PROBLEMI E PROSPETTIVE DELL’ATENEO PISANO: APPUNTI PER UNA DISCUSSIONE

 

E’ in corso un processo, spesso convulso, di trasformazione del sistema universitario, segnato da fasi apparentemente statiche e da improvvise accelerazioni. E’ un fenomeno a carattere epocale, in parte spontaneo e in larga misura eterodiretto, fortemente condizionato (anche se in modo spesso difficilmente leggibile) da dinamiche politiche, sociali ed economiche di breve e di lungo periodo, sovente anche in contrasto tra loro.

All’interno di questo processo tuttavia gli Atenei (e quindi gli individui e i gruppi che in essi operano) non sono spettatori passivi: esiste un insieme di norme, di consuetudini e di prassi, indicate col nome collettivo di  “autonomia universitaria”, che rende in qualche misura possibile la formulazione e l’attuazione di politiche di sviluppo capaci, se non di incidere macroscopicamente sulla dinamica complessiva, almeno di ricollocare l’Istituzione che le adotta in posizione più (o meno) strategica  rispetto alle tendenze generali in atto.

 

In una fase di potenziale accelerazione qual è quella attuale è però necessario che le linee di sviluppo di un  Ateneo siano non soltanto esplicitate e discusse come di consueto, ma anche largamente comunicate e fortemente condivise. Il rischio cui altrimenti ci si espone è quello di una perdita di coesione della comunità accademica, che può portare a scontri interni alle istituzioni di governo dell’Ateneo, nel momento in cui gli interessi, concreti e astratti, delle differenti aree e categorie appaiono non solidali ma contrapposti. Ma non minore è il rischio di una perdita di fiducia complessiva, di una tendenza a rinchiudersi e a rifugiarsi nei propri ambiti settoriali e particolari, alla ricerca di improbabili ancore di salvataggio, individuale o di piccolo gruppo.

Di fronte alla concreta possibilità di un simile scenario occorrono strumenti concettuali e operativi adeguati. Non è quindi fuori luogo in questa sede richiamare innanzitutto lo Statuto dell’Ateneo, che fin dall’Articolo 2 definisce tra i propri principi fondamentali quello della programmazione, e negli Articoli 17 e 18 dà corpo a tale principio imponendo agli Organi di Governo la formulazione e l’adozione di un piano pluriennale di sviluppo, di un bilancio pluriennale e di programmi annuali di attività, in particolare relativamente alle attività istituzionali, al patrimonio edilizio, alle strutture, ai servizi, alle risorse umane e finanziarie. Lo stesso Statuto, all’Articolo 41, prevede la definizione e approvazione di un Regolamento generale di Ateneo, che disciplini tra l’altro le modalità di funzionamento del Senato Accademico e del Consiglio d’Amministrazione, oltre ai criteri e alle procedure per la definizione di atti di particolare rilevanza. E’ proprio nei momenti di maggiore criticità che si avverte più fortemente la mancanza di questi strumenti (ai quali in condizioni di ordinaria amministrazione è spesso possibile supplire con il buon senso), perché solo un quadro certo di regole di riferimento può favorire lo sviluppo del dibattito sulle idee e della progettualità sugli interventi operativi.

 

 

Ma al di là dei principi e delle considerazioni generali è oggi necessario indicare nella loro concretezza specifica gli ambiti e i temi principali sui quali il nostro Ateneo dovrà confrontarsi nell’immediato futuro, alla ricerca di soluzioni che, per risultare credibili, dovranno essere organiche, articolate e riferite a obiettivi quantificabili e verificabili, così da permettere immediati aggiustamenti e  correzioni di rotta di fronte a evidenze di irrealizzabilità o di insostenibilità. Conviene prendere le mosse da quelle che sono, e devono restare, con pari rilevanza, le nostre finalità istituzionali: didattica e ricerca.

 

La conclusione del primo ciclo di applicazione degli ordinamenti didattici riformati ci impone una riflessione non formale sulle scelte fin qui effettuate. L’Università di Pisa ha una vocazione verso la qualità degli studi che non può e non deve essere subordinata a logiche puramente quantitative, ma deve oggi (ed è questo forse il maggior legato della riforma) essere coniugata con l’esigenza di stabilire una corrispondenza puntuale e realistica tra i contenuti e i tempi della formazione.

Occorre quindi, alla luce dell’esperienza fatta, rivedere se necessario alcune scelte, e in particolare recuperare, laddove necessario, quelle componenti di formazione critica e di base che, in un mondo del lavoro (soprattutto intellettuale) sempre più orientato verso l’innovazione e quindi verso una non strumentale flessibilità, rappresentano in molti casi gli elementi portanti di una vera (e non riduttiva e sterile) “professionalizzazione”. Per il necessario rispetto dei tempi della formazione, ciò potrà comportare anche significativi passi indietro rispetto a una oggi diffusa strategia di “occupazione del territorio” didattico da parte dei singoli settori disciplinari.

Questi temi si legano in modo non formale a quello della partecipazione studentesca, della quale è indispensabile valorizzare gli aspetti costruttivi, anche quando esposti in forma critica, superando le secche di una contrapposizione di tipo ideologico o “sindacale”.

Accanto al “contenimento del carico didattico” non bisognerà perdere di vista anche un’analoga esigenza di contenimento dell’attività di docenza. Il vero e proprio “entusiasmo” con cui molti colleghi hanno sollecitato e sostenuto la proliferazione di nuove iniziative didattiche, forse unito alla (purtroppo infondata) aspettativa di un’espansione dell’organico (con le relative opportunità di progressione e di reclutamento), se da un lato non sempre ha trovato un adeguato riscontro nella risposta studentesca alle nuove proposte, dall’altro ha sicuramente creato situazioni di sovraesposizione negli impegni. E’ forse anche qui giunto il momento delle scelte, delle razionalizzazioni, della ricerca di economie di scala (mutuazioni, accorpamenti), della moratoria delle iniziative di minor successo o comunque meno sostenibili.

Il tutto va poi accompagnato dall’individuazione di meccanismi anche di tipo regolamentare (miglior definizione delle funzioni dei garanti, creazione di affidamenti didattici poliennali attribuiti come compito istituzionale) che, nel rispetto della legislazione vigente ma utilizzandone fino in fondo i forti spunti positivi (vedi l’Art.12 della legge 341/90), permettano di evidenziare e valorizzare pienamente la funzione docente anche per i ricercatori.

 

L’impegno nella ricerca, più ancora che quello didattico, si riconduce in larga misura alle scelte (individuali o di piccolo gruppo) di chi opera in tale ambito in posizione di responsabilità.

Ciò non esime l’Ateneo nel suo complesso e le sue articolazioni decentrate dal compito di creare per quanto possibile le condizioni ottimali per lo svolgimento dell’attività di ricerca. Ciò significa in primo luogo equa e adeguata allocazione di risorse (umane, logistiche e finanziarie), il che a sua volta comporta una capacità di valutazione e di scelta che deve essere radicalmente potenziata.

Si devono assicurare opportunità a chi opera in qualunque campo del sapere, ma si deve chiedere non solo formalmente conto delle risorse investite, valutando il rapporto risultati/costi per settori omogenei e in relazione alle altre realtà nazionali e internazionali, e premiare significativamente il raggiungimento dei livelli più elevati di qualit[PR1] à, così da innescare un circolo virtuoso che incoraggi le scelte più difficili ma più vantaggiose per il “rendimento” scientifico dell’istituzione, ad esempio nella selezione del personale ricercatore e nella ripartizione locale delle risorse. Un’ambiziosa iniziativa nazionale di valutazione della ricerca ha da poco preso le mosse: il nostro Ateneo non deve essere protagonista passivo del processo e puro oggetto della valutazione, ma cogliere l’occasione per perseguire obiettivi propri di affinamento e completamento dell’analisi.

In questo contesto non ha senso una contrapposizione impropria e schematica tra ricerca di base e applicata, ma resta a nostro carico comunque la responsabilità di disseminare i risultati delle ricerche e l’impegno di contribuire a trasformarli in ricadute positive per la società. Anche tale impegno può e deve essere incentivato dall’Ateneo, favorendo iniziative e stabilendo rapporti con le realtà territoriali, pubbliche e private, più disponibili e attente a queste tematiche.

Sia per la didattica che per la ricerca  diventa ogni giorno più discriminante la capacità di acquisire e intensificare i rapporti di collaborazione internazionale, in particolare sulla scala europea. E’ un obiettivo che, al di là degli impegni e degli sforzi settoriali, deve essere fatto proprio dal complesso dell’Ateneo: ne va della nostra capacità di attrarre attenzione e risorse, e quindi in ultima analisi di mantenere uno standard di immagine e soprattutto di contenuti conforme alla nostra tradizione e ai nostri obiettivi.

 

Ma, come ci insegna l’ormai periodica diffusione di “graduatorie” giornalistiche delle Università (e al di là di ogni pur doverosa contestazione di metodo e di merito), la credibilità e la capacità di attrazione di un Ateneo vengono sempre più misurate anche in termini di qualità dei servizi, tema che se da un lato ci riporta all’efficienza e all’efficacia della nostra didattica, alla quantità e ai temi della nostra ricerca, dall’altro ci obbliga a riesaminare ancora una volta, e con ancor più determinata volontà di individuare possibili linee d’attacco e di soluzione dei problemi, i temi della logistica (con particolare riguardo al capitolo dell’edilizia) dell’organizzazione (interna e di “front office”), del reclutamento di personale docente e non docente.

 

Per quanto riguarda l’edilizia, è ormai abbastanza evidente che non basta formulare un piano, per quanto ben articolato e attento alla copertura delle diverse legittime esigenze. Ciò che occorre forse maggiormente è uno scatto d’inventiva e di coraggio che, separando in modo sostanziale il tema del finanziamento delle attività ordinarie da quello degli investimenti, e affrontando questo capitolo con strumenti innovativi e anche con l’apertura verso modalità di gestione finanziaria non convenzionali (prestiti obbligazionari, società partecipate, cartolarizzazioni, project financing) metta in gioco nuove risorse senza pregiudicare un bilancio d’Ateneo di per sé incapace di reggere a “stress” anche più modesti di quelli che sarebbero imposti da una politica edilizia commisurata alle esigenze reali e alle priorità (anche tenendo conto soltanto di quelle improcrastinabili).

E’ un tema che non può certo essere affrontato con leggerezza e superficialità, ma che richiede anzi il ricorso a un “pool” di autentici esperti, soprattutto finanziari e giuridici: una scelta, questa, già ipotizzata, ma oggi non più rinviabile di fronte all’accavallarsi e al sovrapporsi delle esigenze e delle scadenze.

 

Il tema dell’organizzazione investe diversi livelli e modalità di rapporto, fino a costituire una rete complessa i cui nodi sono le strutture organizzative, centrali e decentrate, e i corrispondenti organi di governo, ma nella quale sono comunque coinvolti a diverso titolo tutti i docenti, tutto il personale tecnico-amministrativo e anche l’intero corpo studentesco. L’intero (e assolutamente strategico) complesso degli interventi di realizzazione concreta del diritto allo studio, per ciò che è di pertinenza diretta dell’Ateneo (aule e laboratori, spazi agibili, segreterie, monitoraggio delle carriere, servizi didattici, informatici e bibliotecari, etc.) investe frontalmente la rete organizzativa.

E’ ormai abbastanza diffusa la consapevolezza “teorica”, che nella gestione del sistema Ateneo, la parola-chiave dovrebbe essere il principio di sussidiarietà. Ma un’implementazione efficace di tale principio non può non passare attraverso un ripensamento dell’articolazione e delle funzioni delle diverse strutture. Oggi sul piano della gestione decentrata si passa da un livello troppo aggregato e disomogeneo (le cosiddette macroaree) a uno troppo disgregato e parcellizzato (Facoltà, Dipartimenti, Centri, Poli, Biblioteche) con una gamma di funzioni e di dimensioni che permette di spaziare dall’ingovernabilità per eccesso a quella per difetto (mancanza di “massa critica”).

Il tutto poi convive con l’assenza di strutture al livello intermedio, (quello della Classe per la didattica e dell’Area per la ricerca, per intenderci) che sono esattamente quelle di cui si avverte in più punti la concreta mancanza quando le scelte (didattiche, scientifiche, organizzative) acquistano un carattere più marcatamente strategico (nuova didattica, piani edilizi, piani di reclutamento).

La stessa farraginosità del processo decisionale, per cui uno stesso documento può facilmente arrivare a essere discusso in sei-sette organi differenti, tra consultivi e deliberativi a vario livello, spesso non è un elemento di democrazia ma di deresponsabilizzazione, che porta anche talvolta (e nemmeno troppo raramente) gli stessi soggetti a votare in modo difforme in organismi diversi.

Per ragioni in parte simili, in parte diverse, anche l’apparato amministrativo centrale mostra la necesssità di un ripensamento della sua pur recente revisione organizzativo-funzionale. Anche alcune recenti vicende hanno mostrato uno scollamento tra i mutamenti delle strutture amministrative e le esigenze delle strutture didattico-scientifiche che deve essere superato per accrescere la “performance” delle seconde combinandola con la giusta valorizzazione delle aspettative del personale delle prime.

 

Da quanto si è appena finito di dire emerge abbastanza chiaramente che i temi dell’organizzazione si intrecciano, anche se in modo non meccanico, con quelli della “governance”, argomento anch’esso ovviamente di rilevanza strategica, ma che andrebbe forse visto piuttosto come punto di arrivo che non come punto di partenza di un processo di ridefinizione di obiettivi, funzioni e strumenti organizzativi dell’Università, per evitare i rischi di una discussione astratta e  finalizzare invece il dibattito (se possibile anche con una certa dose di pragmatismo, purché non a scapito dei principi generali di trasparenza e partecipazione al processo decisionale) all’individuazione di soluzioni concrete a problemi concreti.

 

Venendo infine al tema sempre fortemente sentito del reclutamento, si deve sottolineare anche in questo caso la centralità della programmazione. In un sistema fortemente vincolato e dotato di risorse limitate, essenzialmente riconducibili nel medio periodo a quelle corrispondenti a un fisiologico “turnover”, l’unico modo per cercare di evitare il fenomeno, ormai troppe volte conosciuto, delle crisi cicliche consiste nel definire e “dichiarare”, rendendolo pubblico e condiviso, un modello di gestione governata del flusso e del rinnovamento delle risorse umane. All’interno di uno schema di questo genere sarebbe anche possibile effettuare una politica di reclutamento a tempo determinato del personale in formazione (sia docente che tecnico-amministrativo) che, basandosi su prospettive quantitativamente certe di accesso a posizioni permanenti, sanerebbe in larga misura la piaga di un precariato senza sbocchi e senza orizzonti temporali.

Una gestione programmata è anche premessa indispensabile per politiche di riequilibrio, da intendersi comunque piuttosto come politiche di “pari opportunità” di sviluppo delle differenti aree, che le svincolino dalla contingenza dei flussi interni di turnover, che non come operazioni di sistematico e definitivo trasferimento di risorse da alcune aree ad altre, Tali interventi sono già difficili (ancorché talvolta drammaticamente necessari) all’interno di un singolo settore, ma nel caso di aree tra loro non omogenee non è forse nemmeno realistico (oltre che filosoficamente plausibile) cercare criteri e parametri di raffronto che risultino poi obiettivi e condivisibili.

 

E’ quasi superfluo osservare che tutti i temi fin qui trattati impongono la formulazione di adeguate politiche di bilancio, anch’esse necessariamente definite su base poliennale. Nella formulazione di queste politiche, se da un lato sarà indispensabile un rigoroso controllo sul fronte delle uscite (e anche a tal fine la programmazione può giocare un ruolo cruciale, in particolare in settori quali edilizia e reclutamento), dall’altro occorrerà richiamare i (non pochi) soggetti territoriali anche economicamente interessati allo sviluppo dell’Ateneo pisano a una maggior corresponsabilità nel reperimento delle risorse necessarie a tale sviluppo, aprendo se necessario su questo argomento un vero e proprio dibattito cittadino e nell’Area Vasta. Ma occorrerà anche riconsiderare, a fronte di un effettivo e misurabile incremento della qualità dei servizi offerti, la quota del costo di tali servizi destinata a ricadere direttamente sui destinatari degli stessi, secondo modalità che comunque si ispirino a criteri di equità e proporzionalità.

 

Tornando in conclusione alle considerazioni poste in premessa, per ricavare qualche indicazione a carattere generale, ci preme sottolineare almeno un elemento. La nostra storia, che ci ha costituito come “universitas” (nel senso più ampio e profondo del termine), ha insieme contribuito in misura determinante a definire, anche in rapporto al territorio e al Paese tutto, le nostre vocazioni.

Certamente non possiamo ipostatizzarle e rifiutarci di fare i conti con le trasformazioni globali in atto, ma non possiamo neppure rinnegarle o ignorarne tutta la valenza in nome di un rinnovamento senza principi che, tradendo il nostro passato, rischierebbe di lasciarci anche senza un futuro.

 


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