Tutta la Scienza è Letteratura
Si racconta (ma molto probabilmente è una leggenda
metropolitana) che la regina Vittoria, essendosi molto divertita a leggere Alice nel Paese delle Meraviglie, avesse
espresso il forte desiderio di ricevere la prossima opera dello stesso autore,
non appena fosse stata pubblicata. E così a tempo debito le fu fatto omaggio di
Un Trattato Elementare sui Determinanti, opera del Reverendo Charles L.
Dodgson, matematico di Oxford, che col nom de plume di Lewis Carroll
sublimava il suo forse non totalmente casto affetto per le ragazzine.
Ho detto che l’aneddoto è quasi
sicuramente inventato, ma come vedremo non c’è niente di male in ciò, anzi in
un certo senso la natura apocrifa dell’apologo sostanzia anch’essa a suo modo
la tesi che vorrei sostenere e che mi ha indotto a narrarlo. La mia tesi è
molto semplice da enunciarsi: la Scienza è soltanto uno speciale filone della
Letteratura.
Non mi riferisco qui al carattere per
molti aspetti narrativo che si ritrova in molte opere importanti nella storia
del pensiero scientifico: questo è un tratto interessante, e certo meritevole
di investigazione, ma ogni generalizzazione in tal senso mi parrebbe impropria.
E non mi riferisco nemmeno al ruolo
centrale (su cui vorrei comunque tornare in seguito) che ha l’aneddoto nella
descrizione/narrazione del processo che porta alla scoperta scientifica.
Penso proprio, ed esplicitamente, ai
singoli lavori scientifici che vengono ogni giorno pubblicati letteralmente a
migliaia, pur con il loro linguaggio freddo, standardizzato, seriale.
A parte il fatto che gli aggettivi
“freddo, standardizzato, seriale” descrivono altrettanto bene una buona parte
della narrativa di consumo che inonda le librerie e i supermercati, ciò che io
voglio sottolineare è il fatto che un lavoro scientifico –qualunque
lavoro scientifico– racconta una storia. Che può essere
appassionante o noiosa, originale o già sentita, scritta con cura o in modo
sciatto, profonda o superficiale, con la morale o senza, ma è comunque una
storia.
Di fronte a quest’affermazione mi
immagino già almeno due classi di obiezioni, da non prendere alla leggera , né
le une né le altre.
La prima è quella di chi dice: ma gli
articoli scientifici sono scritti quasi sempre in un linguaggio formalizzato,
da addetti ai lavori. A questi vorrei far notare che lo stesso si può
tranquillamente dire del Disco di Festo, che chiunque può ammirare nel Museo di
Iraklion a Creta, ma nessuno può leggere, perché è stato scritto con un codice
noto soltanto agli addetti ai lavori, i quali però sono tutti morti da almeno
tremila anni. Eppure mi pare difficile dubitare del fatto che il Disco racconti
una storia, anche se non sapremo mai quale (ma nulla ci impedisce di immaginare, visto il luogo, che si tratti
della prima formulazione del paradosso del mentitore!)
Oppure ricordare la risposta del poeta
Robert Browning, a chi gli chiedeva la spiegazione di una sua lirica: “Quando
l’ho scritta solo io e Dio sapevamo che cosa significasse: ora soltanto Lui”
La seconda obiezione è più tecnica: i
lavori scientifici sono scritti in un linguaggio denotativo e non connotativo,
ovvero (volgarizzando brutalmente) descrivono fatti e non evocano sentimenti.
La mia risposta è questa: i fatti sono
sentimenti. Ricordo (ma lo sanno tutti) che “sentimento” deriva da sentio,
vocabolo che è alla radice anche della parola “sensi”, i quali sono peraltro
l’unico strumento con il quale abbiamo accesso ai “fatti” (lasciando qui da
parte lo scabroso capitolo dei “fatti matematici” la cui natura da Platone in
poi è oggetto di qualche discussione). Ciò che dovrebbe distinguere i fatti dai
sentimenti è la condivisione, per
cui siamo tutti d’accordo che il 14 luglio 1789 a Parigi è stata presa la
Bastiglia. Ma non ci sono forse due di noi che abbiano la stessa opinione sulla
Rivoluzione Francese. Allora io vi chiedo: la Rivoluzione Francese è un
“sentimento”? Ma forse la risposta per molti di voi è “sì”, e infatti immagino
che se avessi affermato che la storia è letteratura (cosa di cui ovviamente
sono convinto) si sarebbero probabilmente indignati soltanto gli storici, e
forse nemmeno tutti. Ma se i fatti sono sentimenti, sia pure condivisi, che
cosa impedisce che la loro descrizione faccia parte della letteratura?
Una possibile spiegazione sta nell’incipit
di Anna Karenina, là dove Tolstoi scrive “Tutte le famiglie felici sono
simili; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.
In altre parole, la letteratura dovrebbe
occuparsi degli amori infelici, la scienza di quelli felici. È un’ipotesi di
lavoro concreta, ma che non mi affascina. Prima di tutto anche la scienza è
quasi sempre storia di amori infelici - e di fatti non separabili dalle
opinioni.
Dopo che Aristotele (uno dei più grandi
scienziati di tutti i tempi, a mio parere) ci ha spiegato che il Sole gira
intorno alla Terra e che i corpi cadendo viaggiano a velocità costante e
proporzionale alla loro massa, ci è voluto Galileo per capire che in realtà è
la Terra che gira intorno al Sole, e la gravità produce un moto uniformemente
accelerato. Le magnifiche sorti e
progressive! Peccato che Einstein ci abbia poi convinto che, essendo Sole e
Terra entrambi liberamente gravitanti, sono entrambi ottimi sistemi di
riferimento inerziali, e le due affermazioni precedenti, entrambe valide,
esprimono soltanto due punti di vista. E peccato che uno dei primi esercizi che
uno studente impara a risolvere a Fisica I è quello in cui si mostra che un
corpo “vero” nel mondo “reale” cade a velocità ben presto costante e
proporzionale (anche) alla massa. Appunto. Se non è letteratura questa …
La voglio dire in un altro modo: ma siamo
proprio sicuri che il 14 luglio 1789 a Parigi sia stata presa la Bastiglia? Se
ci pensiamo bene, anche questa è un’interpretazione, o meglio ancora una
sovrainterpretazione: la Bastiglia era vuota, a parte sette psicolabili e poche
guardie, e quindi non c’era nulla da prendere. Gli avvenimenti precedenti e
posteriori hanno caricato di significati (connotato, appunto) un
episodio che in quanto tale, in altro contesto, avrebbe potuto essere
classificato come marginale ed etichettato con una formula assai meno
impegnativa: “La presa della Bastiglia” è un giudizio storico, non un “fatto”.
E questo vale anche, e sempre, per le
proposizioni della scienza. Esse hanno un significato preciso soltanto in un
determinato contesto, storicamente determinato, e fuori dal contesto perdono il
loro significato, e diventano “opinioni”. O, come dicevamo prima, “sentimenti”
Mi manca qui il tempo, ma non certo gli argomenti, vi assicuro, per cercare di convincervi che il contenuto di verità di “F = ma” è all’incirca lo stesso che quello della frase “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”. Si tratta in entrambi i casi di affermazioni sulle cause del moto, nelle quali alcuni termini sono tratti dall’esperienza sensibile (l’accelerazione, il sole, le stelle) mentre altri (la forza, la massa, l’Amore) restano definiti dalla proposizione stessa, che può essere utilizzata a fini predittivi esclusivamente facendo ricorso a una “conoscenza del mondo” che in quanto tale non ammette formalizzazione ma solo Rivelazione. E infatti Newton, quando enuncia la Legge di Gravitazione Universale, premette la celebre specificazione “Tutto avviene come se...”
Chi di voi ricorda il film “La Spada
nella Roccia” ricorderà sicuramente anche gli scambi di battute tra
Semola/Artù e il Mago Merlino:
“Che cos’è la gravità?”
“La gravità è quello che ti fa cadere”
“Come un inciampo o uno sgambetto?”
“Già, come un inciampo o uno.. –
No, no, no, no, no, è la forza che ti tira verso il basso, il fenomeno per il
quale due particelle di materia o corpi, se liberi di muoversi, vengono
attratti l’uno verso l’altro.”
E più tardi (mentre entrambi sono
trasformati in scoiattoli):
“Vedi giovanotto, questa faccenda dell’amore
è una cosa potentissima.”
“Più forte della gravità?”
“Beh, sì, in un certo senso… io, sì,
direi che è la forza più grande sulla Terra”
Ma allora per quale motivo la scienza
godrebbe di quello speciale statuto che, separandola dal resto della letteratura,
la rende al tempo stesso (così almeno sembra a molti scienziati e a molti che
scienziati non sono) eticamente superiore ed emotivamente priva di fascino?
Io credo che la spiegazione stia nel
fatto che il linguaggio scientifico è una forma di linguaggio magico,
ossia volto al dominio della realtà mediante la parola (non vi
sfugga l’ambiguità semantica del termine “formula”), e pertanto di linguaggio sacro.
Vi ricordo che in latino sacer è una vox media, che può
significare, a seconda delle circostanze, sia “sacro” che “esecrabile”.
E per di più la magia della scienza è
magia nera, che può produrre armi di distruzione di massa (“Ho detto
forse “Niente draghi viola?” L’ho detto?”) ed è magia vincente, che trasforma
il mondo. Non necessariamente nella direzione desiderata, ma lo trasforma.
Ricordo un libro abbastanza famoso, di Jungk, di circa trent’anni fa, che
s’intitolava “Gli apprendisti stregoni”, e il sottotitolo era “Storia
degli scienziati atomici”. C’è anche, degli anni ’50, un bel racconto di
Buzzati sulle (metafisiche) motivazioni della ricerca di Einstein…
Ma la storia è molto più vecchia. Il più
grande scienziato europeo del decimo secolo, Gerbert d’Aurillac (che peraltro
diventò papa con il nome di Silvestro II, cosa che nei “secoli luminosi”
successivi ai “secoli bui” non mi sembra si sia più ripetuta) per il semplice
fatto che sapeva usare un astrolabio e faceva i conti in fretta perché in
Spagna aveva imparato le cifre arabe godette fama (postuma) di essere un mago,
di aver fatto un patto col diavolo, e di possedere un automa che rispondeva
correttamente a ogni domanda muovendo la testa per dire “sì” o “no” (cosa che
mi piacerebbe molto insegnare al mio PC, devo dire). “Tempi oscuri davvero! E
maledettamente scomodi! Niente idraulica, niente elettricità, niente di
niente!” direbbe il solito Merlino.
Come fa la magia della scienza a funzionare? La miglior formulazione l’ho trovata in un telefilm nel quale un personaggio veramente “cattivo” pronuncia la notevole frase “I problemi complicati hanno soluzioni semplici”, intendendo nel caso specifico l’eliminazione fisica dell’avversario. Così opera la scienza. Prendiamo l’esempio già discusso della caduta dei gravi. Il fenomeno è chiaramente disturbato dalla presenza dell’aria. Come capisce bene Galileo, bisogna eliminarne gli effetti. E quindi egli lascia perdere l’intrattabile mondo reale, e costruisce un bel piano inclinato, molto liscio e poco inclinato, s’intende… Per la cronaca, il problema “del mondo reale” che bisognava risolvere quella volta era quello della traiettoria delle palle di cannone. Chiunque sia stato in artiglieria, o abbia conosciuto un artigliere, o uno Svizzero, sa che a tutt’oggi la miglior soluzione consiste nello sparare col cannone diverse volte e a differenti angoli d’inclinazione, e segnare in una tabella dove sono andati a cadere i proiettili…
Lev Landau, Premio Nobel nel 1962, che di fisica e di fisici se ne intendeva abbastanza, amava ripetere che la maggior parte dei fisici, avendo imparato a risolvere problemi molto semplificati, ne hanno tratto l’erronea convinzione di poter risolvere questioni assai più difficili, come quelle che nascono in economia, in politica o nelle relazioni umane, con conseguenze spesso gravi…
Noi sappiamo predire con straordinaria
accuratezza che cosa succede quando due particelle inesistenti in natura ma
prodotte nei nostri laboratori sono mandate a sbattere una contro l’altra,
sempre nei nostri laboratori, con velocità ed energie che nessuna particella,
vera o inventata, possiederà mai nel mondo reale, quello fuori dalla porta del
laboratorio. Ciò che non sappiamo è che cosa succede quando dentro la nostra
testa collidono due pensieri, e perché nella maggior parte dei casi si
distruggono reciprocamente, ma una volta ogni tanto, con una sezione d’urto più
piccola di quella dei neutrini (che per osservarli, mi dicono, bisogna scrutare
palmo a palmo un chilometro cubo di acqua di mare) generano un pensiero nuovo,
bello e intelligente come Minerva. E con questo vengo a ciò che avevo promesso
all’inizio: il ruolo dell’aneddoto nella narrazione del processo della scoperta
scientifica.
Archimede esce di corsa nudo dalla vasca
gridando “Eureka” perché ha intuito il Principio che ancora porta il suo nome.
Galileo si distrae durante la Messa e si
mette a misurare il tempo di oscillazione di una lampada (che all’epoca non era
ancora stata appesa, per la cronaca) usando come orologio i battiti del proprio
polso.
Newton vede cadere una mela e capisce che
la forza che l’ha fatta cadere è la stessa che tiene la Luna in orbita intorno
alla Terra.
Fermat “non ha spazio” e Galois “non ha
tempo”.
Max Planck osserva le finestre nere di un
palazzo la cui facciata è illuminata dal Sole (e questo ci rimanda a una storia
di Galileo) ed ha la prima intuizione del meccanismo che lo porterà a formulare
la teoria quantistica del corpo nero.
Einstein vede cadere un muratore da
un’impalcatura, accorre e, accertato che l’uomo è sano e salvo, gli chiede “Ma
lei ha sentito una forza che lo tirava verso il basso?” e dalla risposta
negativa ha la rivelazione del principio di equivalenza.
Schrödinger fa una gita in montagna e
torna a casa con l’equazione che renderà famoso il suo nome nei secoli: “Hy = Ey”.
Vedete, potranno venire tempi in cui le
lettere che usiamo per scrivere questa formula non significheranno più nulla,
come il Disco di Festo, ma il fatto più grave è che già oggi questa formula non
significa nulla per quasi nessuno. Ho provato a fare un conto, come si dice
“della serva” (da pochissimo ho scoperto che questa procedura corrisponde a
risolvere una Fermi Question, il cui prototipo, dovuto appunto a Fermi,
è “Stimare su due piedi quanti accordatori di pianoforte ci sono a Chicago”, ed
è una cosa che ogni fisico dovrebbe saper fare). Bene, in Italia ospitiamo circa
il 4% della ricerca mondiale. Ogni anno si laureano in Fisica forse 500
ragazzi, e di questi (come pure dei loro docenti) la metà non ha capito
l’equazione di Schrödinger. Ci saranno quindi forse diecimila persone in
Italia, e a star larghi cinquecentomila nel mondo, per cui essa significa
qualcosa. Ciò significa un essere umano ogni diecimila. Eppure anche in questa
formula c’e’ un racconto, e un racconto molto importante, di quelli che
cambiano il mondo, e che noi cerchiamo di rendere intelligibile a noi stessi
raccontandoci altre storie.
Ecco gli aneddoti, allora: un modo per
trasformare l’ignoto in noto, per ridurre ciò che non siamo capaci di spiegarci
a ciò che comprendiamo in maniera infantile. Non è soltanto un problema della
scienza, anche se nella scienza esso si esalta fino al paradosso: nell’armadio
dei nostri archetipi c’e’ una grande quantità di mele, non solo quella di
Newton: una mela per spiegare la guerra di Troia, e una per l’indipendenza
della Svizzera, una per i Beatles e una per New York, una mela per Biancaneve e
perfino una sul computer davanti al quale passo le giornate. E c’è una mela che
per una grande parte del mondo sta indicare la nostra stessa condizione umana,
e che ricorderò con le prime parole del Tractatus di Wittgenstein, che
con la loro carica di quasi certamente voluta ambiguità ci rimandano
esattamente alla contraddizione che è stata al centro di tutto il mio
intervento:
(“Il mondo è tutto ciò che
accade”, ma anche “Il Mondo è la Caduta”)
Anche se un imparziale osservatore
einsteiniano tradurrebbe: “Il mondo è tutto ciò che cade”
Paolo Rossi
24 febbraio 2006 (intervento al Forum
“Narrare il sapere a partire da Galileo”)