La fisica del testo

 

Il testo delle Historiae ci è pervenuto tramite un unico manoscritto, di pugno dell’autore, conservato in discrete condizioni alla Staatsbibliotek di Bamberg (MS Bamberg, Hist. 5). Ciò potrebbe indurre a pensare che il  compito dei paleografi e dei filologi dovesse essere in questo caso relativamente semplice, non essendovi problemi di trascrizione e di interpolazione, né la necessità di ricostruire uno stemma codicum. E invece ci troviamo di fronte a difficoltà  tali da ingenerare una vera e propria “questione richeriana”. All’origine di queste difficoltà sta il fatto che ci troviamo di fronte a un vero e proprio work in progress, costellato di cancellature, correzioni, aggiunte a margine, note, interpolazioni “d’autore”, rimaneggiamenti anche strutturali (fogli tagliati e inseriti)[1], e che sembra estremamente difficile pervenire a una ricostruzione ambigua della storia, e soprattutto del significato intrinseco ed estrinseco, di questi rimaneggiamenti.

Il manoscritto richeriano, giunto a Bamberg attraverso canali a noi sconosciuti, fu visto in età moderna per la prima volta dall’umanista Johannes Trithemius (1462-1516), che poi nei propri Annales[2] ne fece ampio uso e parafrasi[3]. Il manoscritto venne poi rilegato nel 1611, subendo in quella occasione l’amputazione dei margini con la perdita di lettere e intere parole. Dopo un paio di secoli di ulteriore silenzio fu ritrovato e classificato da Jaeck intorno al 1820, ed erroneamente attribuito a Richer di Senones, monaco benedettino del XIII secolo autore di cronache locali. Di effettiva riscoperta si può quindi parlare soltanto a partire dalla consegna del manoscritto (1833) a G.H. Pertz e dalla pubblicazione da parte di quest’ultimo della prima edizione critica (1839) nei Monumenta Germaniae Historica (Scriptores). Fu sempre Pertz a offrire la prima interpretazione della possibile vicenda compositiva delle Historiae; tale interpretazione, che riportiamo in dettaglio qui di seguito, fu accettata abbastanza pacificamente dai commentatori fino a tempi recenti.

Secondo Pertz, Richer lavorò al suo manoscritto tra il 995 e il 998. Egli scrisse la prima redazione dei primi ventotto fogli (ovvero il primo libro e il secondo fino a II.72) usando un inchiostro più chiaro. In seguito Richer, con un inchiostro più scuro, effettuò una revisione della prima parte, completò il secondo libro e scrisse il terzo e il quarto libro. Queste fasi, secondo Pertz, potevano essere datate mediante un’analisi delle diciannove righe di note non elaborate in forma letteraria che compaiono nell’ultimo foglio del manoscritto. Infatti le prime otto righe sono scritte con un inchiostro più chiaro e riguardano avvenimenti degli anni 995-996, mentre le ultime undici righe, scritte con inchiostro più scuro, trattano fatti che vanno dalla metà del 996 all’inizio del 998. Nelle edizioni Waitz (1877)[4] e Latouche (1930-1937)[5] la ricostruzione non viene messa in discussione, mentre Hoffmann (2000)[6] osserva che altre variazioni di inchiostro, anche se meno marcate, sono presenti nel manoscritto, né è possibile a suo avviso giudicare se gli inchiostri usati nella prima stesura della prima parte e nella redazione delle prima otto righe di note finali siano effettivamente gli stessi. La conclusione di Hoffmann, molto cauta e basata sulla dedica delle Historiae a Gerbert, si riassume nell’ipotesi che l’opera sia stata redatta tra il 991 e il 998, e più in particolare il lavoro si sia sostanzialmente concluso verso la metà del 996, mentre le note sarebbero state aggiunte nel biennio successivo in vista di una possibile estensione della narrazione. Ancor più drammatico è lo scostamento dall’interpretazione tradizionale da parte di Glenn[7], che sulla base di un’analisi paleografica, codicologica e testuale giunge a proporre una lettura radicalmente diversa della storia compositiva del manoscritto e delle stesse intenzioni del suo autore.

Senza entrare nel merito delle argomentazioni di Glenn, ci pare opportuno riportarne le conclusioni, soprattutto per mettere in evidenza l’origine e le dimensioni dello scarto interpretativo.

Secondo Glenn, Richer, forse ispirato dai drammatici eventi del periodo successivo al 985, iniziò a scrivere una storia, redigendo una prima versione, della quale ignoriamo il punto di avvio, e della quale ci restano forse i fogli 29 e 31 della redazione attuale (che appaiono come inserzioni nel quarto dei sei fascicoli di cui essa si compone). Farebbero invece sicuramente parte della prima redazione i fogli originali del quinto fascicolo (a partire dal foglio 38) e del sesto fino al foglio 54,  nei quali sono riportati gli eventi a partire dalla morte di Ottone I (maggio 973) e fino alla morte del conte Eude di Blois (marzo 996). A questo punto si sarebbe conclusa la prima versione della storia, scritta prevalentemente, sempre secondo Glenn, nel (lungo) periodo che Richer avrebbe trascorso a Chartres dopo il suo famoso viaggio. Per qualche motivo Richer avrebbe poi a un certo punto deciso di trascrivere, inserendole nel quinto fascicolo (fogli 33-37), parti delle Gesta Adalberonis e della Vita Gerberti da lui già composte in precedenza. Secondo questa ricostruzione il cambiamento di scenario indotto nella primavera del 996 dalla morte di Eude e dal legame di Berta, sua vedova, con Roberto il Pio re di Francia (legame fortemente osteggiato da Gerbert) avrebbe indotto Richer a rimettere le mani nel proprio manoscritto, con l’obiettivo di ingraziarsi Gerbert. Solo a questo punto egli avrebbe inserito il resoconto del viaggio a Chartres e del sinodo di Sainte-Basle (fogli 49-51), ma soprattutto solo a questo punto Richer avrebbe deciso di dedicare un’opera a Gerbert e avrebbe scritto con l’inchiostro chiaro la prima parte (fogli 1-28) e le note del foglio 57, il cui ultimo evento databile è la morte del duca Riccardo di Normandia (novembre 996). Alla fine dell’autunno 996 Richer avrebbe nuovamente abbandonato il manoscritto. Le note successive, a partire dalla morte di Ugo Capeto (fine ottobre 996) sono di nuovo scritte con l’inchiostro scuro. Ma con la morte di Ugo cambiò drammaticamente anche la posizione di Gerbert, coinvolto nella vertenza contro Arnolfo e ora non più sostenuto con convinzione dal re di Francia. Nella primavera del 997 Gerbert lasciò per sempre Reims, e un anno più tardi Arnolfo fu definitivamente reinsediato nell’episcopato. A questo punto Richer si mise a correggere sistematicamente con inchiostro ancor più scuro le parti scritte in inchiostro chiaro (inserendo i fogli 2 bis, 10 e 11, forse tratti anch’essi dalla prima redazione), con l’obiettivo (secondo Glenn) di delegittimare i Capetingi e sottolineare invece la legittimità dei Carolingi, alla cui famiglia Arnolfo apparteneva. E sarebbe questo il momento in cui egli decise di unificare i due manoscritti, completando con l’inchiostro scuro il quarto fascicolo (fogli 27-28, 30 e 32) con la narrazione delle imprese del padre, personaggio di conclamata fedeltà ai Carolingi, e sforando nel quinto fascicolo (le prime otto righe del verso del foglio 33 sono state riscritte su un’ampia abrasione del testo originario, nella parte precedente l’elezione di Adalbéron). L’opera fu poi comunque lasciata incompleta, presumibilmente nella primavera-estate del 998, e comunque certamente prima dell’elezione papale di Gerbert.

Se lo schema di Glenn non appare veramente convincente, non v’è però alcun dubbio sul fatto che moltissime delle sue osservazioni sulla struttura e la composizione del testo impongono una non superficiale riflessione. Noi crediamo tuttavia che esista uno strumento di analisi capace di dare una risposta a molte delle questioni sollevate. Non si tratterebbe forse ancora di una risposta definitiva, ma di certo potrebbero essere sciolti almeno alcuni dei maggiori grovigli interpretativi. Ciò a cui stiamo pensando è una tecnica di analisi non invasiva e non distruttiva della composizione degli inchiostri di recente messa a punto e con la quale è stato già possibile risolvere importanti questioni di datazione relativa, come nel caso di alcuni manoscritti galileiani. Una classificazione non ambigua, e fisicamente certa, degli inchiostri usati da Richer potrebbe andare al di là della sommaria distinzione chiaro/scuro che, come si è visto, lascia ampie zone d’ombra, soprattutto per l’impossibilità di decidere quali parti (lontane) del testo risalgano effettivamente ad una stessa fase di composizione. Già la semplice certezza delle corrispondenze, anche in mancanza di una cronologia relativa delle fasi di scrittura, permetterebbe comunque di sgombrare il campo da tutte le ipotesi che si rivelassero inconsistenti con il dato di fatto. Non è nostro mestiere effettuare queste analisi, ma pensiamo che il manoscritto di Richer dovrebbe costutuire uno stimolo straordinario per coloro che hanno la competenza e la strumentazione necessaria per affrontare questa sfida.

 



[1] I dettagli della struttura fisica del manoscritto sono ampiamente descritti da Glenn, op. cit. p.128

[2] J. Trithemius, Annales Hirsaugienses

[3] Per un’analisi dell’utilizzo del testo di Richer da parte di Trithemius si veda Hoffmann, Richer, e le note dello stesso all’edizione critica delle Historiae

[4] Richeri historiarum libri IIII,  MGH SS    , ed G. Waitz

[5] Richer, Histoire de France 888-997, ed. R. Latouche

[6] Richer, Historia, ed. H. Hoffmann

[7] J. Glenn, op. cit., pp.128-165 e Appendice D (pp. 285-293)