Rinnovare la governance per rinnovare l’Università

(Paolo Rossi – Università di Pisa – 14 Novembre 2005)

 

  1. Pars destruens

 

Ogni introduzione a una discussione sui problemi del sistema universitario italiano non può prescindere, a mio parere, da un atto di chiarezza che vorrei chiamare “rimozione dei falsi problemi”. Si discute infatti spesso, e in molte sedi, di questioni la cui natura è il più delle volte (come spesso succede in Italia) nominalistica, e che non toccano la sostanza dei problemi reali la cui urgenza nel frattempo non fa che aumentare. Raggrupperò questi “falsi problemi” per comodità in brevi capitoli, anche se ovviamente tutte le questioni sono strettamente intrecciate l’una all’altra.

 

Falsi problemi della didattica

 

Il nuovo ordinamento (3+2) non ha abbassato “per legge” il livello degli studi universitari. L’impoverimento culturale, quando c’è stato e dove c’è stato, è il risultato delle scelte fatte in autonomia dei singoli Atenei, Facoltà e Corsi di Studi, il più delle volte strumentalmente al fine di ritagliare spazi più ampi ai settori dotati di maggior “potere contrattuale”, e con la (peraltro falsa) lusinga che ciò preludesse a un’espansione numerica del personale docente. In altri casi è stata data una lettura ingenua del concetto di professionalizzazione, che ha portato a privilegiare aspetti ritenuti più facilmente spendibili sul mercato del lavoro (spesso con valutazioni abbastanza erronee della richiesta reale) a scapito di una formazione culturalmente più solida e sicuramente più pagante nel medio periodo, soprattutto in regime di flessibilità occupazionale. Questi errori potevano essere evitati (e potranno essere corretti) senza bisogno di mettere mano a nuove modifiche radicali dell’impianto che tendano ad allontanarci dal processo di armonizzazione europea degli ordinamenti.

 

Il problema potrebbe tuttavia diventare reale se, anche con le migliori intenzioni, si instaurasssero meccanismi economicamente “premiali” in favore di quegli Atenei che conseguiranno migliori risultati quantitativi in relazione al numero di crediti conseguiti in media annuale dai loro studenti. Non credo occorra dilungarsi sul tipo di comportamenti che tale scelta potrebbe suggerire e favorire. Sarebbe bene invece individuare una strategia relamente incisiva per l’orientamento, basata in modo strutturale su un coinvolgimento della scuola media superiore che la riforma dell’esame di maturita’ ha invece purtroppo reso ancor più difficile

 

Sono falsi problemi anche la proliferazione delle denominazioni dei corsi di studio e il valore legale del titolo. Fino a quando il valore legale resta legato alla Classe, la proliferazione può essere nella migliore delle ipotesi un’opportunità di espressione di vocazioni particolari delle sedi e dei loro territori, nel peggiore dei casi un fatto puramente folcloristico, che produce danni reali solo quando non siano rispettati requisiti minimi (quantitativi e qualitativi) rigorosi (o comunque più rigorosi di quelli attuali). Ciò che ancora veramente manca è un credibile sistema di accreditamento, ma questo ci rimanda all’importante tema della valutazione, di cui parlerò nel seguito.

 

  Falsi problemi della ricerca

 

E’ un falso problema la contrapposizione tra ricerca di base e ricerca finalizzata, vista come opzione cruciale da effettuare nel momento in cui vengono direzionati gli investimenti. Nei settori più avanzati, che dovrebbero essere anche quelli che stanno più a cuore di tutti, e che sono comunque quelli che in ogni caso richiederebbero i maggiori investimenti, la distanza tra ricerca di base e ricerca applicata è nel mondo contemporaneo sempre più breve, perché le dinamiche dell’interscambio culturale e dell’interdisciplinarità favoriscono uno scorrimento di idee e un trasferimento di metodologie sempre più rapido ed efficace.

 

La contrapposizione vera è quella tra buona e cattiva ricerca, dove la cattiva ricerca è spesso proprio quella dettata dall’esigenza di mascherare con l’abito dell’immediata spendibilità alcune attività che invece nella sostanza obbediscono solo alla logica interna dell’accademia, in primo luogo la perpetuazione delle “scuole” anche ben oltre i limiti storici di validità culturale dei loro presupposti concettuali. È quindi scorretto affermare senza ulteriori qualificazioni che le risorse per la ricerca universitaria sono insufficienti. Ma è certo vero che le risorse sono oggi inadeguate a garantire che ci sia, praticamente in ogni provincia, una sede universitaria “generalista” in cui si insegnano tutte le discipline e si effettuano ricerche in tutti i settori, inclusi quelli più avanzati e dispendiosi e meno legati a vocazioni specifiche del territorio. Ad esempio non ci possono essere in Italia 44 “vere” Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, tutte in grado di offrire una formazione almeno approssimativamente comparabile, perché a sua volta sostenuta e affiancata da una comparabile quantità di ricerca scientifica.

 

Prendendo atto di questa realtà e traendone le dovute conseguenze (e spesso basterebbe solo applicare seriamente i requisiti minimi) si libererebbero risorse in misura di certo ancora insufficiente ma sicuramente significativa. Occorrerebbe ovviamente intervenire in parallelo e in modo adeguato sul fronte della tassazione studentesca e del diritto allo studio per evitare eccessivi squilibri nelle reali opportunità, da offrirsi a tutti i giovani “capaci e meritevoli”, di seguire le proprie vocazioni indipendentemente dall’origine geografica.

 

La scelta di priorità negli investimenti tra differenti ambiti disciplinari finisce comunque per essere un fatto essenzialmente e irriducibilmente politico, ma non andrebbe per questo trascurata la possibilità di individuare criteri di stima della domanda sociale, che non si esprime soltanto con il numero delle immatricolazioni ma anche, e forse principalmente, con i differenti livelli di richiesta di competenze provenienti dal mondo produttivo e, in modo complementare, con i differenti livelli di richiesta sociale di servizi, materiali e culturali.

 

E in ogni caso la conclamata incomparabilità delle discipline non può assumere il carattere solipsistico implicato dall’attuale struttura dei settori scientifico-disciplinari, nei quali al limite (ma non ne siamo molto lontani) è il singolo ricercatore, unico esperto della materia, l’unico competente a giudicare la qualità della propria ricerca. Anche questo ci rimanda al tema della valutazione.

 

  Falsi problemi della docenza

 

E’ un terribile ma suggestivo paralogismo quello per cui, dal fatto che l’Università italiana è mediamente vecchia, deriverebbe che essa sia destinata a svuotarsi rapidamente della maggior parte del proprio corpo docente. In realtà la distribuzione anagrafica della docenza è, per motivi che trovano una banale spiegazione nella storia legislativa dell’Università, estremamente concentrata intorno ai valori medi, che per quanto elevati (59 anni per gli ordinari e 52 per gli associati) sono del tutto compatibili, a legislazione invariata, con un’ancor lunga permanenza in ruolo (o fuori ruolo), non inferiore in media a una quindicina d’anni, tenendo conto del fatto che gli ordinari più anziani possono restare in servizio fino al compimento del settantacinquesimo anno d’età, e tutti gli associati fino al settantesimo. Guardando poi al dettaglio della distribuzione si scopre che, almeno per i prossimi sette anni, il livello dei pensionamenti sarà addirittura irrisorio, non solo di molto inferiore al turnover necessario per assicurare una crescita equilibrata, ma addirittura insufficiente a garantire nel lungo periodo anche soltanto  il mantenimento dei livelli numerici attuali, se non vi saranno adeguate (e necessariamente eccezionali) politiche di sostegno al reclutamento. Non solo questo è un fenomeno predicibile, ma è anche già accaduto, in questo stesso Paese,  e la carenza di personale scientifico nella fascia d’età che attualmente sta tra i 45 e i 50 anni è già chiaramente avvertibile in molte situazioni.

 

L’immissione degli attuali ricercatori in un’eventuale terza fascia del personale docente è quasi il prototipo di come i problemi dell’università possano venire deformati e travisati al punto da renderne apparentemente impossibile la soluzione. Chi conosce la realtà universitaria, nella quale la terza fascia esiste già di fatto anche se non di diritto da almeno quindici anni (l’85% dei ricercatori è da tempo affidatario di almeno un modulo d’insegnamento), cercherà un modo per razionalizzarla, a meno che non abbia in mente modelli radicalmente diversi, quali ad esempio una riduzione del fabbisogno di docenza mediante una restrizione generalizzata degli accessi, in contrasto con ciò che avviene nel resto del mondo, o la creazione di un ampio e permanente precariato docente, sostanzialmente estraneo alla ricerca e puramente finalizzato alla gestione di un’università di massa licealizzata e senza qualità. Se partiamo invece dal presupposto che la terza fascia, più ancora che necessaria, è oggi economicamente inevitabile, mentre in prospettiva i numeri della docenza, per essere “europei”, possono essere soltanto decisamente superiori a quelli attuali, dobbiamo immaginare un momento di cesura rispetto alla situazione attuale, in cui la messa a esaurimento di tutte le attuali posizioni, con il riconoscimento dei diritti pregressi (inclusi quelli, finora non ratificati, dei ricercatori) lasci sgombro il campo alla creazione di nuovi profili di docenza, possibilmente unitari nell’impianto e meritocratico-valutativi negli sviluppi di carriera.

 

Questo ci rimanda al falso problema “per eccellenza” dell’Università italiana, quello dei “concorsi”. Esistono al mondo differenti sistemi universitari che funzionano abbastanza bene, e sono basati sui più diversi sistemi di reclutamento. Viceversa non è mai esistito, e non è nemmeno immaginabile, un sistema di reclutamento che, in quanto tale, e solo grazie alle procedure, garantisca la qualità dei reclutati e l’imparzialità dei giudizi. Fintantoché le Università che reclutano personale scadente non ne pagheranno comunque nessuna conseguenza pratica, la gestione del reclutamento sarà sempre, in un modo o nell’altro, afflitta dai vizi attuali: localismo, corporativismo disciplinare, nepotismo accademico, nei casi peggiori corruzione. Il problema è quindi soprattutto quello di stabilire meccanismi di valutazione “ex post” delle scelte fatte e di prevedere, a seguito di valutazioni negative, effetti sanzionatori (non necessariamente economici, ad esempio blocco o riduzione di ulteriori progressioni). Un sistema di premi e punizioni realmente efficiente ed efficace, unito a forti incentivi anche economici alla mobilità del personale docente, renderebbe l’intero apparato concorsuale praticamente inutile.

 

Un ulteriore falso problema della docenza è quello della distinzione tra tempo pieno e tempo definito. Tale distinzione sarebbe perfettamente possibile e legittima, probabilmente anche utile proprio nei settori fortemente professionali in cui alcune competenze di elevata qualità sarebbero difficilmente remunerabili in misura adeguata ai valori di mercato volendo rimanere nell’ambito strettamente accademico. Il problema è solo quello di una seria implementazione, che sgombri il campo dagli abusi anche clamorosi consentiti da una normativa barocca e farraginosa ma spesso facilmente aggirabile qualora nel contesto accademico di riferimento prosperi una cultura diffusa della cattedra come sinecura e soprattutto del “vivi e lascia vivere”.

 

 

  1. Pars construens

 

Ogni ipotesi di intervento politico sul sistema universitario, anche la più convinta e rispettosa del principio di autonomia, non può prescindere dalla necessità di pronunciarsi su almeno tre temi fondamentali: quello della valutazione, quello del finanziamento e quello delle forme di governo del sistema. A sua volta, nessuno di questi temi può essere affrontato senza una definizione preliminare degli obiettivi che si vogliono raggiungere.

 

Assumo qui che non si voglia mettere in discussione la “missione” dell’Università (e dell’Università pubblica in particolare), che è e rimane, a mio avviso, quella di offrire al Paese formazione superiore al maggior numero possibile di cittadini e innovazione strategica (ovvero non puramente strumentale) al sistema produttivo e all’intero corpo sociale. In questa particolare fase del ciclo economico-sociale mi pare tuttavia indispensabile un’ulteriore importante specificazione: occorre trasformare l’Università italiana da realtà statica a realtà dinamica, per farne davvero il luogo dell’innovazione, in un Paese nel quale per motivi non tanto politici quanto strutturali è difficile che nel breve periodo possano nascere, spontaneamente o anche in modo guidato, altre importanti sorgenti di innovazione strategica.

 

Definire gli obiettivi di un intervento politico significa quindi identificare gli elementi che dovrebbero permettere una piena realizzazione di tale missione. Schematicamente, tali elementi possono essere raggruppati nelle nozioni di competitività (efficienza ed efficacia), capacità di acquisire risorse e identificazione di responsabilità. Ma a queste nozioni, che in quanto tali ci rimanderebbero a una pura logica di impresa, è indispensabile aggiungere, per un sistema pubblico ma autonomo, l’idea di controllo democratico, che a sua volta non può e non deve essere né soltanto esterno (Stato+Regioni), né soltanto interno.

 

I temi della competitività e della capacità di acquisire risorse ci rimandano direttamente al tema della valutazione e a quello del finanziamento. In particolare la valutazione dovrebbe agire come feedback sul sistema, simulando gli effetti di un mercato che, in quanto tale, è difficile immaginare capace di operare realmente ed efficacemente in una realtà socioeconomica come la nostra. Anche lo schema che vorrebbe introdurre elementi di mercato tramite forme di finanziamento diretto agli studenti, tali da favorire meccanismi di libera scelta tra gli Atenei, che a loro volta produrrebbero una selezione della migliore offerta formativa, pur affascinante in astratto, rischia molto facilmente di non funzionare per almeno tre ordini di motivi:

- siamo un Paese nel quale la rigidità dei comportamenti sociali, le difficoltà logistiche nel campo abitativo e in quello dei trasporti, e meccanismi di ridistribuzione dei redditi e di welfare ancora a base sostanzialmente familiare, scoraggiano fortemente la mobilità geografica nell’età tipica della formazione universitaria;

- l’incremento stipendiale effettivo determinato da una migliore qualificazione formativa è in percentuale di gran lunga inferiore  a quello registrato in Paesi in cui vige il “libero mercato” della formazione (33% contro il 96% degli Stati Uniti): da un lato un minor “ritorno” economico scoraggia un maggiore “investimento”, e dall’altro non si vede come tale situazione potrebbe cambiare rapidamente e radicalmente nel quadro del nostro sistema produttivo, se non in settori particolari ad elevatissimo contenuto di innovazione;

- non è affatto ovvio che uno schema di questo tipo non finirebbe per penalizzare proprio i settori della ricerca più avanzata e “vocazionale”, nei quali la “domanda” di formazione è necessariamente sempre molto bassa, ma che, nell’interesse di tutta la comunità, dovrebbero essere messi comunque in condizione di attrarre le risorse umane intellettualmente più qualificate e di offrir loro adeguate risorse materiali (e mi riferisco agli strumenti della ricerca molto più che alle remunerazioni).

 

Quest’analisi, se condivisa, ci rimanda alla centralità dell’obiettivo di istituire un sistema valutativo che sia efficiente, autorevole, e terzo sia rispetto al mondo accademico che rispetto alla gestione politica, e che operi in tre distinte direzioni: valutazione dell’efficacia didattica (anche in termini di spendibilità della formazione conseguita), valutazione della funzionalità ed economicità di gestione, e valutazione dei risultati della ricerca, sia a livello aggregato che a livello individuale (con tutte le necessarie conseguenze sulla dinamica delle carriere e delle retribuzioni, e superando una volta per tutte la follia nazionale dei “concorsi”). A tale proposito la proposta da più parti avanzata di costituire un’Autorità (nazionale e indipendente) per la Valutazione mi pare possa andare nella giusta direzione; ricordiamoci comunque che essa richiede un forte sforzo organizzativo iniziale e che tale sforzo non potrà essere ripagato nei tempi brevi che la politica comprensibilmente preferisce.

 

Questo meccanismo non esclude ovviamente la possibilità di interventi di finanziamento del sistema universitario  che abbiano caratteristiche specifiche e che siano mirati a obiettivi particolari: penso a interventi (sempre su base competitiva) che siano legati alla presentazione di progetti di un certo respiro e comunque non riconducibili al finanziamento ordinario, sia nel campo della ricerca che in quello delle azioni strutturali (edilizia, servizi agli studenti e al mondo produttivo), queste ultime però pensate in stretta connessione con il territorio e individuando anche forme di partecipazione (controllata) del settore privato sia alla realizzazione che alla gestione.

 

Venendo poi ai temi della responsabilità e del controllo democratico, è immediato riconoscere che essi ci rimandano direttamente alle problematiche della governance. Ma prima di entrare nel merito vorrei provare brevemente a definire il principio di responsabilità in questo specifico contesto. Esso si articola a mio parere in due punti essenziali (alcuni aspetti dei quali verranno meglio chiariti nel seguito): l’identificabilità (e quindi possibilmente unicità) della sede decisionale e la risolubilità dei potenziali conflitti di interessi. Personalmente credo che una condizione essenziale per una realizzazione di tale principio che sia contestuale a quella dell’obiettivo di un controllo democratico sulle decisioni prese e anche al mantenimento dei requisiti  di efficienza ed efficacia dell’azione di governo si trovi nella sussidiarietà dei meccanismi e dei centri di decisione, che con un gioco di parole vorrei formulare nella forma classica del “rasoio di Occam”: “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem”.

 

Partendo da queste premesse, a me pare chiaro che una governance costruita secondo un modello top down rischia di non essere in grado di rispondere alle domande che ci siamo posti fin qui: potrebbe risultare efficiente e responsabile, ma non democratica, oppure democratica ma del tutto inefficiente e irresponsabile. Per non parlare del rischio non remoto di riprodurre in forme solo apparentemente nuove la situazione attuale, che non è né efficiente, né responsabile, né democratica, ma eminentemente e intimamente corporativa, irresponsabile e minata da un costante e continuo conflitto di interessi.

 

Possiamo invece provare a immaginare una nuova governance costruita con un processo bottom up, partendo da un presupposto metodologico che è anche una premessa ideologica e culturale: ogni soggetto operante nel sistema universitario dovrebbe appartenere, come individuo, a un solo organo collegiale assembleare, individuato su base disciplinare (e prevedendo comunque meccanismi di rappresentanza per quelle categorie, come gli studenti, per le quali è difficile immaginare modalità di partecipazione che siano insieme assembleari e democratiche). Sulle dimensioni ottimali di quest’organo si può ragionare, ma sull’ambito e sulle competenze non dovrebbero esserci dubbi: esso deve essere la sede della ricomposizione delle ragioni della didattica e di quelle della ricerca, superando da un lato l’assurdo dualismo Facoltà-Dipartimenti e dall’altro la frammentazione corporativa e anarcoide dei (370!) settori scientifico-disciplinari.

 

Le strutture di gestione delle specifiche attività didattiche, di ricerca e di servizio  (classi di corsi di studi, centri di ricerca disciplinari e interdisciplinari, poli didattici e biblioteche, etc) dovrebbero essere tutte basate su organismi elettivi, snelli e dotati di poteri delegati specifici, che interagiscano con gli organi collegiali delle differenti Aree scientifico-disciplinari con il ruolo di  “portatori di interessi”, presentando richieste e proposte nella forma di piani operativi. Agli organi collegiali, sollevati dai compiti di mera gestione amministrativa, resterebbero quindi come funzioni fondamentali la definizione delle strategie di settore e la mediazione dei conflitti di interessi. Vorrei sottolineare che non si tratta di uno schema astratto, ma di un modello già in larga misura collaudato in taluni grandi Dipartimenti e in talune Facoltà sufficientemente piccole e omogenee, e che trova oggi i suoi limiti non tanto nell’impostazione di principio quanto nella farraginosità di una normativa che moltiplica comunque (seppur spesso soltanto fittiziamente e burocraticamente) il numero delle sedi e dei livelli di ratifica delle decisioni.

 

Le strutture centrali di governo dell’Ateneo dovrebbero operare in modo strettamente sussidiario, ovvero legiferando e governando sulle materie non delegate alle strutture decentrate, ed evitando la pratica macchinosa e dispersiva della ratifica. Compiti peculiari delle strutture centrali dovrebbero essere la definizione delle regole comuni, l’allocazione preliminare delle risorse, umane e materiali, e la verifica (a consuntivo) del loro impiego corretto ed efficace, oltre che i poteri sanzionatori. Tutto il resto dovrebbe essere lasciato all’autonomia degli organi decentrati, che meglio riflette le specificità organizzative e culturali dei differenti settori ed è più capace di coglierne e convogliarne le potenzialità.

 

Anche gli organi centrali d’Ateneo possono trovare una loro articolazione “naturale” se ci si basa sul meccanismo di “divisione dei poteri” già contenuto in nuce nello schema precedente:

- un organo “legislativo” dovrebbe essere eletto democraticamente, sulla base di collegi che riflettano l’articolazione per Aree scientifico-culturali, ma con meccanismi che rendano possibile e visibile l’aggregazione dei candidati (e quindi la scelta degli elettori) sulla base delle differenti linee di sviluppo perseguite e proposte, e non soltanto sulla base delle affiliazioni accademiche.

- un organo “esecutivo” dovrebbe affiancarsi alla carica monocratica elettiva (Rettore) costituendo un vero e proprio “governo” di Ateneo, di nomina rettorale, che superi l’attuale dicotomia prorettori-Consiglio d’Amministrazione e sia aperto anche a componenti “esterne” scelte per competenza.

L’interazione dell’esecutivo con il legislativo dovrebbe essere basata per quanto possibile su meccanismi standard, prevedendo in particolare il voto di fiducia sulla nomina dei membri del “governo”, e l’obbligo di approvazione del bilancio preventivo e del piano di sviluppo.

Condizioni decisive per il superamento del conflitto di interessi nella persona del Rettore mi paiono essere l’estensione temporale del mandato (fino a 5-6 anni) e la non immediata rieleggibilità.

 

Ma vorrei ribadire ancora una volta che la funzionalità degli organi centrali resta a mio parere poco più che un corollario di quella degli organi decentrati, che sono la sola sede nella quale può maturare una diffusa consapevolezza ed educazione all’autogoverno, e nella quale può quindi selezionarsi quella componente capace poi di assumere, in forma più diretta e con quote più marcate di responsabilità individuale, funzioni di governo del sistema. C’è un’assai larga parte del mondo universitario che, pur non accettando di essere espropriata delle funzioni di indirizzo, di valutazione e di controllo dell’operato di chi svolge compiti di direzione, chiede tuttavia, esplicitamente o implicitamente, di essere esonerata da funzioni di tipo gestionale non gratificanti e viste come dispersive rispetto a una missione individuale che è poi la stessa dell’intera istituzione universitaria:  produrre formazione e ricerca. La risposta a questa domanda non è la tecnocrazia né tantomeno un’organizzazione di tipo aziendale, ma lo sviluppo di modelli partecipativi che concentrino l’impegno dei molti sui soli temi strategici, liberando in questo modo risorse umane nella direzione del soddisfacimento delle concrete esigenze e finalità del sistema.