Diavolo, l’Anticristo. Ma l’Apocalisse è un libro profetico, non si può leggerlo come un romanzo e sperare di capirlo. Bisogna contare i mille anni, ma a partire dal momento giusto, gliel’ho già detto. E lo spartiacque della Storia, Lei lo sa bene e lo chieda a qualunque teologo, è la Resurrezione, non l’Incarnazione. All’anno 33, quindi aggiunga mille anni, e arriva al 1033: data non casuale, fu l’epoca della Constitutio de feudis, ricorda?, e ricorderà anche che sono in molti a ritenere quella data il punto della svolta, il crinale del cosiddetto Medioevo, la data dell’inizio del processo storico che, per accrescimenti successivi, ha portato, attraverso l’età comunale, il Rinascimento, il capitalismo, (elencava sulle dita) la Rivoluzione (da buon francese, non specificava) e l’imperialismo fino ai giorni nostri, senza soluzione di continuità. Ma non voglio insistere, questa forse è un’interpretazione troppo soggettiva. Ma ora, passati i mille anni del regno dei saggi, conti a partire dal 1033 i non più mille, i novecentonovantanove anni della battaglia col Dragone – e dal 1033 eccoci di nuovo al 2031: profezia conferma profezia.

            Questa è la mia prima ipotesi. Ma, mi perdoni se approfitto ancora della Sua cortese attenzione, c’è una seconda ipotesi che ho sviluppato e che, confermando in certo senso la precedente, la illumina tuttavia di nuova e ben diversa luce.

            Ritorno all’Apocalisse di Giovanni (e qui prese un grosso volume della Bibbia che, notai con un certo stupore, sembrava occupare una posizione non casuale ma permanente sul vasto tavolo dello studio) e richiamo alla memoria un altro passo che molti hanno letto ma forse nessuno, insisto, ha saputo interpretare correttamente. Là dove parla del Numero della Bestia, e dice che il Numero della Bestia è seicentosessantasei, ed è numero d’uomo, e a chi ha intelligenza è dato d’intenderlo. No, non si preoccupi, non farò come Pierre Bezuchov, né cercherò di convincerLa che conosco il vero nome dell’Anticristo. Voglio solo esporle un semplicissimo ragionamento e un ancor più semplice calcolo.

            Seicentosessantasei è il Numero della Bestia. Ma il Nemico della Bestia non è soltanto Uno: Egli è Trino, e tre battaglie la Bestia deve combattere. La prima è contro il Padre, contro la Fede, e dura seicentosessantasei anni – dall’anno 33 all’anno 699, in cui gli Arabi completano la conquista della sponda meridionale del Mediterraneo. Fra dodici anni passeranno in Spagna, ma già ora il mare che fu nostrum è chiuso ai traffici di Roma. Non importa che proprio a Lei io stia a spiegare la dottrina del Pirenne, così brillantemente esposta in Mahomet et Charlemagne: Roma, la prima Roma è condannata a perire, la città che i barbari germanici non avevano osato distruggere ora muore soffocata dal trionfo di una fede che non è la sua. La Bestia ha vinto la sua prima battaglia, ha trionfato sul Padre.

            Seicentosessantasei anni ci portano al 1365: la Roma del Papa signore dell’Occidente, la Roma del Figlio e della Speranza sta perendo, insieme con l’era che la Peste Nera sedici anni prima ha finito di distruggere. Il Papa è lontano, ad Avignone, mentre la seconda Roma muore e la Bestia trionfa per la seconda volta. Aggiunga ancora seicentosessantasei anni, faccia Lei il calcolo (mi sforzai di fare la somma a mente, un’attività che non è propriamente il mio forte): si ritorna al 2031, al termine della terza battaglia, quella contro lo Spirito, contro la Carità.

            Non concorderebbe anche Lei con me che gli ultimi seicento anni sono la storia della battaglia della Bestia contro la Carità? e delle sue successive, ancorché parziali, vittorie? E si rilegga la profezia: civitas septicollis diruetur – anche la terza Roma è destinata a perire, anche la Carità sarà sconfitta. Ma non sarà la fine del mondo, mi ascolti bene. È qui che tutti hanno sbagliato. Rilegga, rilegga: In persecutione extrema Sacrae Romanae Ecclesiae...: è la storia della Chiesa che stiamo leggendo, non la storia del mondo. Ed è la Chiesa che finirà quel giorno, quando la città dei sette colli sarà distrutta, non il mondo. Il mondo sopravvivrà, ma sarà il mondo in cui la Bestia avrà definitivamente trionfato.

            Perché judex tremendus altrimenti? Potrà mai il Dio d’Amore divenire giudice tremendo del suo popolo, potrà mai rifiutarsi di perdonare qualunque peccato, per quanto orribile? No, è la Bestia che giudicherà, e non assolverà nessuno.” (e di nuovo aveva preso un tono sempre più esaltato, ora quasi profetico, egli occhi gli si erano illuminati – e di nuovo cambiò improvvisamente atteggiamento, tacque per un poco guardandomi)

            “Io sono vecchio (riprese) e non vedrò comunque quel giorno: ma Lei è giovane, e Lei ricorderà le mie parole. Le auguro che siano le parole di un vecchio pazzo, ma Le ripeto, ho pensato a lungo, ho avuto molti anni di silenzio a mia disposizione per meditare, e la mia convinzione si rafforza di giorno in giorno.

            Ha visto papa Giovanni Paolo I? De Medietate Lunae era la sua insegna, e dal giorno dell’incoronazione a quello della sua morte ha regnato poco più di quindici giorni, mezzo mese, la metà di una luna. E il Papa presente ha per motto De Labore Solis. Ma Lei lo sa che cos’è il lavoro del Sole, come fa il Sole a produrre tutta la sua energia? Io leggo i giornali, anche le pagine scientifiche, e ho letto che è qualcosa che gli scienziati chiamano fusione nucleare, qualcosa che, Lei lo saprà meglio di me (in effetti ne so qualcosa, alcuni dei miei migliori amici sono fisici teorici) ora stanno per produrre in laboratorio, e sempre a sentire i giornali sarà il risultato scientifico più importante del secolo, significherà energia a disposizione in quantità virtualmente illimitata. Non Le pare un fatto sufficiente a caratterizzare un pontificato? Ma sa, non è così facile interpretare le insegne prima che i fatti accadano. Si potrebbe anche tradurre “il travaglio del Sole” e pensare che si tratti del Sole dell’Avvenire, e che la profezia indichi la fine del comunismo: d’altra parte pare che anche il Terzo Segreto di Fatima contenga la stessa indicazione. Chi può saperlo? Poi resta un solo Papa, prima dell’ultimo, prima di Petrus Romanus: il suo motto è De Gloria Olivae, il Trionfo dell’Ulivo. Davvero non so che cosa significhi questo motto, non pretendo di essere profeta, io. Ma so che le date tutte coincidono perfettamente. Manca mezzo secolo al 2031, e nessun Papa può regnare per più di trentatre anni. Perché di nuovo trentatre, mi chiede? (veramente avevo taciuto) Ma Lei dovrebbe sapere che ad ogni Papa al momento della consacrazione il Cardinal Camerlengo ripete la frase Non videbis dies Petri, i giorni di Pietro, i trentatre anni del primo pontificato. Certo la profezia non può valere per Petrus Romanus: se mi permette il latinorum e il bisticcio, Petrus videbit dies Petri. Anche Lei vedrà tutto questo, immagino: e si ricordi di me, allora, di questo povero notaio di provincia che ha cercato di svelare i più grandi Misteri.”

            Con queste parole, pressappoco, si concluse il discorso del notaio Savetiez. L’ultima parte, in particolare, era stata enunciata tutta con un tono pacato e piano, di chi è rassegnato a non essere creduto, lo sa, e forse non gliene importa più neppure tanto. L’atteggiamento mistico ed esaltato era del tutto scomparso, e l’esposizione aveva preso il ritmo un po’ torpido delle relazioni accademiche ai congressi ufficiali.

            Io non ebbi lì per lì la voglia né la capacità di reagire, di interloquire – il tutto, lo confesserò, mi pareva un poco folle, e un poco mi turbava, anche perché non era in ogni caso mia intenzione offendere  né mettere in imbarazzo l’anziano notaio. Per fortuna bussò la domestica, e portò due tazze e una teiera, rompendo la specie d’incanto che si era creato al termine del discorso. La conversazione, così insensibilmente com’era arrivata sul tema, ne scivolò via, e dopo un poco con mio sollievo parlavamo della lotta dei Dampierre e degli Avesnes per il controllo dei Paesi Bassi nel XIII secolo.

* * *

            Nei pochi restanti giorni della mia permanenza non mi accadde di riaprire il discorso sulle profezie, benché rivedessi il notaio Savetiez in più di un’occasione. Credo che lui per primo si sforzasse di evitare che il tema tornasse a galla.

            Tuttavia, una volta lontano dal luogo di questa bizzarra conversazione, in me lo spirito scientifico prevalse sul rispetto umano, e dopo aver rapidamente raccolto un poco di documentazione – la cosa non mi prese più di due giorni – spedii al notaio Savetiez quelle che mi parevano le prove ultime e inappellabili, tratte dalla cronaca dell’epoca e dallo studio filologico, del fatto che le profezie di Malachia erano un colossale falso, messo insieme a fini di propaganda  nel corso del conclave del 1590 per favorire l’elezione di un prelato orvietano designato dall’insegna Ex Antiquitate Urbis – la prova più spettacolare essendo che, mentre tutte le profezie fino al 1590 sono precise, puntuali, e puntualmente verificate, quelle successive diventano vaghe, generiche, di difficile interpretazione, e spesso  solo artificiosamente giustificate con il senno di poi: Pio XII Pastor Angelicus. ma a quale Papa non si attaglia? e a lui meno che ad altri; Giovanni XXIII Pastor et Nauta, ma che vuol dire? ha indicato la rotta, con il Concilio? ma via, è una spiegazione tirata per i capelli! e Paolo VI, Flos Florum, aveva un giglio nello stemma, è vero, ma l’aveva fatto mettere lui! quando già studiava da Papa.

            Avevo poi molte obiezioni sulle cabale e i calcoli del notaio. Intanto tutti sanno che Gesù di Nazaret non è nato nell’anno settecentocinquantaquattresimo ab Urbe condita, come risulta dall’erroneo calcolo di Dionigi lo Scita, ma almeno sei anni prima, mentre l’anno più probabile per la data della crocifissione è il 28, e non il 33. E se nella numerologia di Savetiez c’era qualcosa d’affascinante, altri argomenti mi sembravano poco o molto fasulli, e tutt’insieme l’intera vicenda mi sembrava meritare poco più che una divertita alzata di spalle (anche se mi guardai bene dallo scrivere questo al notaio).

            Ricevetti una sua risposta dopo un paio di settimane, sotto forma di un biglietto da visita con annotate sul retro soltanto queste parole: “Le risponderò come Pilato: Quid est veritas?”.

* * *

            Non rividi più il notaio Savetiez, né ebbi in seguito sue notizie fino al giorno della sua morte, una morte normale, da notaio di provincia. Tra le sue carte, ordinate come sempre, insieme al testamento olografo con cui lasciava tutti i suoi beni ai poveri della parrocchia, avevano trovato una busta con il mio nome e indirizzo, chiusa ma non affrancata, e avevano pensato bene di recapitarmela. Nella sua calligrafia cancelleresca mi scriveva:

“Caro dottor R.,

            a quanto pare Lei mi ha molto sottovalutato, o forse io ho sopravvalutato Lei, o la mia capacità di farmi comprendere, chissà. Le devo innanzitutto confessare che nulla, nella sua pur copiosa e singolarmente completa documentazione, mi giungeva nuovo.

            Sacrosanto è il diffidare dei dilettanti, ma come Lei può bene immaginare, un dilettante che dedichi lunghi anni di studio e attenzione ad uno stesso soggetto finisce per diventarne un poco professionista, quasi sempre. E io per lunghi anni ho studiato le profezie, e credo in tutta onestà di aver letto ciò che di rilevante è apparso in proposito nella letteratura scientifica. So dunque bene che le scienze storiche e filologiche concordano nell’indicare che le profezie di Malachia (ma allora sarebbe bene dire le pseudoprofezie di Malachia, o le profezie dello Pseudomalachia) sono un falso clamoroso e presumibilmente databile intorno al 1590, almeno nella versione che ci è pervenuta.

            Eppure … eppure L’avevo messa in guardia contro il rischio di una lettura superficiale di questo tipo di documenti. Liquidare un documento, in materia come la nostra, con l’affermazione “è un falso” mi pare perlomeno ingenuo. La storia della Chiesa, poi, è zeppa di simili episodi: gli Apocrifi, la Donazione di Costantino, le Decretali Pseudoisidoree, il trattatello De Tribus Impostoribus,… fino alla polemica sul Terzo Segreto di Fatima; la storia della Chiesa, mio caro amico, è fatta, direi quasi, di questi falsi documenti, la cui influenza sui processi storici non è certo inferiore a quella di documenti reali e d’origine comprovata. Ma non è certo una lezione di critica storica che voglio qui darLe. Mi rendo conto piuttosto che la maggior causa del Suo imbarazzo e della Sua incomprensione sta nel non averLa io messa a parte fin dal primo momento di quella che chiamerò la mia “terza ipotesi”.

            Assuma con me per un attimo che, al di là di ogni considerazione critica, quella di cui discutiamo sia una vera profezia. In tal caso, non occorre io stia a scomodare il “paradosso dello storicismo” di Popper (anche noi poveri notai di provincia leggiamo qualcosina, sa …) per argomentare che, se della vera profezia si avesse una vera prova, i suoi effetti su tutti coloro che ne giungessero a conoscenza sarebbero tali da modificare le condizioni sulla base delle quali la profezia è stata enunciata. In altre parole, non si può credere in ciò che si vede, si può soltanto accettarlo, o cercare di cambiarlo. Ma è forse questo lo scopo della profezia, forse che la profezia è data agli uomini al fine di dar loro la possibilità di regolarsi, di modificare appropriatamente i propri comportamenti? e allora che profezia sarebbe? Per questo ci sono le scienze, c’è la psicologia, la sociologia, la storia – e tutte sono perfettamente inutili.

            No, la profezia è la parola di Colui che non può parlare, il Mistico che può essere mostrato ma non può essere detto, la Chiave che apre la porta attraverso la quale non passeremo.

            Può quindi una profezia essere vera? La mia risposta è NO. L’unica profezia alla quale possiamo, alla quale dobbiamo credere è la falsa profezia. Si ricordi cosa dice il Nemico della Bestia: guardatevi dai falsi profeti! Sentenza profetica questa: e perciò falsa.

            Così questa è la mia terza ipotesi: che la falsità manifesta delle profezie di Malachia è la segreta prova della loro verità. E se la mia ipotesi è giusta, il naturale corollario è il fatto che il giorno in cui esse si avvereranno, non ci sarà nessuno disposto a crederle, perché non ci sarà nessuno a ricordarle. Per questo, mio caro amico, Le scrivo questa lettera, che Le giungerà dopo la mia dipartita, per chiederLe di assumersi un compito gravoso, difficile, talvolta umiliante ma assolutamente indispensabile: ora tocca a Lei ricordare, tocca a Lei credere, se non vuole che i suoi occhi vedano ciò che ai miei è stato ormai per fortuna risparmiato.

            Cordialmente Suo                                                    

Ch. Savetiez, notaio”