La filosofia di Gerbert

 

Richer ci narra in [III.55] che Otric, scolasticus di Magdeburgo, avuta notizia delle crescente fama di Gerbert come educatore e filosofo, inviò a Reims un giovane Sassone, che doveva seguire le lezioni del  maestro aquitano e riferirne poi il contenuto. Il Sassone seguì i corsi e prese diligentemente appunti, ma in lui evidentemente l’attenzione e la comprensione non erano all’altezza della buona volontà, e di conseguenza egli riferì una versione dell’insegnamento di Gerbert  che, tradendone pesantemente il contenuto, lasciò credere a Otric di trovarsi di fronte a un incompetente superficiale anziché a un profondo pensatore. Fu poi in occasione del famoso dibattito di Ravenna [III.57-65] che Gerbert poté, smentendo il suo cattivo interprete, esporre compiutamente la propria dottrina (che è poi quella di Aristotele mediata da Boezio), creando così non poco imbarazzo al suo autorevole detrattore.

Ricordiamo qui questo episodio perché non possiamo resistere alla tentazione di rileggere l’intera descrizione del dibattito, così come Richer ce la propone, attribuendo mentalmente al monaco di Saint-Remi un ruolo analogo, mutatis mutandis, a quello dello studente Sassone. Certamente Richer conobbe la filosofia di Gerbert, ma possiamo affermare con altrettanta sicurezza che la comprese a fondo? Molti indizi tenderebbero piuttosto a suggerire che Richer ci abbia offerto una lectio facilior di un’analisi filosofica che potrebbe aver toccato problemi molto più importanti e sottili di quelli che l’esposizione dello storiografo ci fa superficialmente percepire.

Siamo tuttavia in presenza di una tradizione storiografica che, partendo dall’accettazione del racconto di Richer al suo valore nominale, ha teso a presentarlo come l’evidenza fattuale del bassissimo livello raggiunto dal dibattito filosofico in un X secolo che avrebbe rappresentato una fase di contrazione della capacità di speculazione filosofica in Occidente. Ricordiamo qui fra tutti il lapidario giudizio di Lot[1] : “Gerbert sort vainqueur et acclamé de cette lutte, qui nous semble parfaitement ridicule”, e quello per così dire riassuntivo di Latouche[2]:”La plupart des historiens jugent le débat sans indulgence et le qualifient de futile”. In ambito storiografico è solo con Riché[3] che aggettivi come futile e ridicule vengono formalmente contestati.

Per fortuna una ben diversa attenzione si manifesta invece tra gli studiosi della filosofia scolastica e della sua genesi; ma anche in questo caso non v’è, come vedremo, univocità di giudizio, né sul valore assoluto del pensiero di Gerbert né tantomeno sulla sua possibile collocazione in un’ideale genealogia delle differenti posizioni che animeranno il dibattito filosofico nei secoli successivi. E in ogni caso anche i più attenti commentatori hanno preferito focalizzare la loro attenzione soprattutto sulla prima e sull’ultima parte del resoconto richeriano della Disputatio ravennate, quasi che la discussione sulla causa del mondo e peggio ancora la disamina della causa dell’ombra potessero essere liquidate come l’ennesima e degradata versione di un dibattito “sul sesso degli angeli” (se mai veramente ve ne fu uno); si tratta ancora una volta di un atteggiamento certamente conforme a una certa corriva immagine dell’Alto Medioevo, ma probabilmente del tutto sbagliato.

Per provare a rileggere la disputa di Ravenna con l’obiettivo di cogliere, dietro una forma i cui limiti, ripetiamo, potrebbero essere in larga misura attribuibili al filtro di Richer, il nucleo dei reali interessi filosofici in gioco e anche una possibile prefigurazione di successive linee di sviluppo, non possiamo esimerci dall’esigenza di inquadrare il dibattito nel suo proprio e specifico contesto culturale.

La filosofia altomedievale si colloca nell’alveo di una tradizione largamente platonica e neoplatonica, mediata da Agostino e, per quanto riguarda in particolare la logica, costruita su un corpus nel quale il pensiero di Aristotele è conosciuto soprattutto attraverso il neoplatonico Porfirio e tramite le traduzioni di Boezio, che a sua volta si era programmaticamente prefisso l’obiettivo di “conciliare” le posizioni platoniche e aristoteliche.

Conosciamo bene quest’humus culturale anche grazie alle preziose indicazioni dateci in precedenza da Richer in [III.46], laddove egli ci descrive i testi a partire dai quali Gerbert svolgeva l’insegnamento della dialettica (l’Isagoge di Porfirio con i commenti di Vittorino e Boezio, le Categorie, il Perì Hermeneias e i Topici, sempre con il commento di Boezio). È già quindi presente gran parte degli ingredienti di quella che sarà poi nota come ars vetus, ossia di quella ripresa di temi della logica aristotelica e postaristotelica che introduce al dibattito, centrale per la successiva filosofia scolastica, sul tema degli “universali”.

L’analisi della prima parte della Disputatio (quella relativa alle divisioni della filosofia, ossia alla classificazione delle scienze) mostra già con una certa chiarezza dove si colloca Gerbert. Mentre la divisione accettata da Otric (fisica, etica e logica) è in ultima analisi quella stoica[4], giunta attraverso Agostino, Gerbert propugna invece la divisione aristotelica nella versione di Boezio. Fin qui nessuna novità, ma ciò che più ci interessa è cogliere un primo segnale dell’atteggiamento mentale di Gerbert: mentre ciò che intriga Otric sembra essere il fatto che nella prima classificazione la physica è un genus, mentre nella seconda appare piuttosto come species (e quindi egli, enfatizzando gli aspetti “ontologici” della distinzione, tende a giudicare insanabile la divergenza), in Gerbert, appassionato di schemata, l’enfasi è chiaramente sugli aspetti “sintattici” e quindi una (boeziana) conciliazione dei punti di vista non appare del tutto improponibile.

Partiamo dunque dalla constatazione di questo atteggiamento nel nostro tentativo di dare una lettura “filosofica” della diatriba [III.62-64] sulla possibilità di definire un concetto con una sola parola, sia che si parli della filosofia, della creazione del mondo o, più banalmente, della causa dell’ombra. Ricordiamoci sempre che ciò che leggiamo è quel che Richer ha capito (o addirittura immaginato), non quel che Gerbert e Otric hanno effettivamente detto. Le parole di Richer sono ombre di idoli nella caverna platonica; le idee (di Gerbert), in quanto tali, ci restano inconoscibili.

Ma possiamo tentare qualche congettura, anche a partire dal senno di poi che ci viene dalla conoscenza del dibattito che si svolgerà nei due secoli successivi. E ci pare di poter dire, interpretando ma (si spera) non forzando il testo, che la posizione di Otric, spiegata da Richer con l’esigenza di brevitati studere, sia piuttosto ancora una volta il segno di una concezione filosofica che, nella sua ansia non nascosta di attribuire una valenza ontologica (uno nomine) ai nomi delle cause, tradisce abbastanza chiaramente il carattere di un realismo estremo. E ci pare anche che Gerbert, con il suo de-ontologizzare (se non altro le sostanze seconde) muova un primo significativo passo nella direzione di un reale allontanamento da tale posizione. Sarebbe forse (questo sì) ridicolo attribuirgli una posizione precocemente nominalistica. Ma ci piace invece vedere, nella discussione [III.65] del possibile uso dell’attributo “razionale”, una premonizione (certamente umbratile ed embrionale) di alcuni aspetti del concettualismo. 

Per cercare di verificare ulteriormente quest’ipotesi di lavoro dobbiamo fare riferimento al saggio De rationali et ratione uti, uno scritto di Gerbert assai posteriore (dell’anno 997), nel quale vengono ripresi i problemi sollevati nel corso dell’ultima parte della Disputatio. Il problema in sé non è particolarmente originale, prendendo le mosse da un’osservazione di Porfirio. Ci si chiede come è possibile che “far uso di ragione” possa essere predicato di “razionale” se è vero che ogni predicato deve essere più ampio del proprio soggetto (mentre è chiaro che non ogni “razionale” fa continuamente “uso di ragione”). La soluzione di Gerbert, basata su una distinzione tra predicati sostanziali e accidentali, e su un’analisi abbastanza originale del rapporto tra potenza e atto, sembra mostrare una conoscenza (o meglio, secondo King[5], una sorta di intuizione) di Aristotele più ampia di quella che si sarebbe potuta trarre dalle scarne osservazioni di Boezio sull’argomento.


Anche su quest’opera il giudizio degli storici della filosofia medievale è assai controverso.  Da un lato abbiamo una lunghissima tradizione di svalutazione, che risale almeno a Prantl[6] e passa per Gilson[7], seguito in questo abbastanza puntualmente da Wolff[8], e trova ancora significativi epigoni in C. Frova[9] e in U. Lindgren[10], che tendono a considerare il trattato piuttosto come un elemento, anche importante, di comprensione della vicenda personale e del contesto politico nel quale Gerbert si muove che non come un’opera di interesse filosofico intrinseco.

Ma d’altra parte anche tra i commentatori più attenti all’esigenza di una valutazione approfondita del testo gerbertiano le opinioni svariano in modo radicale. Se Hauréau[11] vede il trattato come un risoluto ma prematuro tentativo di riconciliare Aristotele e Platone, egli tuttavia ritiene di dover inserire senza riserve Gerbert nei ranghi dei realisti dichiarati, sulla base della sua credenza in intelligibili eternamente sostanziali. L’argomentazione non è tuttavia condivisa né da Bréhier[12], che vede proprio nella modalità con cui Gerbert distingue tra entità eterne e necessarie da una parte ed entità contingenti dall’altra “une distinction qui suppose le platonisme, mais peut-être en même temps le nominalisme”, né da McInerny[13], che tra l’altro sottolinea il passaggio in cui Gerbert parla degli intelligibili in termini di concetti mentali (passiones animae). E non possiamo non ricordare il giudizio quasi entusiastico di Turner[14], che arriva a dichiarare il trattato di Gerbert “the first sample of the use of the Scholastic method, which, a century later, was employed in Abelard’s Sic et Non”.

Anche noi, senza nulla voler togliere all’originalità del pensiero del maestro del Paracleto, crediamo tuttavia di non abbandonarci a eccessiva fantasticheria immaginando che un maestro di “dialettica”, quale Gerbert ci appare (non soltanto dal testo di Richer ma anche da ciò che di realmente autografo ci è stato conservato: lettere, saggi, resoconti di sinodi),  abbia potuto in qualche misura anticipare una visione così squisitamente dialettica come quella prospettata dall’autore di Sic et Non.

 



[1] F. Lot, Les Derniers Carolingiens, p.122 n.3

[2] Richer, Histoire de France, ed, R. Latouche, v.II, p.69

[3] P. Riché, Gerbert d’Aurillac, le pape de l’an mil, p.62

[4] Sull’argomento si veda in particolare H.-H. Kortüm, Richer von Saint-Remi, pp. 83-92

[5] P. King, in A Companion to Philosophy in the Middle Ages

[6] C. Prantl, Geschichte del Logik im Abendlande, II/1 (Storia della Logica in Occidente, p.103)

[7] E. Gilson,  La philosophie au Moyen Age (La filosofia nel medioevo,  p. 35)

[8] Ph. Wolff, Storia e cultura del Medioevo dal secolo IX al XII, p. 186

[9] C. Frova, Gerberto philosophus: il De rationali et ratione uti, in Gerberto: scienza, storia e mito

[10] U. Lindgren, Rèpresentant de l’age obscur ou à l’aube d’un essor? Gerbert et les arts libéraux, in Gerberto d’Aurillac da Abate di Bobbio a Papa dell’Anno 1000

[11] B. Hauréau, Histoire de la philosophie scolastique

[12] E. Bréhier, La philosophie au Moyen Age, p.77

[13] R. McInerny, A History of Western Philosophy

[14] W. Turner, History of Philosophy