SVILUPPO E RECLUTAMENTO NELL’ATENEO PISANO

(Paolo Rossi - 30 Aprile 2004)

 

Parto dalla premessa, spero da tutti condivisa, che l’auspicabile sviluppo dell’Università di Pisa, qui con particolare riferimento al tema del reclutamento e della carriera del personale docente, deva risultare soprattutto armonico, e principalmente in relazione a tre elementi:

 

1) Le aree. In questo caso si tratta di toccare la delicata tematica del riequilibrio. A mio parere esistono già gli strumenti per affrontare (con la massima cautela) questo tema, e tra questi il principale è il modello del CNVSU basato sui requisiti minimi, del quale si è già tentata, per il momento in via solo teorica, un’applicazione al nostro Ateneo. Occorre tuttavia riprendere in mano daccapo quell’analisi per tener conto dei cambiamenti indotti dalla riforma e di una prima valutazione degli esiti della stessa, dopo ormai tre anni dalla prima attivazione dei nuovi corsi.

In più bisognerà tener conto degli esiti della valutazione CIVR: se non ci vogliamo rassegnare all’idea di esser trasformati in una “teaching university” la qualità della ricerca dovrà essere necessariamente un parametro non irrilevante anche in sede di riequilibrio.

Aggiungo che la nozione stessa di Area, quando si lega ai temi dello sviluppo e del reclutamento, diventa ambigua perché lo Statuto non riconosce alle aree funzioni di programmazione e gestione di risorse umane. Questo tema finisce quindi col mescolarsi quasi inscindibilmente con quello della “governance” (a meno che non si voglia ridurre il riequilibrio a una “partita” tra Facoltà, visione che personalmente rifiuto) e ciò suggerisce, non un rinvio a tempo indeterminato, ma piuttosto l’apertura di una forse non breve fase di riflessione e di analisi solo al termine della quale si potranno prendere maturate decisioni in materia.

Né vale in questo caso appellarsi all’emergenza, didattica o di altra natura, in quanto l’emergenza è ormai un tratto comune a tutte le nostre realtà e non si vede quindi con che logica potrebbero essere presi provvedimenti “emergenziali” di spostamento di risorse, fatte salve situazioni estreme ma in quanto tali isolate e affrontabili in qualche modo “ad hoc”.

 

2) Le fasce. Su questo tema abbiamo sentito dire di tutto, in particolare a livello ministeriale e sui grandi giornali d’opinione, ma la versione più “popolare” tra quelle circolanti è che “sono stati fatti troppi concorsi per favorire le promozioni dimenticandosi dei giovani”. Non c’è dubbio che i concorsi sono stati fatti spesso male, ma su questo c’era già una lunga tradizione, oggi peggiorata più che altro sotto il profilo del provincialismo, geografico e culturale.

Ma sotto il profilo quantitativo mi sento invece di affermare, dati alla mano, che le chiamate effettuate fino ad oggi, almeno a Pisa (e comprese quelle ancora senza presa di servizio) sono più o meno esattamente quelle che servivano, tenuto conto del lungo periodo di mancanza di concorsi e dell’esigenza di una dinamica delle carriere, che è vitale in un’istituzione accademica, in cui difficilmente si possono immaginare altri meccanismi di incentivazione della produttività scientifica, e in cui anche le funzioni di governo, che pure richiedono, per democrazia ed efficienza, costante avvicendamento, sono legate a logiche (non necessariamente perverse, almeno nel resto del mondo) di cooptazione accademica.

Le affermazioni di natura quantitativa si basano su un modello, messo a punto in questo Ateneo, e nella sostanza molto semplice: si immagina un’Università “a regime”, e quindi con un numero totale di docenti-ricercatori sostanzialmente costante, con docenza ripartita in tre fasce, e nella quale la probabilità di passaggio da una fascia a quella superiore nel corso della carriera individuale sia del 65-75%, con un’età media di accesso e passaggio di fascia incentrata sui valori rispettivi di 33-40-47 anni. Corollario di questo modello è una distribuzione del personale docente-ricercatore equipartita tra le tre fasce. La concorsualità dell’ultimo quadriennio, valutata nel complesso dell’Ateneo, non ha fatto altro che ripristinare un equilibrio intorno al quale il sistema Università ha sempre teso ad attestarsi, come dimostra l’analisi di lungo periodo.

Ciò non toglie che in singole realtà, di Facoltà o di Area, il processo sia risultato invece divergente, in una direzione o nell’altra, e che quindi si imponga, negli interventi futuri, l’esigenza di un riequilibrio “locale” tra le fasce, i cui effetti andranno tuttavia attentamente calibrati, anche alla luce delle esigenze che saranno espresse nel punto successivo.

Una conclusione provvisoria può comunque essere tratta, e consiste nell’affermazione che qualunque politica di reclutamento non potrà ignorare l’esigenza di mantenere attivo, anche nel prossimo futuro, un livello per quanto minimo di dinamica delle carriere. In altri termini se si pensasse che “si sono fatte tutte le promozioni necessarie, e ora per un po’ si può smettere” si commetterebbe secondo me un errore forse non immediatamente evidente, ma comunque di natura strategica, soprattutto se non si intervenisse presto a potenziare il livello intermedio corrispondente alla fascia degli associati tra i 40 e i 50 anni.

 

3) Le classi d’età. Tutto il problema dello sviluppo dell’Ateneo, sotto il profilo del personale docente, è pesantemente condizionato, e quasi reso insolubile, dalla grave disarmonicità nella composizione anagrafica del corpo docente. Ho già accennato al problema della mancanza di quadri intermedi dell’età “giusta”, ma la questione è assai più complessa e merita di essere accuratamente analizzata.

In primo luogo scontiamo il fatto che, per motivi storici (nascita dell’università di massa  solo nel corso degli anni ’60) oggi abbiamo ancora, rispetto a un modello a regime, un deficit di personale nelle fasce d’età più avanzata, che genera un deficit nel “turnover” fisiologico, per cui ci mancano le risorse necessarie per un naturale avvicendamento.

A questo proposito vorrei sottolineare l’urgenza di individuare meccanismi palliativi volti a incoraggiare in particolare la rinuncia al periodo di “fuori ruolo” da parte dei colleghi più anziani. Altre Università, e penso in particolare a Pavia, si sono già da tempo dotate di un regolamento, che incentiva, mediante contratti legati a precise prestazioni di natura accademica, la scelta del pensionamento all’inizio del periodo che corriponderebbe al “fuori ruolo”. Propongo che ci si muova rapidamente in questa direzione, anche se deve essere chiaro che, trattandosi in ogni caso, per quanto detto sopra, di numeri molto piccoli, anche un movimento generale in questa direzione non risulterebbe del tutto risolutivo rispetto ai problemi sul tappeto.

A fare da contraltare a questa “crisi del turnover” verrà invece tra non molti anni una crisi di segno opposto in quanto, in conseguenza delle immissioni in ruolo di massa dei primi anni ’80, inizierà un fenomeno di esodo di massa, che crescerà e avrà il suo culmine intorno al 2015. Questo fenomeno è stato da molti atteso e salutato come un’opportunità per un rinnovamento sostanziale dell’Università italiana, ma se non sarà governato potrà avere invece effetti molto deleteri, perché non si può sostituire in pochi anni un’intera classe accademica senza rischiare di ripetere lo stesso identico errore del passato, ovvero l’immissione indiscriminata di un grande numero di soggetti, non tutti della stessa qualità, ma tutti della stessa età, attivando così un nuovo ciclo perverso di sovraffollamento/spopolamento.

Abbiamo già avuto nell’Università alcune “generazioni perdute” (provate a chiedervi quanti docenti conoscete, in qualunque fascia, che siano nati tra il 1955 e il 1960, e pensate che dovrebbero essere soprattutto loro, oggi, per motivi “fisiologici”, a caratterizzare la ricerca del nostro Ateneo).

Nell’ultimo quinquennio, con un numero di concorsi per ricercatore numericamente stabile intorno ai 45-50 per anno (che è anche il valore predetto dal modello), abbiamo riempito le curve anagrafiche sostanzialmente fino al livello previsto e auspicabile. Ma a questo punto, data la crisi del turnover, se non interveniamo subito trovando il modo per mantenere ogni anno questo livello di reclutamento, è pronta la prossima “generazione perduta”: quella dei nati tra il 1970 e il 1975.

 

Queste considerazioni analitiche non possono e non devono essere disgiunte da altre considerazioni, sempre di natura analitica, ma questa volta riferite agli aspetti più strettamente finanziari e budgetari del reclutamento e della promozione del personale docente e non docente.

Il recente decreto-legge governativo sul ricalcolo del costo del personale ai fini della valutazione del superamento del limite del 90% del F.F.O. (oltre il quale solo il 35% delle già esigue risorse derivanti dal turnover è disponibile per concorsi) era purtroppo già abbondantemente scontato nei calcoli fatti anche in precedenza sulle prospettive dello sviluppo del nostro Ateneo. Tant’è vero che una valutazione proiettata sul 2005, ossia tenendo conto di tutte le decisioni già prese dagli Organi Accademici, incluse quelle non ancora effettive per il blocco delle assunzioni, vede l’Università di Pisa al 97% dell’F.F.O. con le spese fisse per il personale, e con la certezza di un aumento annuo automatico dell’1% per ciascuno dei prossimi tre anni, derivante dall’effetto combinato degli automatismi salariali (gli “scatti”) e del mancato turnover. Questo ovviamente nell’ipotesi di nessuna nuova assunzione o promozione. Una tale spesa, ricalcolata secondo le regole dettate dal decreto governativo, si riduce a un 89% virtuale che ci lascia solo per quest’anno al di sotto della soglia.

Anche ipotizzando ottimisticamente che il F.F.O. sia comunque destinato a crescere, resta il fatto che si impone comunque la massima oculatezza nella politica di spesa per il personale a tempo indeterminato, per evitare di metterci in trappola con le nostre stesse mani: dopo questo “sconto” io credo infatti che né questo né il prossimo governo ne vorranno fare facilmente altri, mentre un riforma a costo zero come l’abolizione del “fuori ruolo” sembra continuare a trovare ostacoli di cui personalmente non riesco nemmeno a comprendere la natura.

 

Ma nel nostro contesto noi non possiamo disgiungere un’analisi strettamente finanziaria da una di tipo budgetario, con le sue ovvie implicazioni accademiche. Notiamo innanzitutto che, anche con il ricalcolo implicato dal decreto di cui sopra, l’attuale valore  monetario complessivo del budget resta seppure di poco superiore al 90%. Non possiamo pertanto in nessun caso considerare l’ipotesi di effettuare spese per il personale a tempo indeterminato che esulino dal budget. E questo ci porta a scontrarci subito con il fatto che il budget di Facoltà è ormai in quasi tutti i casi sostanzialmente esaurito. Ci sono, è vero, alcune eccezioni, ma mai come ora la logica del “chi ha spende” ci espone al grave rischio di crescita disarmonica di cui parlavo all’inizio. Anche perché questa logica implica la rinuncia di un controllo sulla destinazione d’uso, e quindi oltre allo squilibrio per aree si rischia anche lo squilibrio per fasce. Bisognerebbe a mio avviso, in un modo o nell’altro, “tornare alla pianta organica”, in particolare vincolando comunque una quota del budget disponibile al reclutamento dei giovani, e un’altra quota seppur minore alle progressioni di carriera. Si devono ovviamente evitare le rigidità che quel sistema storicamente aveva, ma senza per questo rinunciare a un controllo “politico” sulle scelte strategiche, controllo dal quale lo Statuto non ha certo mai voluto esentare gli Organi di Governo.

Incidentalmente vorrei ancora una volta riproporre l’urgenza di una riparametrazione del budget, che senza nulla togliere e nulla aggiungere razionalizzi l’uso delle risorse agganciando meglio i valori budgetari delle differenti fasce a quelli monetari reali.

 

Le considerazioni finanziarie e budgetarie ci portano inevitabilmente a considerare in tutte le sue implicazioni il tema dei meccanismi e delle forme, anche temporanee, del reclutamento, essendo ben consapevoli della duplice esigenza di non cancellare l’esistente e non pregiudicare il futuro.

Io credo che al centro del problema debbano essere messi i giovani, con le loro legittime esigenze e le  loro aspettative. Non è un’affermazione retorica o peggio “populista”, ma la proposta di un modello di comportamento. I nostri rapporti di lavoro, anche quando non è opportuno o possibile formalizzarli a tempo indeterminato, devono assumere alcuni principi fondamentali di civiltà del lavoro, e quindi offrire tutte le garanzie che possono e devono essere date sotto il profilo giuridico, normativo, salariale, assicurativo e previdenziale. E non è questo sicuramente il caso degli assegni di ricerca, anche dopo la loro rivalutazione economica.

Ma c’è un altro punto di sostanza, che ha a che vedere con  la serietà delle prospettive che noi offriamo a questi giovani. L’esperienza già fatta ci ha mostrato, con i precisi dati quantitativi ormai a disposizione, che la probabilità di reclutamento permanente degli assegnisti al termine del periodo di borsa è inferiore al 25%, e, si badi bene, in una situazione complessivamente più favorevole di quella che ci si prospetta per il futuro prossimo. A fronte degli oltre 300 assegni già terminati si sono banditi nel corso del quadriennio 1999-2003 220 concorsi di ricercatore, ma soltanto 70 ex-assegnisti ne hanno vinto uno. Delle due l’una: o erano stati assai mal scelti, e questa è comunque una nostra grave responsabilità, o c’erano già “sul mercato” troppi candidati anche più anziani di loro, e quindi ne sono stati in ogni caso reclutati troppi. E non nascondiamoci dietro un dito, con la scusa degli altri sbocchi professionali: l’assegno di ricerca, oggi, in Italia, nella massima parte dei casi  non prepara a un lavoro non accademico e non aumenta la probabilità di trovarne uno. E che cosa faremo dei circa 340 assegnisti in essere e dei circa 90 che stiamo mettendo in cantiere?

Io credo fermamente che, anche senza dover immaginare percorsi di studio e professionali tutti interni a una singola istituzione “dalla culla alla tomba”, noi abbiamo l’assoluto dovere di commisurare il numero delle nostre posizioni postdottorali alle nostre effettive dimensioni, almeno fino a quando differenti dinamiche del mercato del lavoro intellettuale non ci chiederanno (come tutti credo speriamo) di aumentare sostanzialmente la nostra “produzione”.

 

L’insieme delle considerazioni precedenti indica a mio avviso con forza la necessità e l’urgenza di procedere col metodo della programmazione, che è l’unico strumento atto a gestire allo stesso tempo la crisi del turnover, il rischio di superamento del 90% e ad ovviare agli squilibri tra le fasce e tra le aree.

I dati quantitativi globali della programmazione sono già in larga misura fissati dal modello e dalle risorse disponibili; le scelte qualitative comportano invece la definizione di politiche. Scelte politiche di questo genere, in un contesto come il nostro, richiedono a loro volta una condivisione e una partecipazione solidale non solo degli Organi centrali di Governo dell’Ateneo, ma anche (e forse soprattutto) di quegli Organi decentrati (Facoltà e Dipartimenti), che sono i titolari delle risorse e che saranno poi in concreto costantemente chiamati a dare effettiva attuazione alle politiche di sviluppo che l’Ateneo avrà individuato.

Ciò che immagino è un processo iterativo e interattivo per cui, una volta definite dagli Organi centrali alcune linee-guida, si proceda da parte delle Facoltà alla propria programmazione poliennale. Sulla base di questa, e verificatene le compatibilità con le linee-guida, gli Organi centrali procederanno a definire e ripartire le risorse spendibili (non necessariamente coincidenti in ogni momento con gli attuali “budget”) assegnandole a Facoltà e Dipartimenti a seconda della natura delle risorse (essenzialmente sulla base della distinzione tempo indeterminato-tempo determinato).

Per avviare concretamente il processo  mi sembra che il modo più opportuno potrebbe essere la creazione di una Commissione Istruttoria Mista Facoltà-Dipartimenti (costituita da Presidi e membri della Giunta del Collegio dei Direttori) con il mandato specifico di completare l’analisi quantitativa e qualitativa della situazione e delle prospettive e di formulare, su base fortemente consensuale, proposte per le linee-guida di Ateneo da riportare agli Organi preposti alla loro deliberazione.