Non pare necessario in questa sede procedere a una
dettagliata esposizione delle vicende politico-militari che costituiscono
l’ossatura événementielle del periodo coperto dalla narrativa di Richer,
ossia di quel “secolo lungo” che va dalla deposizione di Carlo il Grosso
(novembre 887), che sancisce la definitiva dissoluzione dell’ormai precaria
unificazione carolingia, fino a ben oltre la fine del primo millennio, e al
definitivo stabilizzarsi delle monarchie feudali in Francia e in Germania
(terzo/quarto decennio del XI secolo). Il secolo lungo di Richer si interrompe
peraltro all’anno 998, quando cessano anche gli ultimi brevi appunti apposti a
conclusione del manoscritto. Gli avvenimenti salienti sono stati comunque
riassunti nelle tavole sinottiche riportate nel seguito.[1]
A tale proposito è opportuno ricordare che poche epoche
della storia scritta sono caratterizzate da una povertà di fonti così marcata
come il decimo secolo europeo: ci sono avvenimenti di cui Richer è l’unico
testimone (non si sa quanto attendibile), e altri per cui gli scarsi, ambigui e
spesso contraddittori riferimenti rintracciabili nei pochi testi annalistici,
nelle magre raccolte diplomatiche, nei testi agiografici e nei necrologi non
permettono una ricostruzione dei fatti scevra da congetture e da arbitrari
interventi interpretativi. Spesso non solo la cronologia assoluta, ma anche
quella relativa non può essere stabilita in modo per tutti convincente, e da
quest’ambiguità non raramente nasce (se già non era implicitamente presente
nella ricostruzione) un differente giudizio sul significato degli avvenimenti.
Per restare a Richer, e tralasciando altre vicende minori, tutta la lunga
storia del conflitto tra Ugo Capeto e Carlo di Lorena (anni 987-991), che pure
dovrebbe far parte del “vissuto” personale dell’autore, risulta a tal punto
confusa, probabilmente anche per la necessità di “coprire” i continui cambiamenti
di fronte dei protagonisti, tra cui non ultimo proprio Gerbert, committente e
destinatario delle Historiae, da aver obbligato anche gli analisti più
attenti a revisioni e reinterpretazioni, e l’attuale vulgata[2],
per cercare di dare un senso compiuto alla cronologia, arriva a postulare,
a proposito degli assedi di Laon, una grossolana inversione da parte di Richer.
Confrontando la narrazione di Richer con la sinossi degli
avvenimenti più rilevanti del secolo, è immediato rilevare alcune importanti
assenze, che ci permettono di delimitare le frontiere, prima di tutto mentali,
entro le quali si muove il monaco di Saint-Remi. È interessante notare in primo
luogo lo scarsissimo impatto che hanno sulle Historiae le invasioni che
pure hanno caratterizzato, e per certi aspetti condizionato nelle sue dinamiche
politico-sociali, il X secolo. Se la presenza dei Normanni, soprattutto nel
primo libro, non si può definire marginale, il loro ruolo non è però così
diverso da quello di altri villains, e le loro scorrerie, per quanto
temibili, risultano di fatto omologabili a quelle dei signori feudali nel
“normale” esercizio delle loro attività belliche. Gli Ungari compaiono una
volta sola, e la loro comparsa è menzionata come presagio di altre calamità,
come se si trattasse di una tempesta o di un’eclisse, piuttosto che come fatto
in quanto tale rilevante per la narrazione storica. Dei Saraceni troviamo solo
menzioni indirette, in riferimento alla cacciata di un vescovo dalla sua sede
(Aix-en-Provence) o a una richiesta di soccorso da parte dei Catalani della
Marca Spagnola invasa da al-Mansur. Corollario quasi inevitabile di questo
disinteresse è la mancata citazione di
due degli episodi che, a giudicare dalle altre fonti coeve, hanno invece
maggiormente colpito la sensibilità dei contemporanei. Ci riferiamo alla
vittoria di Ottone I sugli Ungari al Lechfeld nel 955 e alla distruzione della
testa di ponte saracena di Fraxinetum nel 975. Distanza fisica, in
entrambi i casi, e distanza anche cronologica, rispetto al vissuto di Richer,
almeno nel primo caso; ma di certo anche un’insensibilità che fa pensare a un
sostanziale mutamento di percezione rispetto a una non brevissima stagione in
cui le invasioni avevano rappresentato forse il principale fattore di
insicurezza collettiva.
Pressoché totale è poi il disinteresse di Richer per i fatti
d’Italia: non solo non vi troviamo traccia delle alterne vicende dei sovrani
“nazionali” e provenzali della prima metà del secolo (di cui pure in Flodoard
si sarebbe potuto trovare qualche spunto), ma non c’è menzione neppure del
processo, di certo non irrilevante per la stessa successiva narrazione di
Richer, che portò all’incoronazione imperiale di Ottone il Grande nel 962.
L’Ottone I di Richer non è neppure, tutto sommato, tanto “grande”, e compare
nelle vesti di un intrigante, che trama sanguinose vendette personali per
offese di natura poco più che cerimoniale e protocollare, in un episodio che
potrebbe essere anche soltanto frutto della fervida immaginazione del
narratore. Altrettanto radicale il disinteresse per le vicende anglosassoni, al
punto di collocare la sede dei sovrani, peraltro menzionati solo in relazione
alla vicenda dell’esilio di Ludovico IV d’Oltremare, in una città (York) che
all’epoca dei fatti narrati era invece occupata dai Danesi…
In buona sostanza Richer non “esce” mentalmente dalla
provincia ecclesiastica di Reims se non quando ne è strettamente obbligato
dallo svolgimento della vicenda storica. Per nostra fortuna, accadono intorno a
Reims fatti sufficientemente importanti anche per le loro conseguenze lontane
da rendere la narrazione di Richer un documento di importanza straordinaria per
ogni tentativo d’intelligenza delle dinamiche che portarono al definitivo
stabilirsi della dinastia capetingia in Francia e anche al definitivo tramonto,
in un arco di tempo in sostanza brevissimo, di una certa idea di un Impero i
cui confini potessero essere almeno teoricamente gli stessi che quelli della
Cristianità (occidentale).
Proprio l’importanza degli argomenti trattati porta però in
primo piano il tema della “credibilità” di Richer. E qui è bene essere chiari.
Non soltanto il monaco di Saint-Remi è sostanzialmente poco interessato alla
precisione della narrazione storica, come non la intenderemmo, cosa che un poco
ci disturba, anche senza pretese anacronistiche, quando lo confrontiamo con il
quasi contemporaneo Flodoard, i cui Annales, nella loro piattezza
cronachistica, hanno almeno il pregio di una sostanziale aderenza ai fatti. Non
soltanto Richer, non sappiamo se per limiti di intelligenza soggettiva, se per
problemi di competenza linguistica, se per fretta o per distrazione, fraintende
spessissimo le proprie fonti e integra con la fantasia un canovaccio che già di
per sé spesso non corrisponde a quanto i suoi predecessori avevano consegnato
alla memoria. Non soltanto Richer, sempre a caccia di pretesti letterari,
inventa situazioni, dialoghi e orazioni, salvo poi imitare se stesso
riproponendo con minime variazioni di nomi e di luoghi episodi già raccontati.
In realtà l’aspetto più sconcertante (e preoccupante per chi ha il dovere di
analizzarlo criticamente) del lavoro di Richer sta piuttosto nel fatto che egli
riscrive la storia. Siamo letteralmente al livello dell’Orwell di 1984,
o di un museo sovietico di storia della rivoluzione: da una redazione all’altra
(entrambe leggibili nel manoscritto), o da un episodio all’altro, scritti in
tempi e con umori presumibilmente diversi, cambiano o scompaiono i nomi dei
protagonisti, i “buoni” diventano “cattivi” e viceversa.
Se
non ce la sentiamo di seguire fino in fondo l’analisi di Glenn[3], pur
tuttavia non possiamo negare che l’affiliazione ideologica (come probabilmente
quella materiale) di Richer è a dir poco erratica, e la voglia (o la necessità)
di non scontentare nuovi potenziali “padroni” (o padrini) impongono giravolte
verbali e mentali delle quali non è facile, neppure con il senno di poi,
seguire il filo. Forse (ma è un forse estremamente dubitativo) Richer si trova
a tentare di inseguire le vicissitudini personali del suo committente Gerbert,
che a sua volta fatica parecchio a trovare una propria definitiva collocazione,
prima tra Carlo di Lorena e Ugo Capeto, e più avanti tra i Capetingi e gli
Ottoniani. La scelta di campo definitiva, quella che lo porterà alla fine sul trono
di Pietro, è tutta negli ultimi paragrafi delle Historiae, quando ormai
per Richer è troppo complicato (e forse troppo pericoloso) rileggere con la
nuova chiave di lettura l’intera storia del secolo che
[1] Per la datazione degli
avvenimenti citati da Richer abbiamo adottato la versione che ci è parsa di
volta in volta più attendibile tra quelle proposte nella letteratura. Per gli
avvenimenti non trattati da Richer abbiamo per lo più seguito le indicazioni
della Cronologia Universale UTET (Torino 1995)
[2] F. Lot, Les Derniers Carolingiens, p.224 n.4, Études sur le
Règne de Hugues Capet, pp.249-256. Lot riprende con forza un commento che appare (p.105 n.1)
nell’edizione Havet (Parigi 1889) delle Lettres de Gerbert;
questa cronologia è accettata anche nell’edizione Riché (Parigi 1993)
[3] J.
Glenn, op. cit.