Nel 1864 il fisico scozzese James Clerk Maxwell pubblicò lo scritto “A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field”, in cui presentò per la prima volta le equazioni che presero poi il suo nome, e che ancor oggi, nella loro reinterpretazione relativistica e quantistica, rappresentano una completa e adeguata descrizione di tutti i fenomeni che riguardano elettricità e magnetismo. Tra i corollari del suo lavoro. Maxwell calcolò la velocità con cui i campi elettromagnetici avrebbero potuto propagarsi nello spazio nell’ipotesi, suggerita dalla sua teoria, che essi potessero viaggiare sotto forma di onde capaci di autosostenersi anche in regioni prive di sorgenti elettriche o magnetiche. Trovò un numero (circa 311.000 Km al secondo, con i dati disponibili a quel tempo sul valore delle costanti elettriche e magnetiche), che lo indusse alla seguente affermazione: “Questa velocità è così prossima a quella della luce da far pensare che ci sia una forte ragione per concludere che la luce stessa … sia un fenomeno elettromagnetico”.

Ho raccontato questa storia perché essa rappresenta il punto di partenza, puramente teorico e spesso dimenticato, di una delle più grandi rivoluzioni, non soltanto della fisica, ma dell’intera civiltà umana. La scoperta sperimentale delle onde elettromagnetiche, fatta da Hertz nel 1888 quando Maxwell era già morto da quasi dieci anni, diede l’avvio a uno straordinario sviluppo tecnologico che, dall’invenzione della radio a quella della televisione, dallo sviluppo delle telecomunicazioni alla nascita di Internet, ha trasformato e continua a trasformare il mondo in cui viviamo, le abitudini, gli stili di vita, le culture, i modi e gli oggetti della produzione industriale, le relazioni internazionali e, di fatto, qualunque aspetto della vita associata. Qualcuno si è preso la briga di calcolare che circa due terzi di tutto ciò che viene oggi prodotto nel mondo si basa su tecnologie che al loro fondamento hanno la teoria dell’elettromagnetismo.

A questo sviluppo tecnologico si è accompagnato e intersecato un parallelo sviluppo concettuale, anch’esso indotto dalla teoria di Maxwell, e che va dalla teoria di Planck del corpo nero (1900) alla relatività ristretta (1905) e generale (1916) di Einstein, alla meccanica quantistica di Schrödinger e Heisenberg (1925), fino alle più moderne speculazioni della fisica teorica. Anche questo sviluppo ha agito nella direzione di una trasformazione radicale della nostra visione del mondo: parole come “relativismo” e “indeterminazione”, usate spesso anche in accezioni improprie rispetto alle formulazioni originarie, impregnano ormai il nostro senso comune in modo così profondo da aver superato un vero e proprio “punto di non ritorno” rispetto all’immagine del mondo che ci veniva dai secoli precedenti il Ventesimo.

La Fisica dunque ha cambiato il mondo, e la Fisica Teorica in questo processo ha giocato un ruolo particolare, tant’è vero che nell’immaginario collettivo l’immagine dello Scienziato è ancora quasi sempre quella di Albert Einstein, uno che nella sua vita non ha probabilmente mai messo le mani su uno strumento di laboratorio, mentre nel mondo reale l’80% dei fisici, il 90% dei chimici e il 100% di tutti gli altri scienziati passano la maggior parte del loro  tempo a progettare o realizzare esperimenti. o comunque misure e raccolte di dati, in conformità a quel metodo e quel modello galileiano della ricerca scientifica che è un ingrediente fondamentale dell’altra grandissima rivoluzione posta alle origini al mondo contemporaneo, quella che tra il Cinquecento e il Seicento portò alla nascita della scienza moderna.

Ma se la Fisica ha il potere di trasformare il mondo, questo potere non viene mai (o quasi mai) esercitato in forma volontaria, perché le motivazioni della ricerca fondamentale, sulle quali cercherò più avanti di dire qualcosa di più in positivo, possono essere fin da subito caratterizzate in negativo, escludendo che tra esse possa rientrare a priori l’obiettivo di risolvere problemi concreti determinati da un contesto extrascientifico. Uno scienziato può benissimo interessarsi del problema del traffico urbano, e anche scoprire cose estremamente interessanti su questa materia, ma non gli si può chiedere di risolvere il problema del traffico di Roma tra le 11 e le 13. Sarà magari egli stesso, ma in altra veste, quella di “tecnico”, a utilizzare le scoperte “teoriche“ sul traffico per affrontare il problema concreto, ma la direzione del processo mentale non può essere invertita senza pagare un prezzo pesante in termini di creatività e originalità di pensiero.

Ma piuttosto che continuare a parlare di come “non” deve lavorare uno scienziato, mi sembra più interessante (e divertente) cercare di capire come invece lavora effettivamente. E qui mi verrebbe spontaneo citare, seppure in tutt’altro contesto, i versi di una vecchia canzone di De André, dicendo che il (bravo) ricercatore, quando fa il suo lavoro, pensa “non al denaro, né all’amore, né al Cielo”, ma, fondamentalmente, fa quel che fa perché si diverte.

Sono stati scritti innumerevoli trattati sulla “logica della scoperta scientifica”, che indagano tutti gli aspetti di metodo e di contesto (culturale, sociale, economico) che intervengono nel processo che porta alla formazione delle idee e allo sviluppo delle tecniche necessarie per la costruzione di ogni nuovo modello interpretativo della realtà. Pochi però hanno sottolineato, proprio perché il tema è elusivo, le motivazioni “umane” dei ricercatori.

Ed è chiaro che, a parte il divertimento, si possono anche cercare molte altre motivazioni, e sicuramente ci sono tanti altri ingredienti psicologici importanti, come la curiosità, la sfida intellettuale, e spesso anche un certo tipo (abbastanza particolare) di ambizione. E anche il divertimento, sia ben chiaro, non è un elemento costante e garantito nell’attività di ricerca, che come tutte le cose difficili comporta fatica, delusioni, periodi di stasi, rischio di fallimenti. Ma di certo, quando il divertimento viene completamente a mancare, allora non esistono palliativi, e si finisce per fare cattiva ricerca, o nessuna ricerca.

Mi rendo conto tuttavia che questa spiegazione rischia di risultare molto insoddisfacente per chi, non avendo provato in prima persona il “divertimento” derivante dalla ricerca, fatica anche a immaginarne la natura concreta. Mi sforzerò quindi, con racconti ed esempi, di provare a trasmettere quest’elusiva sensazione, che sembra tuttavia giocare un ruolo così importante.

Poiché il mio mestiere è quello di fisico teorico, dovrò trarre i miei esempi prevalentemente da questa disciplina, senza implicare ovviamente con questo alcun tipo di priorità filosofica o di superiorità concettuale, ma semplicemente perché la cosa mi risulta più facile e naturale. Sono abbastanza convinto, tuttavia, che ciò che dirò sia facilmente trasferibile, mutatis mutandis, all’esperienza di qualunque scienziato che abbia indagato i fenomeni della natura e della mente.

La miglior descrizione che io personalmente conosca di ciò che prova uno scienziato quando giunge a una scoperta si trova in un libro bizzarro fin dal titolo “Surely You’re joking, Mr. Feynman!” (Certo scherza, signor Feynman!), che è una sorta di (scombinata) autobiografia di uno dei più grandi fisici del Novecento, il newyorkese Richard P. Feynman (1918-1988), Premio Nobel nel 1965 per i suoi lavori sull’elettrodinamica quantistica (la versione quantomeccanica della teoria di Maxwell, appunto). Tra gli infiniti altri aneddoti narrati, spesso con totale mancanza di modestia, sulla propria carriera scientifica e non solo su quella (si va dalla partecipazione a una scuola di samba in Brasile alla decifrazione di un testo Maya!) , a un certo punto Feynman racconta, per una volta con delicatezza e senz’alcuna vanità, il giorno in cui formulò l’ipotesi CVC (primo passo verso l’unificazione della teoria delle interazioni deboli con la teoria elettromagnetica) e la lunga notte di lavoro in cui fu in grado di verificarne la correttezza. E coglie perfettamente la magia del momento in cui un uomo si rende conto di aver carpito, per la prima volta, un segreto profondo della Natura, e di aver trascritto nel linguaggio umano un’altra pagina di quel “grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo)” (ho citato le parole con cui Galileo Galilei, nel Saggiatore (1623), introduce la sua premessa metodologica fondamentale alla scienza moderna).

La capacità di svelare un mistero a partire da indizi non collegati e talvolta apparentemente contraddittori è ciò che rende affascinante e popolare la letteratura cosiddetta “gialla”. Di Sherlock Holmes, di Hercule Poirot, e  dei loro più recenti epigoni, ciò che ha attratto milioni di lettori è proprio la straordinaria potenza del ragionamento indiziario e deduttivo. È curioso che solo un numero molto minore di persone abbia apprezzato il fatto che proprio questo è, in gran parte dei casi, il modo di procedere della scienza.

Un fisico (ma per quanto ne so la cosa vale per qualunque altra disciplina, inclusa la stessa matematica) non comincia il suo lavoro formulando assiomi e poi deducendo teoremi. Il punto di partenza è spesso soltanto un’intuizione, ovviamente non fantasiosa e cervellotica, ma basata sulla conoscenza di molti fatti, teorie ed esperienze accumulate da generazioni di ricercatori e sulla capacità, in parte innata e in parte coltivata, di mettere insieme informazioni differenti ed eterogenee, come pezzi di un puzzle, a formare un’immagine complessiva.

La formulazione rigorosa e deduttiva, pur essenziale, viene alla fine, quando ciò che c’era da capire è stato capito e resta soltanto da mettere in ordine la scrivania (per così dire); e questa parte di lavoro, pur così importante, è spesso la meno divertente, tant’è vero che viene spesso rinviata a momenti di minor concentrazione ed eccitazione. Faccio solo alcuni esempi. Il volume di Copernico “De Revolutionibus Orbium Caelestium” apparve postumo (e non solo per comprensibile prudenza). Newton fece la maggior parte delle sue straordinarie scoperte nel biennio 1665-1666, ma rinviò fino al 1687 la stesura del suo libro fondamentale “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica”. Il testo definitivo di Maxwell “A Treatise on Electricity and Magnetism” apparve nel 1873, più di dieci anni dopo le prime, ma già corrette, intuizioni. E per venire a tempi più vicini a noi, e sicuramente più frettolosi, Gerard ‘t Hooft (Premio Nobel per la Fisica 1999) rinunciò a pubblicare la sua scoperta della libertà asintotica (un ingrediente fondamentale della moderna teoria delle interazioni forti) dopo una sgradevole discussione con un anonimo (e ottuso) referee, e pare che Ken Wilson (Premio Nobel per la Fisica 1982) si sia deciso a pubblicare alcuni dei suoi fondamentali contributi (teorie di campo sul reticolo, applicazione del gruppo di rinormalizzazione ai fenomeni critici) soltanto dietro minaccia di licenziamento per “scarsa produttività scientifica”. Gli esempi si potrebbero forse moltiplicare, ma credo che il punto sia ormai chiaro: il piacere della scoperta è spesso addirittura maggiore di quello della sua condivisione e del suo pubblico riconoscimento.

D’altronde il già citato Feynman espresse una volta la sua idea della ricerca con una formula icastica e irriverente, ma certamente efficace, scrivendo: “Physics is like sex: sure, it may give some practical results, but that’s not why we do it.”

Con questo non vorrei tuttavia rischiare di dare una visione individualistica e solipsista della ricerca, che si attaglia malissimo alla realtà quotidiana. Si tratta in verità anche, e soprattutto, di una grande impresa collettiva, sia in senso sincronico che in senso diacronico. Lo scienziato interagisce costantemente con i suoi colleghi, spesso raccolti in un gruppo di lavoro, ma spesso anche sparsi in tutto il mondo (e oggi per fortuna c’è Internet!), e se  non lo facesse rischierebbe rapidamente una perdita di contatto con la realtà, perché la ricerca progredisce molto rapidamente, e cambia velocemente direzione, e chi si rinchiude in un proprio schema senza confrontarsi con gli altri quasi sempre dopo poco tempo si ritrova su un binario morto. Scienziati del calibro di Newton, di Planck, di Einstein e di Heisenberg hanno passato gli ultimi anni della loro vita in speculazioni astruse e prive di rilevanza per i posteri per aver voluto perseguire ostinatamente una loro linea di pensiero che la comunità scientifica aveva già riconosciuto come inadeguata alla risoluzione dei problemi che la realtà poneva: né l’alchimia di Newton, né le “teorie unificate” di Einstein ci aiutano a capire meglio il mondo, anche se stiamo parlando di due tra i più straordinari pensatori della storia dell’umanità. E se l’argomento vale per loro, immaginatevi quanto più a ragione vale per la miriade di noi “comuni mortali”!

E c’è anche un’interazione, che ho definito “diacronica” perché mette costantemente in relazione lo scienziato, attraverso il tempo, con quanti lo hanno preceduto e hanno già portato qualche significativo contributo sul tema che egli sta investigando. Questa “collaborazione” con gli studiosi del passato è altrettanto essenziale che quella con i colleghi, perché evita spesso di ripetere errori e di infilarsi in vicoli ciechi.

Nel mio ruolo di direttore di un Dipartimento di Fisica universitario, mi capita quasi continuamente di ricevere lettere e messaggi di posta elettronica da parte di illustri sconosciuti che pensano di aver trovato la chiave per rivoluzionare le teorie fisiche oggi comunemente accettate. Non vi sto a dire quanto irrilevanti siano le loro argomentazioni: si tratta sempre, quando non semplicemente di banali malintesi, di rimasticazioni di vecchi pseudoparadossi che qualunque professionista del campo sa bene essere basati su imprecisioni di formulazione o pregiudizi epistemologici non suffragati da un reale fondamento empirico. Non a caso i bersagli più comuni di questi “studiosi” sono la teoria della relatività ristretta e la meccanica quantistica, due rivoluzioni concettuali che scuotono dalle fondamenta i nostri pregiudizi sullo spazio, sul tempo e sulle proprietà fondamentali degli oggetti fisici microscopici, ma che hanno ampiamente dimostrato non solo la propria autoconsistenza logica, ma anche la propria totale adeguatezza a descrivere il mondo “reale”. Sono i nostri pregiudizi a risultare inadeguati, non certo le teorie che ci spingono a superarli!

Ancora una volta non vorrei essere frainteso. Non sto dicendo che queste teorie non potranno mai più essere modificate: anche questo sarebbe un inaccettabile pregiudizio, che impedirebbe di valutare con intelligenza e spirito critico le ulteriori evoluzioni della ricerca. Ciò che sto dicendo, e di cui sono profondamente convinto perché tutta la storia della Fisica sta lì a dimostrare con i fatti la correttezza di questa mia affermazione, è che ogni nuova e più avanzata teoria deve “ricomprendere”, come caso particolare e in qualche opportuno limite, le teorie che oggi consideriamo sperimentalmente validate. Questo per il semplice motivo che una teoria scientifica non è una manifestazione del pensiero astratto, ma la sintesi e la somma di milioni di fatti sperimentali, che la teoria stessa descrive con un certo grado di accuratezza. E pertanto con quello stesso grado di accuratezza la teoria è “vera”, e non può più essere falsificata se non per quella parte che “eccede” la precisione con cui la teoria è stata verificata. La meccanica newtoniana è assolutamente “vera” (cioè descrive bene la realtà) nel limite in cui tutte le velocità in gioco sono molto minori della velocità della luce, così come lo è nel limite in cui la natura quantica dell’energia e del momento angolare è trascurabile. La legge di gravitazione universale di Newton è un caso particolare (ancora una volta in un limite opportuno) di quella di Einstein, che a sua volta, non c’è motivo di dubitarne, risulterà in futuro come caso particolare di una teoria più ampia, ancora in fieri, capace di unificare gravitazione e interazioni fondamentali in uno scenario compiutamente quantistico.

Insisto ancora sul fatto che ci troviamo all’interno di un quadro di conoscenze che è ormai straordinariamente ampio, ma non è né troppo rigido né troppo complesso per permettere ulteriori evoluzioni. Quando poc’anzi mi sono fatto un po’ beffa dei “dilettanti” non era per contrapporli a un mondo di “addetti ai lavori”, unici detentori della “vera” conoscenza, nel quale sarebbe difficile entrare perché ci sarebbero troppe cose da imparare. Se così fosse veramente, saremmo in un certo senso “alla fine” della ricerca, perché i giovani non potrebbero competere per conoscenze con i “vecchi” e questi a loro volta, avendo perso la spinta propulsiva, la fantasia e l’energia della gioventù, non sarebbero più capaci di inventare niente di nuovo.

Non è così. Ci sono ancora infinite cose non capite, che in molti casi aspettano soltanto un nuovo occhio, un punto di vista più fresco, uno scatto immaginativo che non è ancora stato fatto, ma che, in fondo, quando qualcuno finalmente lo farà, non apparirà, con il senno di poi, così “difficile”: l’eterno aneddoto dell’uovo di Colombo è sempre e costantemente attuale. “Imagination is more important than knowledge” , ha scritto con convinzione Einstein.

La mia critica non riguarda quindi il “dilettantismo”. Se l’attività di ricerca ha da essere innanzitutto divertimento, è evidente che la parola “dilettante”, riconducendoci all’idea di “diletto”, è in un certo senso quella etimologicamente più appropriata a definirne la modalità fondamentale. E ognuno, quando si avvia per propria scelta e vocazione a qualcosa di nuovo e abbastanza sconosciuto, comincia come un “dilettante”, né potrebbe essere altrimenti: vale per la Fisica come per il ciclismo. Ma ci deve essere la consapevolezza della necessità di acquisire una forma mentis specifica, che è un arricchimento della persona, non una limitazione, e che apre la strada a fare, pur “dilettandosi”, qualcosa di buono.

Parlo anche per esperienza diretta, avendo tentato, sia pure part time, e dopo trent’anni di più o meno onorata professione di fisico, di esplorare qualche strada differente nel vasto territorio della ricerca (nel caso specifico occupandomi di storia dell’Alto Medioevo). Ciò che ho capito, e che vorrei qui condividere con chi mi leggerà, è forse banale, ma non considero vano il ripeterlo: ogni gioco ha le sue regole, e per definizione per partecipare al gioco bisogna conoscerle. Si può essere al tempo stesso fisici e storici (o ingegneri e pittori), ma bisogna imparare a parlare in ciascun ambito il linguaggio specifico di quel contesto, e per quanto si pensi di avere delle buone idee bisogna conoscere quelle degli altri sullo stesso argomento, confrontarsi con ciò che è già stato scritto e pensato, e accompagnare all’originalità una buona  dose di umiltà.

Ho usato consapevolmente una parola “forte” come umiltà, sapendo che nella nostra epoca, dominata da una comunicazione aggressiva e rumorosa, sembra che il naturale corollario dell’umiltà possa essere soltanto il silenzio. Non è vero: si può essere scientificamente umili senza rinunciare a cercar di diffondere le proprie idee, ma soltanto mantenendo costantemente la consapevolezza della loro provvisorietà, della possibilità di errore e di fallimento che è insita in qualunque avventura umana, comprese quelle intellettuali, accettando il contraddittorio e la critica come una ricchezza, non come una condanna: non è una grande persona quella che ha paura del confronto. Nella mia vita di fisico ho avuto l’occasione (dovuta alle circostanze, non ad alcun merito personale) di conoscere forse una ventina di Premi Nobel, tra cui più o meno tutti quelli che ho menzionato, e ho incontrato personalità anche molto diverse, alcuni estroversi e altri introversi, qualcuno allegro anche se malato terminale e qualcun altro triste anche se onorato come un Papa, ma credo di poter dire che il loro principale denominatore comune fosse la straordinaria e giovanile (pur essendo quasi tutti molto anziani) curiosità. Ho però avvertito quasi sempre anche un grado di umiltà (nel senso che ho cercato di specificare prima) che, nella loro posizione, molti altri non avrebbero certo avuto.

Rileggendo queste mie osservazioni, mi rendo conto di aver forse trasmesso la sensazione che la scelta di occuparsi di ricerca scientifica assomigli per molti aspetti a una vocazione religiosa, e che come questa comporti, alla fin fine, un certo distacco dal mondo e dai suoi valori più comunemente condivisi, in primo luogo ricchezza e potere, ma anche un certo tipo di facile fama, quella che Andy Warhol descrisse con la formula profetica “tutti potranno essere famosi per un quarto d’ora” (e ancora non esistevano i Reality Show!).

Non credo in tutta onestà di poter smentire completamente quest’impressione, ma penso che nessuna persona intelligente e sensibile dovrebbe esserne troppo spaventata. È già accaduto in epoche difficili e di transizione (ce lo insegna la storia del monachesimo medievale, ma penso anche alla fine di Candide e all’ammonimento di Voltaire a “cultiver son jardin”) che un certo modo di “ritirarsi dal mondo” si sia poi rivelato come il modo più giusto e più fertile di farne parte. E sia di conforto il fatto che delle virtù monastiche l’unica che ho dovuto formalmente richiamare è quella dell’umiltà, perché nella ricerca l’obbedienza è piuttosto un difetto, e per la castità rimando a Feynman…

A parte gli scherzi, credo di aver già esposto nella prima parte di questo intervento quale possa essere lo straordinario (ancorché involontario) impatto della ricerca sul resto della società, per cui non mi pare necessario trovare altre giustificazioni “esterne” per una scelta di vita che non è certo un rifiuto di lavorare “per gli altri”, ma soltanto un modo diverso di farlo.

Credo che siano ormai da tempo superate le illusioni di chi pensava che la Scienza fosse in grado di risolvere, con le tecnologie,  tutti i problemi dell’umanità, ma bisogna stare molto attenti a non cadere nell’eccesso opposto, quello di pensare che esistano soluzioni “non scientifiche” dei problemi, o peggio ancora di pensare che molti dei problemi attuali siano stati causati proprio dal progresso scientifico. Non sono le armi che ammazzano le persone, sono altre persone che lo fanno: e questo vale anche per i danni ambientali, per i possibili abusi delle biotecnologie, per la violazione della privacy e dei diritti umani a livello planetario. Superare questi problemi sta all’intelligenza dei cittadini, e solo in piccola parte a quella degli scienziati, che possono cercare soluzioni tecniche, ma che non hanno il potere di applicarle, anche quando esistono.

In questo senso, più ancora che una “leva di massa” di giovani dedicati alla scienza, ciò che più sarebbe importante è una maggior “consapevolezza scientifica di massa”. Se molti, e non soltanto quelli che se ne occupano attivamente, provassero a capire meglio e più “scientificamente” i problemi che ci assillano, usando gli strumenti della ragione anziché quelli del “senso comune” (che significa pregiudizio, ostilità verso il nuovo e il diverso, settarismo, diffidenza etnica, tutte cose rigorosamente bandite dalla mentalità veramente scientifica), allora sarebbe anche  straordinariamente più semplice cercare soluzioni comuni ai problemi comuni.

Non è un cammino facile, quello che porta a un aumento diffuso della razionalità e della consapevolezza. Ma è l’unico, credo, che valga la pena di tentare di percorrere e al termine del quale si intraveda una speranza concreta di vivere al meglio la nostra condizione umana. Anche perché ognuno di noi ha una sola possibilità, e vale la pena di spenderla al meglio: d’altronde, per concludere proprio con le ultime parole di Feynman “I’d hate to die twice. It’s so boring.”

 

                                                               Paolo Rossi

 

Pisa, 1 Novembre 2006