LA PROTESTA DEI RICERCATORI

Paolo Rossi – Dipartimento di Fisica – Università di Pisa

 

A voler essere per forza ottimisti si potrebbe dire che in fondo non tutto il male viene per nuocere. In effetti tre anni di attacchi tanto pervicaci quanto devastanti da parte del Ministro in carica contro quasi tutte le istituzioni pubbliche di ricerca hanno prodotto anche qualche effetto positivo.

Tanto per cominciare molti ricercatori, dopo anni o decenni di generale apatia e stagnazione, hanno finalmente  ritrovato la capacità e la voglia di ripensare collettivamente il proprio ruolo e muoversi insieme in difesa non solo e non tanto dei propri diritti quanto della propria funzione sociale. Ma forse l’effetto più importante è stato quello di stimolare una riflessione a tutto campo sul significato, gli obiettivi e le forme organizzative della ricerca scientifica nel nostro paese.

La prima domanda cui occorre dare una risposta è anche quella per molti aspetti più difficile: a chi e a che cosa serve la ricerca?

Il ceto che detiene oggi il potere politico, e di cui il Ministro è degno rappresentante, chiaramente non attribuisce alcun valore strategico alla ricerca scientifica e alle sue ricadute sulla formazione superiore. Il modello di sviluppo è ancora e sempre quello assegnato all’Italia, in tempi ormai lontani, dalla divisione internazionale del lavoro, e si basa sulla produzione di beni e servizi a basso contenuto tecnologico, resa competitiva dalla riduzione del costo del lavoro. La ricerca quindi è puro lusso, e torna comoda solo in quanto eventualmente capace di contribuire all’innovazione di processo, ma  in tal caso deve operare in modo subalterno e basarsi su lavoro a basso costo, anche se ciò va necessariamente a scapito della quantità e della qualità dei risultati.

E’ facile leggere in questa chiave molti tra i punti più qualificanti dei progetti governativi, come l’idea di concentrare risorse su “centri d’eccellenza” (una sorta di fiore all’occhiello), il riordino degli Enti di Ricerca secondo modelli gerarchico-funzionali da fabbrica taylorista, le proposte di stato giuridico della docenza universitaria  in cui si cancella la distinzione tra tempo pieno e tempo definito (per favorire, a fini clientelari e assistenziali, una commistione tra pubblico e privato che trasferisce risorse soltanto dal primo verso il secondo), si precarizzano i ruoli (per renderli meno costosi e più subalterni) e si continua a non far cenno né a strategie né a criteri di valutazione.

La visione dei ricercatori si colloca agli antipodi di quella ministeriale, non per partito preso o per difesa corporativa di privilegi, ma nemmeno in nome di una visione narcisista della libertà di ricerca intesa come premio individuale per i membri di una elite di intelligenti e creativi.

Ci è chiaro, oggi, che formazione e ricerca sono un bisogno primario di una società che è sempre più società della conoscenza, e nella quale la capacità di innovazione, anche e soprattutto di prodotto, è condizione irrinunciabile per uno sviluppo economico non congiunturale e meno esposto ai rischi di una competizione centrata sui costi di produzione e non sul know how. E quando parliamo di prodotto non abbiamo in mente soltanto la manifattura, sia ben chiaro: in un paese come il nostro la capacità di  “scavare” giacimenti e “produrre” beni culturali riveste un’importanza tanto strategica quanto quella di attivare nuove linee di montaggio.

Ci fa piacere ritrovare molti elementi di questa visione negli interventi pubblici del nuovo presidente degli industriali, anche se purtroppo dubitiamo che tale consapevolezza sia condivisa da molti dei suoi affiliati. Se l’Italia è il fanalino di coda di tutto il mondo industrializzato per la quota di PIL dedicata alla ricerca il merito non è soltanto del Ministro e dei suoi sodali, ma anche di un ceto imprenditoriale arcaico e non di rado culturalmente povero che considera spreco quegli investimenti che altrove stanno alla base della programmazione aziendale.

Ma in un mondo in cui la ricerca è il primo motore della crescita economica, essa rischia anche di diventare lo spartiacque tra sviluppo e sottosviluppo, e quindi la sua pratica ha bisogno di essere seriamente governata, possibilmente su scala globale, di certo su quella locale in cui si colloca il nostro agire quotidiano.

Ci è anche chiaro che le strategie di sviluppo di questo settore vedono oggi in primo piano il tema della formazione e del reclutamento dei ricercatori. L’idea-guida del Ministro e dei suoi consiglieri è quella che il “ricercatore semplice” sia la parte fruibile di una “fabbrica” che, per funzionare bene, richiede soltanto bravi (e potenti) manager. Ne consegue che il tempo di precariato va esteso a oltranza, e che a un precario “spremuto”, lungi dall’offrire qualsivoglia prospettiva di stabilità, se ne può sostituire un altro più giovane e meno costoso.

Ma la ricerca vera non funziona così: per non essere banalmente ripetitiva essa richiede autonomia, materiale e intellettuale, e tempi abbastanza lunghi da permettere la maturazione e la verifica di idee complesse. Deve farsi rete, e non fabbrica. L’efficienza produttiva può, e anzi deve, diventare un valore, ma va misurata in relazione ai fini propri delle istituzioni scientifiche, e non a parametri eterogenei. E la chiave per l’efficienza del sistema ricerca sta tutta nella valutazione selettiva dei progetti e dei risultati.

Se ci si mette in quest’ottica ci si rende ben presto anche conto che la problematica legata ai meccanismi concorsuali e alle progressioni di carriera, senza perdere la sua rilevanza, si colloca però a valle (e non a monte come parrebbe dalla lettura dei giornali e dei disegni di legge) di una ridefinizione dei ruoli basata sul recupero delle finalità e sull’individuazione delle funzioni.

Ultima, ma non in ordine d’importanza, è la questione dei “numeri”. Rispetto agli altri paesi, e tenuto conto del numero degli abitanti, siamo al 50% di tutto: finanziamenti, personale di ricerca, laureati e dottorati. Che ne derivi una quantità inferiore di risultati è solo un’ovvia conseguenza, semmai ci sarebbe da stupirsi dei buoni livelli qualitativi raggiunti in molti campi.

Ma se si vuole andare avanti è indispensabile anche in questo cambiare decisamente rotta: aumentare e detassare gli investimenti, in particolare quelli pubblici (paradossalmente sottoposti a balzelli fiscali come IVA e IRAP), eliminare sacche di privilegio e di spesa improduttiva (come il fuori ruolo nell’Università, per dirne una). Ma soprattutto occorre rilanciare il reclutamento dei giovani nella scuola, nell’università e negli enti di ricerca, in misura quantitativamente sostanziale e con proposte qualificate e non umilianti, ripristinando un’immagine sociale che, anche in settori strategici per il paese, si è appannata al punto da produrre veri e propri crolli motivazionali e crisi di vocazioni, ben più gravi delle stesse “fughe dei cervelli”.

Esiste un futuro possibile, e auspicabile, per la formazione e la ricerca in Italia, ma oggi non è per niente scontato. E’ per questo futuro, contro chi non ci crede e non lo vuole, che ci stiamo battendo.

 

(22 settembre 2004)