Medioevo
Altro o un altro medioevo?
Leggiamo Richer. Ci piacerebbe leggerlo con gli occhi dei
suoi contemporanei, ma sappiamo di non esserne capaci. Proviamo a leggerlo
allora con i nostri, ma che siano veramente tali: ovvero, non neghiamo i nostri
pre-giudizi, ma cerchiamo di non sobbarcarci anche il carico di quelli altrui.
E, quindi, dimentichiamoci il medioevo oleografico della letteratura del
diciannovesimo secolo e della cinematografia del ventesimo.
Certo, in Richer troveremo assedi (molti) e castelli
(pochi); un paio di duelli, qualche scomunica, e gran caterva di vescovi e
conti. Ma scordiamoci i tornei, i cavalieri, le corti d’amore (c’è al più una
storia di corna e maldicenze…), gli animali fantastici (c’è un cavallo di
cent’anni, forse…), scordiamoci lotte per le investiture, spirito di crociata,
santi e re taumaturghi. E, scontando un paio di presagi di tipo meteorologico,
scordiamoci i miracoli: Richer è monaco, ma anche studioso di medicina, e il
suo scetticismo non nasce da miscredenza, ma dalla consapevolezza di quanto sia
ineludibile il destino della carne.
È un mondo in cui la fedeltà è una formula contrattuale, per
cui la sua violazione (compreso lo spergiuro) è un fatto giuridico, assai più
che etico, e come tale può essere analizzata, ed eventualmente giustificata. Un
mondo in cui le strade sono certo malconce, ma si può viaggiare senza scorta
armata, e restare soli all’aperto, di notte, seppur con qualche patema…
Forse la mutazione feudale non è ancora avvenuta, forse non
avverrà mai (almeno come evento catastrofico ed epocale); di certo Chrétien de
Troyes e Andreas Capellanus sono di là da venire, Gerusalemme è lontana (per i
commerci) ma raggiungibile (per i pellegrinaggi), e mancano, a quanto pare,
ancora molti dei presupposti per la nascita delle ideologie, sulle quali si
costruirà poi molta parte dell’immaginario medievale (loro e nostro).
Il
Medioevo di Richer non è Altro: è semplicemente il figlio, non illegittimo, di
quell’Antichità Tarda i cui confini vien davvero voglia di estendere, sulla
scia di K.F.Werner, ben oltre i limiti tradizionali. E’ un mondo che scrive (o
cerca di scrivere) in un latino classico, scevro per quanto possibile di
neologismi e barbarismi, e che ancora si sente capace di assorbire ogni impulso
esterno, ogni perturbazione per quanto violenta.
Delle invasioni devastanti con cui si apre il decimo secolo
della société féodale resta ben poca traccia: Ungari e Saraceni
(sconfitti i primi alla Lech nel 955, distrutta Fraxinetum nel 975), fanno una
breve ed episodica comparsata, e i Normanni stanno integrandosi, al punto che
l’epiteto “Pirati” diventa in Richer nome proprio ed etnonimo, con ciò
ovviamente perdendo gran parte della connotazione emotiva ad esso associata.
Ma questo dei Nomi è proprio uno degli aspetti più
sintomatici delle Historiae: a proposito e a sproposito, e ovunque ciò
sia possibile, toponimi ed etnonimi sono quelli di Cesare e di Orosio, fino
all’apparente paradosso della totale rimozione del termine Austrasia,
che tanta importanza aveva avuto nella vicenda merovingia e carolingia, in
favore di un’arcaica Belgica che, paradosso per paradosso, a distanza di
altri dieci secoli ha finito col prevalere nella memoria collettiva.
È un mondo in cui molti dei protagonisti sono anche uomini
di guerra, ma nei quali la cultura appare come virtù non minore, e non
superflua all’esercizio del comando.
E comunque il maggiore tra i protagonisti, quello che per i
Libri III e IV (i più originali e richeriani) potrebbe addirittura
diventare addirittura eroe eponimo, non è un re o un nobile, ma un
intellettuale nel senso più pieno della parola: Gerbert d’Aurillac, matematico,
astronomo e filosofo, che un fato ironico (giustizia poetica?) volle sul trono
di Pietro, col nome di Silvestro II, proprio in quell’Anno Mille che una certa
mitologia non del tutto estinta ci vorrebbe far salutare come il fondo
dell’abisso della coscienza europea.
Un Gerbert che tenta (invano) di introdurre in Occidente le
cifre “arabe”, e di imporre alla discussione (anche politica) i binari di una
razionalità aristotelica (con il filtro di Boezio). Che crede in un Impero
ormai impossibile in nome di un passato al quale sente di appartenere, ma anche
in nome di un futuro di integrazione nel quale Ungari e Slavi possano far parte
di una grande comunità di credenti alla quale non v’è motivo di porre confini
geografici o linguistici. La religione di Gerbert non è né tribale, né mistica:
è già, in larga misura, quella di Abelardo e di Tommaso. Forse una Vita
Gerberti scritta in precedenza fu il nucleo costitutivo del Libro III? Non
sappiamo, e in un certo senso poco importa. In ogni caso de te fabula
narratur.
Pisa, 3 agosto 2005