Con estrema chiarezza Richer ci annuncia fin dalle prime
righe del prologo il proposito principale della sua opera, che è la narrazione
dei congressus Gallorum. La scelta dei due vocaboli qualifica
ulteriormente, e sottilmente, l’intenzione dell’autore.
In primo luogo apprezziamo nella scelta dell’etnonimo Galli
non soltanto il gusto arcaizzante dell’autore (di certo condiviso da almeno
alcuni dei suoi contemporanei) ma anche, e forse più sostanzialmente,
l’imbarazzo che, alla chiusa del X secolo, avrebbe creato l’impiego di un
vocabolo (Franci) che un uso plurisecolare legava a un territorio ben
più vasto di quello rimasto infine in possesso degli ultimi discendenti di
Carlo Magno. Non ripeteremo qui nel dettaglio l’analisi di Hoffmann[1] (che
in linea di massima condividiamo) se non per sottolineare ancora una volta il
carattere largamente (e necessariamente) indeterminato delle categorie
politiche di Richer (e dei suoi lettori e mentori), in una stagione il cui
esito finale (ossia la definitiva e irreversibile disgregazione dell’unità
imperiale, carolingia e cristiana) era forse scontato nella realtà
politico-sociale ma certo non ancora assimilato dalle coscienze soggettive e
dalle ideologie collettive: l’episodio del letto gestatorio (II.30), che sul
piano fattuale potrebbe essere anche semplicemente frutto della fantasia
dell’autore, o quello dell’aquila imperiale (III.71), per la loro natura
simbolica sono rivelatori di una concezione delle istituzioni politiche quanto
e più di un’esplicita (e magari artefatta) dichiarazione di principio.
Notiamo poi che congressus ha una latitudine di
significati ben più ampia di pugna o bellum, e copre quindi ben
più adeguatamente la varietà di situazioni nelle quali si vedranno coinvolti i
protagonisti della narrazione. Lo scontro di natura più epocale è certamente la
competizione per il regno dei Franchi occidentali e, in stretto legame con
questa, il latente ma permanente conflitto tra Robertingi e Carolingi, che
attraversa quattro generazioni (Eude, Roberto e Rodolfo contro Carlo il
Semplice, Ludovico d’Oltremare contro Ugo il Grande, Lotario, Ludovico e infine
Carlo di Lorena contro Ugo Capeto e suo figlio Roberto il Pio). Ma ad esso si
affiancano e s’intrecciano dispute di contenuto anche molto differente: le
ribellioni contro l’autorità regia dei signori territoriali e feudali
costantemente alla ricerca di un allargamento dei propri spazi di potere, di
egemonia e di autonomia (e ci basti qui ricordare il ruolo di Gisleberto di
Lorena e di Eriberto di Vermandois nella prima metà del secolo), i conflitti
locali tra i magnati (Arnolfo contro Erluino, Folco contro Conan, Eude contro
Folco), le campagne difensive e offensive del re e dei magnati contro i
Normanni, le azioni punitive contro i baroni predoni (Serlo, Angelberto di
Brienne), le numerose spedizioni dei sovrani in Aquitania nell’intento di
ristabilire un’egemonia continuamente messa a dura prova.
Sotto traccia, ma non per questo meno importante, si aggira
per tutto il secolo il fantasma del conflitto per la Lotaringia, mai dichiarato
come tale da Richer, che sembra dare per scontata una sovranità almeno virtuale
dei re carolingi dei Franchi occidentali sul territorio che costituisce il
patrimonio atavico della loro stirpe, anche quando l’effettivo controllo sulla
regione da parte degli Ottoniani di Germania risulta difficilmente
contestabile. Le campagne del 920-22, del 939, del 946, del 978 e del 984-85,
gli accordi di Bonn (921), di Visé (942), di Margut (980) e quello mancato di
Breisach (984), sono tutti fatti che puntualmente, ancorché ambiguamente,
Richer non manca di registrare, e che appaiono nelle Historiae come
tanti episodi isolati e indipendenti; ma non è indispensabile il senno di poi
per rilevarne la sostanziale continuità. Si tratta di un conflitto tanto
radicale quanto mascherato nella narrazione e, lo ripetiamo ancora una volta,
più ancora per confusione ideologica sul senso e il significato di nozioni quali
“stato” e “confini” che non per una scelta consapevole e volontaria. Per
collocare i fatti nella giusta prospettiva, non dimentichiamo che non è mai
esistito, se non in teorizzazioni molto più tardive, un “confine naturale”, e
che l’unica linea di demarcazione suggerita dalla geografia antropica (il
confine linguistico, che pure era già all’epoca ormai ben stabilito) non fu mai
presa in alcuna considerazione fino all’inizio del secolo scorso. Ancora una
volta rivelatrice, e perfettamente coerente con il summenzionato scambio Francia/Gallia,
è invece in Richer la scelta della totale soppressione del toponimo Austrasia,
che non è però sostituito dal più “moderno” (ma impegnativo) Lotharingia,
bensì dal classicheggiante (e ideologicamente non compromettente) Belgica.
Non ci pare affatto un caso che analoga sorte non sia stata riservata al
termine Neustria, affiancato, ma non soppiantato, dal corrispettivo Celtica.
La stessa vicenda politica e umana di Gerbert è assai
facilmente inscrivibile in questo contesto, anche se Richer si guarda bene
dallo stabilire un’esplicita connessione. E parlare di Gerbert ci porta
all’ultima, ma non certo la più trascurabile, delle categorie nelle quali
possiamo raggruppare gli “scontri dei Galli”, che è quella delle dispute tra
prelati (e, inevitabilmente, anche tra i “laici” che li sostengono) per le sedi
vescovili: in primo luogo ovviamente Reims, con il lungo conflitto tra Artaud e
Ugo di Vermandois (931-962) e più tardi con la vertenza tra Gerbert e Arnolfo
(991-997), che si dilata fino a diventare conflitto giurisdizionale tra Papato
(e Impero) da una parte e Chiesa nazionale (ma meglio diremmo “capetingia”)
dall’altra. Conflitto che ci rimanda, e non soltanto grazie a un gioco verbale,
ad un’ulteriore importante classe di congressus Gallorum: i sinodi dei
vescovi e degli abati, che occupano non piccolo spazio, e non soltanto fisico,
soprattutto negli ultimi due libri delle Historiae. Parafrasando
paradossalmente von Clausewitz, si potrebbe arrivare a dire che “i sinodi non sono
che la prosecuzione della guerra con altri mezzi”, soprattutto se si tratta di
quella particolarissima “guerra per le investiture” di cui stiamo discorrendo.
Ma i sinodi sono anche il luogo di un altro confronto/scontro, anche questo
sotto traccia, ma di cui Richer non riesce (ammesso che lo voglia) a far
sparire gli indizi: parliamo del conflitto tra clero regolare e clero secolare,
che vede gli abati, direttamente o indirettamente condizionati dal movimento
cluniacense, schierati con la Chiesa romana (e contro i vescovi) a rivendicare
un’autonomia dal potere politico che diventerà ben presto rivendicazione di
primogenitura. Per inciso (e ancora una volta forse non per caso) Cluny è un
altro dei “grandi assenti” delle Historiae, che di quello straordinario
movimento spirituale riportano solo i riflessi moralizzatori sui costumi dei
monaci, così come essi emergono, con toni quasi di pochade, nello spesso
citato “sinodo degli abati” (III.32-42).
Nella tavola riportata qui di seguito sono sinotticamente riassunti
tutti gli avvenimenti riferiti da Richer che, in una forma o nell’altra,
possono essere riportati alla nozione di congressus Gallorum. Gli
avvenimenti sono classificati (con qualche inevitabile forzatura), nelle
categorie di “assedio” (obsidio), “battaglia” o “scontro” (bellum,
pugna, congressus, certamen, collisio, tumultus) e “spedizione” (equitatus),
sono ordinati cronologicamente, collocati geograficamente ed è indicato
(mediante l’uso del grassetto) il vincitore dello scontro, se l’esito non è ambiguo.
In taluni casi (identificati dal punto interrogativo), è legittimo dubitare
della storicità dell’episodio. Riconosciamo quindi nella narrazione (con le
necessarie cautele interpretative), 21 tra battaglie e scontri, 15 spedizioni e
ben 55 assedi.
L’analisi lessicale, sia quantitativa che qualitativa, è
spesso rivelatrice dell’importanza relativa dei fenomeni descritti: una maggior
frequenza nell’uso dei vocaboli e soprattutto una maggior varietà terminologica
sono segnali chiaramente interpretabili nel senso di una più spiccata
sensibilità di chi scrive (e forse anche dei suoi contemporanei) verso quegli
specifici aspetti della narrazione. A tale proposito notiamo quindi che il
vocabolo indicante la spedizione militare è quasi sempre equitatus, a sottolineare
l’importanza bellica della cavalleria, costituita dai nobili, i milites
per antonomasia.
Un grande numero di verbi (colligere, congregare, parare,
assumere, ordinare, diversi composti di ducere), tutti
frequentemente usati, ci rimanda al difficile compito di raccogliere e
organizzare le truppe. I problemi di approvvigionamento, anch’essi cruciali,
sono in parte affidati alle angariae, ma spesso risolti in loco
con pratiche di saccheggio (praeda, rapina), descritte da un’ampia
scelta lessicale (abducere, auferre, depopulari, devastare, diripere).
Anche se la battaglia campale non risulta, come si è visto,
la modalità predominante nello scontro militare, essa ha comunque una funzione
di primo piano, e se la cavalleria vi gioca un ruolo centrale, non c’è alcun
dubbio che anche le truppe appiedate (pedites, tirones) ne sono spesso
protagoniste. Rarissimo invece il ricordo di scontri individuali: a parte il
duello mortale tra Roberto e Fulberto in [I.46] vi è una sola vera e propria monomachia,
in [III.76].
Sporadiche, ma non del tutto assenti, sono le azioni che
richiedono l’impiego della flotta (classis); in ogni caso comunque si
tratta di operazioni fluviali, mentre il controllo del mare non sembra svolgere
(almeno nella percezione di Richer) alcun ruolo strategico.
Le armi offensive e difensive sono quelle tradizionali (gladius
o ferrum, lancea, scutum, arcus, sagitta, telum, lorica, testudo),
cui si aggiunge (forse per la prima volta in un testo) la balestra (arcobalista).
Per il resto tutto il linguaggio militare è fortemente classicheggiante (acies,
cohors, copiae, signifer, armiger) e ci risulta difficile valutare quanto
vi sia di incompetenza personale e di scelta letteraria e quanto di scarsa
evoluzione delle tecnologie. In favore della prima ipotesi depone l’assenza di
ogni riferimento anche casuale ad innovazioni tecniche (staffa, ferratura) che
alla fine del X secolo dovevano essere già acquisite e consolidate.
È l’assedio, apparentemente, il modus operandi tipico
dello scontro militare nel X secolo. Ma, si badi bene, si tratta più spesso di
assedio di città che non di castelli, a dimostrare l’importanza strategica
mantenuta dalle realtà urbane, anche in un’età di grande declino
dell’urbanesimo e in un’epoca spesso e volentieri caratterizzata dalla nozione
di “incastellamento” (castrum, oppidum, arx, turris, moenia, vallum
sono i vocaboli più usati in questo contesto). Che poi ben nove di questi
assedi riguardino Laon e sei coinvolgano Reims è fatto che non può ricondursi
soltanto alla limitatezza del raggio degli interessi di Richer, ma deve farci
pensare a un’effettiva centralità di quelle che, pur con la doverosa cautela
contro il rischio dell’anacronismo, potremmo rispettivamente definire la
“capitale politica” e la “metropoli” del regno dei Franchi occidentali nel X
secolo. L’importanza politico-militare dell’assedio (unita probabilmente a una
“cultura” specifica derivante
dall’esperienza paterna) si traduce anche in una particolare attenzione di Richer
alle modalità e ai linguaggi della pratica ossidionale. E così troviamo
dettagliate descrizioni relative alla disposizione delle truppe (cingere,
circumdare, circumvallare, obfirmare sono i termini più frequenti) e alla
costruzione delle macchine (machinae) da guerra, talvolta francamente
inutili ai fini della narrazione, come la realizzazione dell’aries in
(IV.22), che una volta fabbricato viene messo da parte.
La maggioranza degli assedi narrati si conclude con la
vittoria dell’assalitore e la consegna di ostaggi (obsides), ma questa
notazione richiede almeno due importanti qualificazioni: in primo luogo la
regola non è affatto generale (Laon, per esempio, resiste all’attacco almeno
nella metà dei casi), e inoltre in un numero niente affatto trascurabile di
episodi (ne abbiamo contati otto) l’esito favorevole all’attaccante è
conseguito non tanto mediante la forza militare quanto grazie a un tradimento
dei difensori. È chiaro che queste situazioni sono per Richer un formidabile
pretesto narrativo, che il nostro autore coglie ogni qual volta se ne dia l’occasione, forse come d’abitudine
aggiungendo anche talvolta qualcosa di suo. Ma è anche chiaro che l’evento non
doveva essere inconsueto, e probabilmente la già più volte richiamata
confusione “ideologica” del tempo si prestava ad aumentare l’elasticità delle
coscienze e ad attenuare la consapevolezza soggettiva del significato dei
vincoli di fedeltà. Vincoli che innegabilmente costituiscono una realtà
giuridica (se non etica) onnipresente e costantemente richiamata, con il
ricorso a un ampio spettro terminologico, esprimente sia il punto di vista di
chi si sottomette (fieri per manus, inserere manus, polliceri, iurare,
militare), diventando così fidelis, che quello di chi ne accetta o
richiede la sottomissione (alligare, annectere, astringere, connectere,
firmare)
Sono proprio l’ossessionante richiamo alla fedeltà e
l’onnipresente richiesta di impegni giurati (sacramentum, iusiurandum, pax
sequestra) a insospettirci maggiormente sul reale valore che tali impegni
potevano assumere per gli uomini dell’epoca. Non ci pare che gli “eroi
negativi” delle Historiae, traditori di rango come l’arcivescovo Arnolfo
o il vescovo Ascelin di Laon, paghino mai veramente il fio di colpe
apparentemente imperdonabili, come il periurium. Più sfortunati
risultano alcuni castellani (Dijon, Melun) e il chierico di Noyon, che perdono
la vita a seguito del tradimento (sulla sorte ultima di Gualone di
Château-Thierry non siamo purtroppo informati); ma sembra che soltanto il rango
inferiore, e soprattutto l’esito militarmente infausto, potessero portare a
conseguenze realmente fatali. Persino il prete Adalgero, che consegna
materialmente Reims a Carlo di Lorena, alla fine se la cava con la riduzione
allo stato laicale.