[1.] Sepolto Lotario, il figlio Ludovico viene
elevato al trono dal duca e da altri principi. Viene quindi circondato dagli
intrighi di tutti; gli promettono benevolenza; assicurano fedeltà[1];
quelli che gli stavano intorno gli prescrivevano anche il da farsi nei
differenti impegni.[2]
In effetti alcuni gli consigliavano di risiedere nei palazzi, cosicché i
principi riunendosi presso di lui obbedissero al suo comando, affinché la
dignità regia non risultasse avvilita se come un povero avesse richiesto le
opere altrui di un soccorso straniero; e in ogni dignità occorre evitare che
all’inizio dell’assunzione della carica la pigrizia e l’ignavia superino la
virtù che si deve avere; infatti se ciò accade, tutta l’impresa è destinata per
somma disgrazia al disprezzo e all’avvilimento. E altri asserivano che egli
doveva dimorare insieme al duca in quanto, essendo adolescente aveva bisogno di
conformarsi alla prudenza e al valore di un così grande principe; e per lui
sarebbe stato utilissimo se per qualche tempo si fosse sottomesso alle
indicazioni del potente, poiché senza di lui non avrebbe potuto avere per
intero la forza per regnare, mentre grazie a lui tutti gli affari avrebbero
potuto essere amministrati con forza e con utile esito. Il re, avendo inteso le
parti, differì la decisione. Preso poi consiglio dal duca, da quel momento lo
favorì attaccandosi a lui con tutta l’anima. Non immemore del passato, a lui e
a pochi altri così si rivolse:
[2.] DISCORSO DI LUDOVICO AL DUCA E A TUTTI GLI ALTRI
GRANDI CONTRO L’ARCIVESCOVO ADALBÉRON.
“ Mio padre, cadendo nella malattia della quale poi morì, mi
insegnò ad aver cura del regno con il vostro consiglio e le vostre indicazioni,
e di tenervi in luogo di parenti, in luogo di amici, e di non dare inizio a
nulla di importante a vostra insaputa. Se avessi goduto della vostra fedeltà,
egli asseriva, senza dubbio avrei avuto ricchezze, un esercito, difese per il
regno. Quest’idea in me è massimamente presente.[3] E
così vi piaccia darmi un consiglio giovevole poiché mi sono proposto di non
separarmi da voi. In voi infatti volli che fosse riposto il mio consiglio, il
mio animo, le mie fortune. Adalbéron, vescovo metropolitano di Reims, uomo
scelleratissimo tra tutti quelli che la terra sostiene, avendo disprezzato il
comando di mio padre, favorì in ogni cosa Ottone, nemico dei Franchi; con la
sua collaborazione Ottone condusse un esercito contro di noi; per la sua
subdola condotta la Gallia fu spogliata; avendo egli prestato delle guide per
il cammino, quello ritornò indenne con l’esercito. Sembra equo e utile che egli
paghi la pena per le tante colpe commesse, e una volta che il malvagio sia
stato conculcato sia instillata in tutti i malvagi la paura di dare inizio ad
azioni simili.”[4]
[3.] Questo discorso non ebbe forza di persuasione,
in quanto parve che, istigato dai suggerimenti di gente malvagia contro il
sommo prelato, egli avesse detto cose indegne oltre il giusto. Tuttavia in
parte egli fu sostenuto, in parte poi criticato, cosicché non fu fatta ingiuria
al re, e il duca si apprestò non consenziente all’opera sacrilega. Il re con
tanta animosità avendo coinvolto il duca si portò in fretta con l’esercito
contro l’arcivescovo; raggiunse la sua stessa città e cercò di irrompervi.[5]
Tuttavia, sulla base del consiglio dei magnati, mandò avanti degli
ambasciatori, tramite i quali chiese se il vescovo intendesse resistere al re,
o se fosse pronto entro un tempo fissato a giustificarsi dalle accuse. Se
intendeva contrastarlo, dovevano dirgli che il re subito si sarebbe impegnato
nell’assedio della città, e una volta presa la città l’avrebbe maltrattata
insieme al suo stesso nemico; se invece non si fosse rifiutato di rispondere
alle accuse, il re era pronto ad accettare da lui ostaggi e portarli via.
[4.] A ciò l’arcivescovo rispose: “Poiché si sa che
tutti i buoni sono spesso tormentati dalle calunnie dei malvagi, non mi
stupisco che si sia dato il caso di quest’ingiustizia. Molto più in verità mi
stupisco che tanto facilmente illustri principi possano essere sviati al punto
da credere certissimamente in ciò che non è stato discusso davanti a un giudice
e, qualora venga portato in discussione, non appare dimostrabile mediante alcun
argomento. Se si vuol porre in discussione ciò che si crede vero, perché si
esige questo con le armi e con l’esercito? Non si presume per caso che noi
pensiamo certe cose anziché altre? Se si discute degli avvenimenti passati, ho
sempre auspicato la salute dei re; ho onorato la loro stirpe; ho anche
sostenuto gli interessi dei principi per il loro vantaggio. Se si ragiona dei
fatti presenti, non indugio a eseguire gli ordini del re; concedo gli ostaggi
che vuole; non rinvio di esporre le mie ragioni contro le accuse.”[6]
Esposte dunque le ragioni degli uni e degli altri, egli consegnò gli ostaggi,
il cavaliere Reginaro[7],
famoso per nobiltà e ricchezze e numerosi altri finché furono sufficienti per
il re.
[5.] MORTE DI LUDOVICO.
E così il re portò via l’esercito e si recò a Senlis[8].
Laggiù, mentre praticava la caccia estiva, cadendo per un passo falso, fu
tormentato da un grande dolore di fegato. Infatti poiché i medici ritengono nel
fegato la sede del sangue, essendo quella sede stata colpita, il sangue
traboccò nell’ematoteca. Il sangue gli sgorgava abbondante dalle narici e dalla
gola. Le mammelle erano tormentate da dolori
continui; un bruciore intollerabile di tutto il corpo non lo abbandonava. Per
cui, sopravissuto soltanto un unico anno al padre, l’undicesimo giorno delle
calende di giugno[9]
spirando pagò il suo debito alla natura. La sua dipartita avvenne al tempo in
cui si doveva tenere anche la difesa dell’arcivescovo dalle accuse. Per
l’appunto egli si era presentato per giustificarsi e dare soddisfazione alla
regia maestà.[10]
Ma essendo questa discussione stata annullata per la disgrazia della morte del
re, la controversia non ebbe luogo e non fu su di essa pronunciato un giudizio.
In verità il vescovo stesso si doleva con grandissimo compianto per la morte
del re. Tuttavia dopo che si furono occupati delle esequie del re, egli fu
sepolto a Compiègne[11] per
decreto dei principi, anche se egli stesso da vivo aveva chiesto di essere
sepolto insieme al padre[12].
Tuttavia questa decisione fu presa affinché non fosse differita una decisione
utilissima per lo stato, mentre molti di loro avrebbero evitato la lunghezza
del viaggio e se ne sarebbero andati via divisi tra loro. E così si preferì
riunirsi prima della separazione e deliberare sull’interesse del regno.
[6.] ASSOLUZIONE DI ADALBÉRON DALLE ACCUSE DI
LUDOVICO.
Prese queste decisioni, il duca presa la parola così iniziò: “Essendo stati qui convocati da luoghi
diversi per ordine del re, per discutere ciò di cui viene accusato l’arcivescovo
Adalbéron, con grande lealtà, come credo, vi siete riuniti. Ma il sovrano di
venerabile memoria che sosteneva l’accusa, poiché è stato privato di questa
vita, ha lasciato a noi il compito di discutere lo stato della controversia. Se
dunque oltre lui c’è qualcuno che osi sostenere l’accusa, e con tale animo
intenda prendere il partito di dar seguito all’accusa, si faccia avanti
pubblicamente, esponga ciò che pensa, senza nulla temere accusi l’imputato. Se
dirà cose vere, ci troverà senza dubbio sostenitori delle sue parole. Ma se
come calunniatore si fosse inventato cose false, freni la voce per non subire
una pena una volta trovato colpevole di un così grave crimine.” Tre volte fu
richiesto che un accusatore si facesse avanti; per tre volte tutti negarono.
[7.] E così il duca nuovamente intervenendo disse:
“Se l’accusa è già caduta, in quanto non v’è chi intenda portarla avanti,
occorre inchinarsi all’arcivescovo come a uomo nobile e celebre per grande
sapienza. Dunque allontanatevi del tutto da questo sospetto, e venerate il
sommo presule con molto onore. Riverite un tale uomo e proclamate in misura
adeguata quanto grandi siano la sua virtù, la
sua sapienza e nobiltà. E infatti a che serve avere sospetti su qualcuno contro
il quale non ci fu alcun uomo che avesse qualcosa da dire in giudizio?”
[8.] Pertanto il duca, con il consenso degli altri
primati, attribuì all’arcivescovo il privilegio di esporre gli argomenti
relativi all’interesse del regno, in quanto egli eccelleva nella scienza delle
cose divine e umane e molto valeva per l’efficacia del suo eloquio. E così
postosi insieme al duca in mezzo a tutti, questi disse: “Poiché il nostro
piissimo re è passato tra i puri spiriti, essendo io stato assolto dalle accuse
per la benevolenza del grande duca e di tutti gli altri principi, mi sono unito
alla seduta per riflettere sugli affari di stato. Né si adatta al mio animo che
io dica alcunché se non a vantaggio dello stato. Chiedo il consiglio di tutti,
poiché desidero portare beneficio a tutti. Poiché vedo che non sono presenti
tutti i principi grazie alla cui prudenza e diligenza gli affari di stato
possano essere gestiti, la decisione sulla scelta di un re deve essere, come a
me sembra, rimandata a tempo debito, cosicché in un momento fissato tutti
possano riunirsi in un sol luogo e gli argomenti di ciascuno, meditati ed
esposti a tutti producano il proprio beneficio. Piaccia dunque a voi che siete
qui riuniti a consulto legarvi insieme a me con un giuramento al grande duca e
davanti a lui promettere che, in relazione alla scelta del principe, nulla
ricercherete, nulla intraprenderete finché non ci ritroveremo insieme e
discuteremo del futuro sovrano. Infatti vale la pena che sia concesso alla
deliberazione un grande spazio di tempo, nel quale chiunque possa discutere
qualunque cosa, e approfondire con grande cura ciò che si è discusso.” Questa
sentenza, da tutti fatta propria, viene lodata; e così si legano con giuramento
al duca; si stabilisce il tempo per tornare e riunirsi. E così si separarono
gli uni dagli altri.
[9.] LAMENTELE DI CARLO ALL’ARCIVESCOVO A PROPOSITO
DEL REGNO.
Nel frattempo Carlo, che era stato il fratello di Lotario,
zio di Ludovico, si recò dall’arcivescovo di Reims e così gli parlò del regno:
“E’ noto a tutti, padre venerando, che per diritto ereditario io devo succedere
al fratello e al nipote. Infatti sebbene io sia stato espulso dal regno da mio
fratello[13],
tuttavia la natura non mi ha tolto nulla di ciò che è umano; sono nato con
tutte le membra, senza le quali nessuno può essere promosso a una qualunque
carica. E non sono neanche privo di quelle caratteristiche che massimamente si
sogliono cercare in chiunque debba regnare, la nascita e, oserò dire, il
valore. Perché dunque sono stato cacciato fuori dai confini, che nessuno dubita
essere stati posseduti dai miei antenati, dal momento che il fratello non c’e’
più e il nipote è morto, e non hanno lasciato nessuna discendenza? Nostro padre
ha lasciato noi due fratelli superstiti. Mio fratello ha posseduto tutto il dominio
dei regni, e non mi ha concesso nulla. Io suddito di mio fratello ho combattuto
fedelmente non meno degli altri. Da quel tempo asserisco che nulla mi sia stato
più caro della salvezza di mio fratello. Dunque abietto e infelice dove
piuttosto mi volgerò, essendo estinti anche tutti i sostegni della mia
famiglia? A chi oltre voi mi rivolgerò, privo di ogni considerazione?. Tramite
chi se non mediante voi sarò restituito ai paterni onori? Piacesse al cielo che
a me e alle mie fortune giungesse una fine onorevole. Che cosa infatti potrò
essere per chi mi vede se non uno spettacolo abietto? Possa toccarvi una
qualche umana commiserazione. Abbiate compassione per chi è spossato da tante
ingiurie.”[14]
[10.] Dopo che Carlo ebbe concluso la sua lamentela,
l’arcivescovo, rimanendo fermo nel suo animo, gli rispose assai brevemente,
dicendo: “Poiché tu sei sempre stato dedito agli spergiuri, ai sacrileghi e
agli altri uomini scellerati, e non vuoi ancora staccarti da loro, in che modo
ti affanni a giungere al principato con l’aiuto e in compagnia di tali
persone?” Poiché Carlo a ciò rispondeva che non era opportuno per lui
abbandonare i suoi, ma piuttosto acquistarne altri, il vescovo tra sé pensava “
Dal momento che, ora che è privo di tutti gli onori, è legato a tutti i malvagi
e non vuole in alcun modo privarsi della loro compagnia, quale disgrazia per i
buoni sarebbe se, eletto, esercitasse il potere.” Infine rispondendo che senza
il consenso dei principi non aveva intenzione di fare nulla a proposito di ciò,
si allontanò da lui. [15]
[11.] DISCORSO DELL’ARCIVESCOVO IN FAVORE DEL DUCA.
Carlo avendo perso la speranza del regno, con l’animo
turbato prese la strada della Belgica. In seguito, al tempo stabilito[16], i
principi della Gallia che avevano giurato si riunirono a Senlis. Ad essi in
seduta plenaria, con l’autorizzazione del duca, così parlò l’arcivescovo:
“Poiché Ludovico di venerabile memoria è stato sottratto al mondo senza figli,
si dovette cercare con grande deliberazione chi potesse fare le sue veci nel
regno affinché lo stato non andasse in rovina abbandonato dal suo timoniere.
Quindi qualche tempo fa giudicammo utile rinviare un’azione di tal fatta,
cosicché ciascuno proponendolo qui davanti a tutti potesse diffondere ciò che a
lui individualmente Dio aveva suggerito in modo tale che, raccolte le opinioni
dei singoli, si potesse formare dalla massa della moltitudine il risultato
dell’opinione comune. Dunque essendo già ora noi riuniti in un sol luogo, con
molta prudenza e molta lealtà bisogna far sì che l’odio non faccia svanire la
ragione o l’amore non indebolisca la verità. Non ignoriamo che Carlo ha i
propri sostenitori, che sostengono che egli è degno del regno per successione
dai parenti. Ma se si tratta di questo, né il regno si acquista per diritto
ereditario, né deve essere elevato al regno alcuno, se non chi non solo la
nobiltà del corpo ma anche la sapienza dell’animo rende illustre, la lealtà
protegge, la grandezza d’animo fortifica. Abbiamo letto negli annali che ad
imperatori di stirpe preclara, caduti dal trono per l’ignavia, sono succeduti
altri sia di pari che di differente condizione. Ma quale dignità può essere
conferita a Carlo, che la lealtà non guida, che il torpore indebolisce, e che
infine s’inebetì per un indebolimento della mente così grande che non ebbe
orrore di servire un re straniero[17] e di
prendere una moglie[18]
dall’ordine dei cavalieri, di condizione diversa dalla sua? Dunque in che modo
il grande duca potrebbe sopportare che diventasse regina e lo comandasse una
donna tratta tra i suoi vassalli? In che modo potrebbe porre sopra la propria
testa una persona i cui pari e anche i cui superiori si inginocchiano a lui, e
pongono le mani sotto i suoi piedi? Considerate la cosa con diligenza, e vedete
che Carlo è caduto più per propria colpa che per colpa altrui. Scegliete la
fortuna dello stato piuttosto che la sua disgrazia: se volete che diventi
infelice innalzate Carlo; se fortunato, incoronate l’eccellente duca Ugo. Né
l’amore di Carlo svii chicchessia, né l’odio per il duca allontani chicchessia
dall’interesse comune. Infatti se vitupererete il buono, come non loderete il
malvagio? Se loderete il malvagio, come non disprezzerete il buono? Ma a ciò è
contraria la Divinità stessa. Guai, dice, a voi che dite malvagio il
buono, buono il malvagio, chiamando luce le tenebre, e tenebre la luce.[19]
Dunque eleggete il duca, preclaro per azioni, nobiltà, ricchezze, e troverete
un protettore non solo dello stato, ma anche degli interessi privati. Con il
favore della sua stessa benevolenza, lo avrete per padre. Chi infatti si
rifugia da lui, e non trova patrocinio? Chi, privato dell’aiuto dei suoi, non
fu restituito ai suoi grazie a lui?”
[12.] ELEVAZIONE DI UGO AL REGNO.
Emessa questa sentenza, ed essendo essa stata da tutti
approvata, il duca con il consenso di tutti fu elevato al regno e, incoronato a
Noyon dall’arcivescovo e dagli altri vescovi, fu proclamato alle calende di
giugno[20] re
dei Galli, dei Bretoni, dei Normanni, degli Aquitani, dei Goti, degli Ispanici,
dei Guasconi. E così circondato dai principi dei regni, secondo il costume dei
re emise decreti e stabilì leggi, ordinando e distribuendo tutto con grande
successo, ed egli, per corrispondere alla propria fortuna, incoraggiato dal
grande successo degli eventi favorevoli, si dedicò a molte opere di pietà. E
per lasciare un erede certo nel regno dopo la propria dipartita dalla vita, si
consigliò con i principi e, avendo insieme a loro maturato una decisione,
convocò l’arcivescovo di Reims a Orléans[21]
prima mediante ambasciatori poi di persona a proposito dell’elevazione del
proprio figlio Roberto.[22] E
quando l’arcivescovo gli rispose che non potevano essere legittimamente creati
due re nello stesso anno, egli subito esibì una lettera[23]
inviata dal duca della Spagna Citeriore[24]
Borrel, che segnalava che il duca richiedeva aiuti contro i barbari.[25]
Affermava anche che la provincia di Spagna era già stata quasi conquistata dai
nemici e se non avesse ricevuto entro dieci mesi truppe dai Galli, sarebbe
tutta passata in possesso dei barbari. E così chiedeva che fosse creato un
secondo re, cosicché se nel tumulto bellico[26] uno
dei due fosse caduto, l’esercito non avrebbe perso la fiducia nel principe. E
asseriva anche che poteva verificarsi, nel caso in cui il re fosse stato ucciso
e il paese devastato, la discordia dei magnati, la tirannide dei malvagi contro
i buoni e quindi la soggezione di tutto il popolo.
[13.] ELEVAZIONE DI ROBERTO AL REGNO.
L’arcivescovo comprendendo che ciò sarebbe potuto accadere
consentì ai discorsi del re. E poiché allora nel giorno della natività del
Signore[27] i
principi del regno si erano riuniti per celebrare la cerimonia
dell’incoronazione del re, nella basilica della Santa Croce[28],
mentre i Franchi acclamavano, presa la porpora egli incoronò solennemente il
figlio di lui Roberto e lo ordinò re e lo mise a capo degli occidentali dal
fiume Mosa fino all’Oceano; uomo notevole per impegno e solerzia così grandi
che al tempo stesso eccelleva nell’arte militare ed era considerato espertissimo
nelle istituzioni divine e canoniche; si dedicava agli studi liberali e
partecipava anche ai sinodi dei vescovi e con loro discuteva e decideva le
cause ecclesiastiche.
[14.] LAMENTELE DI CARLO CON GLI AMICI A PROPOSITO
DEL REGNO.
Nel frattempo Carlo con grandissima forza presso gli amici e
i parenti muoveva lamentele ed eccitava proteste a proprio sostegno. Bagnato di
lacrime diceva: “Vedo che la mia età avanza e giorno dopo giorno fui spogliato
dei beni del mio patrimonio. Per cui non sopporto di guardare senza lacrime i
miei figli, generati da un padre infelice. Di loro io sono piuttosto la causa
di futuro dolore che di onore. Fui padre abbastanza infelice, poiché ai miei
figli potei talvolta a stento essere d’aiuto. Ma almeno voi amici date
consiglio a un padre dolente, soccorrete un genitore spogliato; date aiuto ai
figli in età tenerissima che già conoscono le avversità; prendetevi cura di
coloro che, caduti in una disgrazia non so se rimediabile, cercano di uscirne.
Vi convinca almeno l’affinità del sangue comune[29]; vi
convinca anche la non trascurabile nobiltà; vi convinca anche la ricompensa,
che verrà resa non senza molteplice frutto.
[15.] Subito tutti commossi promettono aiuto e
immediatamente si preparano a portare aiuto. Basandosi sul loro consiglio,
Carlo comincia a inviare spie che esaminino con sagacia se apparisse una
qualche opportunità grazie alla quale fosse possibile entrare in Laon. Recatisi
là investigarono e scoprirono che nessuna via d’accesso era disponibile.
Tuttavia conferirono in segreto con alcuni cittadini[30]
perché cercassero uno sbocco all’impresa. In quel tempo Adalbéron, vescovo di
quella stessa città, infliggeva ai suoi concittadini abusi più del giusto sulla
base della legge agraria[31]. Per
cui alcuni staccandosi segretamente da lui nel loro animo, e simulando
benevolenza, promettono alle spie che avrebbero accolto Carlo in città.
[16.] COME CARLO ENTRÒ IN LAON.
Subito s’impegnano anche alla consegna della città se verrà
Carlo e se lascerà loro i loro beni e li aumenterà ulteriormente. Le spie,
sottoscritto il patto con giuramenti, riferiscono queste cose a Carlo. Egli
subito rese noto questo impegno ai suoi che aveva eccitato con la summenzionata
lamentela. Costoro unanimi al tempo opportuno radunatisi si misero a sua disposizione.
Egli, raccolte le truppe, immediatamente giunse mentre il sole tramontava a
Laon, e mandò spie ai transfughi affinché riferissero ciò che bisognava fare. E
così si nascondevano tra le macchie e le siepi delle vigne;[32]
pronti a entrare in città se la fortuna lo avesse permesso, e a resistere con
le armi se l’eventualità lo richiedesse. Quelli che erano stati mandati a
preparare le imboscate si recano dai traditori attraverso luoghi stabiliti e
noti e annunciano che Carlo è arrivato con molta cavalleria. I traditori
rallegrati rimandano indietro le spie e mandano a dire a Carlo di presentarsi
rapidamente.
Saputo ciò Carlo con i suoi attraverso il pendio del monte
attaccò la porta della città. Ma poiché le guardie si erano accorte dal rumore
dei cavalli e da qualche urto delle armi che c’era qualcuno, e avevano chiesto
gridando dal muro chi fossero, e li sollecitavano gettando pietre, i traditori
subito risposero che erano alcuni cittadini.[33]
Ingannate le guardie con questo commento, queste aprirono la porta verso
l’interno e accolsero l’esercito quella stessa sera. Subito l’esercito riempì
la città. Anche le porte furono invase, fissati dei custodi affinché nessuno
sfuggisse. E così alcuni suonavano le trombe, altri rumoreggiavano con le voci,[34]
altri facevano rumore col suono delle armi, per cui i cittadini atterriti, in
quanto non sapevano che cosa accadesse, uscendo in fretta dalle abitazioni,
tentavano di procurarsi un rifugio. Alcuni di loro si celavano nelle parti più
nascoste delle chiese, altri si chiudevano in diversi nascondigli: altri poi si
gettavano con un salto dalle mura. Tra loro il vescovo[35],
essendo già fuggito per i declivi del monte ed essendo stato scoperto dai
sorveglianti in mezzo alle vigne, fu condotto da Carlo e da questi gettato in
carcere. Catturò là anche la regina Emma[36], per
la cui istigazione egli giudicava essere stato respinto dal fratello, e le mise
dei guardiani. Mise le mani anche su quasi tutta la restante nobiltà della
città.
.
[17.] Dopo che, sedati i tumulti, la città fu tornata
tranquilla, Carlo cominciò a deliberare e dare ordini sulla fortificazione
della città e sull’approvvigionamento dei soldati. Quindi incaricò cinquecento
sentinelle, che ogni notte armate esercitassero la vigilanza in città e sulle
mura; ordinò anche che fossero portate vettovaglie da tutto il paese di
Vermandois, e in questo modo preparò la città a resistere. Infatti rialzò con
alti merli la torre che fino ad allora si ergeva con muri bassi, e la circondò
tutt’intorno con larghi fossati; fece anche costruire macchine da guerra contro
i nemici. E così vengono portati legni idonei a innalzare le macchine; vengono
appuntiti pali, e intrecciati graticci; vengono anche fatti venire fabbri, per
fabbricare proiettili e per preparare col ferro tutto ciò che è necessario. E
non mancarono coloro che lanciavano proiettili con la balestra con tanta
abilità di mira da attraversare in linea retta con un lancio preciso un negozio
aperto da due porte sui lati opposti, e da raggiungere anche gli uccelli
volanti nell’aria con un lancio sicuro, e farli cadere dall’alto trafitti.
[18.] ATTACCO DI UGO CONTRO CARLO.
Mentre queste cose accadono esse vengono riferite
all’orecchio dei re. I quali, fortissimamente toccati, tuttavia non con slancio
precipitoso, ma come solevano per ogni cosa, si consultarono con grandissima
diligenza su ciò; dissimulavano in ogni modo anche il dolore del cuore. Inviano
ambasciatori in ogni direzione; invitano contro l’usurpatore quei Galli che la
Marna bagna da una parte e la Garonna dall’altra.[37]
Raccolti insieme costoro, avendo messo insieme un esercito, discutevano se
espugnare la città dopo averla assalita prima che fosse fortificata dai nemici
con maggiori truppe, e se abbattere l’usurpatore una volta espugnata la città,
poiché se solo egli fosse stato catturato o ucciso subito essi avrebbero
riavuto il regno in pace, o se avrebbero dovuto accogliere con benevolenza il
supplice, se per caso egli si fosse presentato come supplice e avesse implorato
di poter tenere come dono dei re i beni usurpati. Ma quelli che erano di animo
più combattivo e più determinato pensavano che fosse necessario intraprendere
l’assedio; premere sui nemici; distruggere interamente col fuoco anche la
regione che quelli avevano invaso. E così raccolti seimila cavalieri muovono
contro il nemico. Al tempo stabilito raggiungono la città; dispongono
l’assedio, e avendo stabilito i luoghi per l’accampamento li circondano di
fossati e bastioni.
[19.] Dopo che furono rimasti lì per molti giorni,
valutarono di non aver mostrato al nemico nulla né delle proprie forze né del
proprio biasimo; la città era inespugnabile a causa della così grande
elevazione e inaccessibilità dei fianchi. Anche le giornate autunnali,
percorrendo un cerchio più breve[38], non
erano sufficienti per questi eserciti; anche le notti prolungate affaticavano
le sentinelle per molto del loro tempo; per cui essendosi consigliati con i
grandi, se ne vanno, con l’intenzione di tornare dopo il tempo invernale.[39] Dopo
che questi se ne sono andati, Carlo percorre tutt’intorno la città; esplora se
per caso qualche luogo appaia accessibile anche per i nemici. E così blocca le
porte facili per l’ingresso dei nemici, chiude le porte posteriori nascoste
dietro le case; restaura le mura cadute per la vecchiaia; allarga e rinforza
dentro e fuori anche la torre con costruzioni più robuste.
[20.] FUGA DEL VESCOVO.
Il vescovo spodestato, che in
essa era tenuto sotto chiave, calatosi mediante funi attraverso una finestra,
durante la notte fuggì portato da un cavallo e, per mostrare che non era
favorevole a Carlo, si recò dai re e si purgò da un così grave sospetto.
Infatti riteneva che qualche congettura avrebbe potuto essere inventata da
calunniatori, come se egli stesso avesse preparato l’opportunità di essere
catturato. Accolto dal re come uno che persegue la lealtà, fu tenuto in non
minor grazia.[40]
[21.] Nel frattempo, trascorso il rigore invernale,
quando la primavera arrideva alla natura con l’aria più mite e faceva
rinverdire i prati e i campi, i re raccolto un esercito attaccarono[41] la
città predetta con ottomila uomini. In primo luogo fortificano l’accampamento
con un terrapieno e con un fossato. Quindi viene costruito un ariete, che
avrebbe fatto forza per rompere i muri.[42]
[22.] COSTRUZIONE DI UN ARIETE.
Eressero la sua struttura con quattro travi di mirabile grossezza e lunghezza in forma di rettangolo, avendo fissato trasversalmente sbarre in cima e alla base sui quattro lati; in mezzo invece soltanto il lato destro e quello sinistro avevano legni messi trasversalmente. Ma sopra le giunture superiori delle travi erette stesero due pertiche, e le resero immobili lasciando in mezzo la terza parte dello spazio superiore delle travi. Da queste pertiche fecero scendere funi arrotolate. E alle funi sospesero un trave di grande grossezza con la testa ferrata; a questo trave anche in mezzo e alle estremità attaccarono funi legate; che tirate e lasciate da molti uomini imprimevano il movimento alla massa ferrata. Quindi e per ciò la macchina viene chiamata ariete, poiché come un ariete tirata indietro corre in avanti con impeto, adattissima a rompere muri di qualunque solidità. E sistemarono questa macchina avendola posta su tre ruote in forma di triangolo, così da poterla più facilmente dirigere avendola piegata dovunque fosse opportuno. Ma poiché il sito della città impediva di accedervi, in quanto la città stessa sorge sulla cima di un monte elevato, l’ariete fabbricato fu messo da parte.
[23.] RITIRATA DI UGO CON L’ESERCITO DA LAON.
Dopo ciò, poiché per molti giorni nell’assedio della città avevano sofferto per le veglie e gli impegni e i frequenti combattimenti, un certo giorno mentre le sentinelle dell’accampamento erano stordite dal vino e dal sonno, i fanti della città eccitati dal vino vennero in armi all’accampamento. Li seguivano poi di seguito i cavalieri armati, che attendevano gli avvenimenti, così da poter entrare in combattimento corpo a corpo con il nemico se si presentasse il caso di una battaglia, e la sorte favorevole indicasse un esito felice. Dunque quando i fanti si erano già avvicinati all’accampamento e si erano accorti che le sentinelle erano addormentate, gettarono torce nell’accampamento. L’aria addensata per il fumo dell’incendio di queste non soltanto ostacolava con la cupa oscurità[43] la vista di chi guardava, ma impediva col pesante vapore la respirazione del naso e della gola. Subito i fanti cominciarono a gridare, i cavalieri a suonare la tromba.[44] Il re e quelli che erano con lui, turbati dalla confusione degli elementi e dal molto clamore degli uomini e clangore delle trombe, tolsero l’assedio alla città. Infatti egli vedeva l’accampamento distrutto con le vettovaglie e tutte le cose. Pertanto dispose di condurre indietro per il momento l’esercito per preparare in seguito il ritorno con maggiori truppe. Tutte queste cose si compirono nel mese di agosto.[45]
[24.] MORTE DELL’ARCIVESCOVO ADALBÉRON.
Così svoltisi questi avvenimenti, non molto tempo dopo
l’arcivescovo essendo vittima della malattia che è detta causon dai
Greci, incendio dai Latini, fece sapere mediante ambasciatori al re che allora
dimorava a Parigi[46] di
essere preda di una grave malattia; e perciò a quello toccava affrettarsi,
affinché Carlo che aveva invaso tutte le altre città non invadesse anche Reims.
Il re, riuniti quelli che erano presenti, diede ordine di andare subito. Mentre
questi si attardava alquanto lungo il cammino l’arcivescovo essendo troppo
tormentato dall’insonnia e insieme dal delirio della mente, e avendo superato
senza nessuna crisi tutti i giorni critici propri di
questa malattia, sciolti i vincoli assolse il debito alla natura umana il
giorno decimo dalle calende di febbraio.[47] Il
re arrivando giusto in tempo in quel giorno fu accolto dalla città. Nelle
esequie dell’arcivescovo si dolse con grandissima commiserazione; e invero non
senza alquante lacrime si lamentò per lui; diede anche sepoltura al corpo con
grande onore. Consolò con straordinaria benevolenza i cittadini privati del
loro signore. Questi, interrogati sulla loro intenzione di conservare la
fedeltà al re e di difendere la città, giurano fedeltà, promettono la difesa
della città. Legati costoro con il giuramento, ed essendo stata loro concessa
dal re la libertà di eleggersi il signore che volessero, il re, andatosene da
loro, fece ritorno a Parigi.
[25.] COME ARNOLFO SI CANDIDÒ ALL’ARCIVESCOVADO.
Mentre egli se se stava là lieto della generosità e della
fedeltà dei cittadini di Reims, Arnolfo[48],
figlio di Lotario, chiedeva l’episcopato al re tramite certi[49]
satelliti del re, fa sapere che ha intenzione di abbandonare lo zio Carlo,
promette fedeltà; s’impegna a vendicare l’offesa
al re; a impegnarsi molto contro i nemici del re; a restituire in breve tempo
la città di Laon invasa dai nemici. I satelliti del
re soddisfatti lo persuadono a concedere l’episcopato al più presto a colui che
lo chiede, asserendo che il re non perderebbe nulla concedendo ciò che chiede a
chi intende combattere per lui e restargli fedele; e molto guadagnerebbe, se
facesse ciò che, essendo fatto, tornerebbe a vantaggio di tutti. Il re
acconsentendo ai loro suggerimenti, si recò a Reims, per presentare ai
cittadini questa richiesta, affinché non lo si ritenesse responsabile di
promessa infida.[50]
[26.] DISCORSO DI UGO AI CITTADINI DI REIMS.
Essendo stati tutti convocati, così parlando disse: “Così come vi ho trovato rispettosi della fedeltà, voi non troverete me alieno alla fedeltà. Infatti poiché la fedeltà è quando ciò che è detto è fatto, vedo che voi avete fatto ciò, e dichiaro che io ho del tutto rispettato lo stesso principio. Arnolfo, figlio da una concubina[51] di Lotario di santa memoria, richiede la dignità di questa sede tramite alcuni che mi assistono; promette che restituirà qualunque cosa sia stata a noi recentemente portata via; e di darsi molto da fare contro i nemici. Ho portato le promesse e la fede di costui al vostro giudizio perché siano esaminate, cosicché mediante il vostro esame siano approvate o riprovate. Questi insiste nelle richieste. Sta nel vostro potere se otterrà ciò che chiede. In verità da parte mia in nessun modo è stato a lui dato appoggio; e nulla è stato deciso. Qualunque cosa avvenga, ritenni utile che dovesse essere riportato alla vostra valutazione, cosicché, se sarà buona, porti a voi utilità e a me gloria; se tuttavia sarà perniciosa, io non sia in verità accusabile di nessuna perfidia, di nessun dolo, di nessuna fallacia. Voi o subirete insieme al colpevole[52] l’ingiusto giudizio del dolo subito o altrimenti leverete costantemente le mani sul traditore.”[53]
[27.] RISPOSTA DEI CITTADINI AL RE.
A ciò i cittadini replicano: “Poiché ci è stata data per
concessione di vostra maestà la possibilità di scegliere il signore, bisogna
adoprarsi con molta lealtà e molto ingegno
affinché non sia fatta alcuna derogazione alla dignità regia e noi evitiamo
l’onta di una falsa accusa e l’eventualità di un futuro disagio. Arnolfo, che
poco fa abbiamo sentito ricordare, richiese a noi di recente la stessa cosa,
promettendo, se ciò accade, di perseguire il vantaggio del re con grandissima
lealtà, e di avere nei confronti dei cittadini non poca benevolenza. Ma poiché
riteniamo i suoi costumi e sentimenti incerti, in quanto giovane[54],
giudichiamo che le nostre sole valutazioni non siano sufficienti per ciò.
Dunque si presentino coloro che cercano di convincervi a ciò, confrontiamo gli
uni e gli altri argomenti; ciascuno dica ciò che ha pensato meglio; e non celi
ciò che ritiene essere ottimo, cosicché del buon esito sia comune la gloria, e
dell’esito infausto equamente soffriamo il disagio.”[55]
Il re approva il discorso dei cittadini, e ordina che
deliberino pubblicamente. Gli argomenti vengono presentati in pubblico. E così
affermano che Arnolfo è degno del sommo sacerdozio, se farà ciò di cui si è
impegnato.[56]
E così viene chiamato e viene ammesso davanti al re; questi interrogato sulla
fedeltà che si deve avere verso il re risponde in modo molto corretto secondo gli auspici di tutti.
[28.] ELEVAZIONE DI ARNOLFO.
Dunque viene condotto dal re e dai grandi al cenobio di San
Remigio, che è situato a un miglio dalla città, dove fin dall’antichità viene
effettuata l’ordinazione dei vescovi. Sedendo là il re in mezzo ai suoi, dopo
aver tenuto consiglio con i suoi separatamente, così egli parlò con generoso
discorso: “Se fosse sopravissuta figliolanza a Ludovico di venerabile memoria,
figlio di Lotario, sottratto al mondo, sarebbe stato giusto che essa a lui
succedesse. Poiché in verità non v’è nessuna successione nella stirpe regia, e
a tutti appare evidente che ciò sia così, io regno, eletto per scelta del vostro
e di tutti gli altri principi, anche di quelli che erano più potenti
nell’ordine dei guerrieri. Ora che poi della stirpe reale solo costui di cui si
parla sopravvisse, affinché il nome di tanto padre non si offuschi ancor più
nell’oblio, voi domandaste che a questo superstite fosse concesso l’onore di
una qualche dignità. Se dunque prometterà l’impegno di mantenere la fedeltà,
s’impegnerà a proteggere la città, e prometterà di non comunicare in nessun
modo con i nemici, ma al contrario di attaccarli, la valutazione del vostro
giudizio non esiti a concedere a lui l’episcopato, tuttavia così che secondo il
consiglio degli uomini prudenti egli sia legato a me dall’autorità di un
giuramento.”
[29.] REDAZIONE DI UN CHIROGRAFO.
“E cosicché io manifesti completamente il concetto della mia
mente, penso che dopo il rito del giuramento da parte sua debba essere scritto
un chirografo. Nel quale dovrà esserci un anatema di maledizione in modo tale
che per lui siano impetrate cose ingiuriose anziché felici, perniciose anziché
salutari, turpi anziché onorevoli, vita breve anziché lunga, disprezzo anziché
onore, e per concludere tutto, tutti i mali anziché tutti i beni. E piace che
ciò sia fatto in due parti; una sia consegnata a me, una a lui. E questo gli
porti eventualmente condanna, se turpemente si allontanerà dalla fedeltà.”
Emessa questa sentenza, da tutti fu lodato che la cosa fosse fatta così. E così
Arnolfo viene avanti pubblicamente. Viene chiesto se approvi quest’idea. Viene
richiesto se possa accettare così ciò che domanda. Egli, desideroso della
carica, loda l’idea. Conferma che la può accettare così. E così scrisse secondo
l’ordine un chirografo bipartito, uno per il re, l’altro lo conservò per sé.[57]
[30.] VIENE DATA L’EUCARISTIA CON MINACCIA DI DANNAZIONE.
Mentre questa cosa era totalmente sufficiente per il re,
tuttavia ai vescovi, come si riferisce, la cosa non parve sufficiente, se non
si fosse anche aggiunto che nella celebrazione della messa egli doveva prendere
l’eucaristia dal sacerdote, e chiedere pregando pubblicamente che quella fosse
per lui causa di perdizione se mai violando la fedeltà diventasse traditore; e
anche questo fu fatto. In effetti il sacerdote nel corso della celebrazione gli
presentò l’eucaristia, e quegli di seguito l’assunse e chiese di essere dannato
se in un qualunque modo dovesse risultare violatore della fedeltà; ciò infine
ispirò fiducia al re e ai primati.
[31.] RIPROVAZIONE DI QUESTO STESSO FATTO.
Alcuni tuttavia, avendo la mente più sgombra, giudicarono
quest’atto sacrilego e contro il principio della fede. Dicevano infatti che
l’uomo è di natura tale che per di per sé si corrompe facilmente, ma ancor più
essa può essere trascinata al vizio da stimoli esteriori. Dichiaravano anche
che secondo i decreti dei Padri e i testi dei canoni[58]
nessuno deve essere obbligato all’eucaristia contro la propria volontà, né
l’eucaristia deve essere offerta ad alcuno col fine della sua perdita, poiché
si deve credere che l’eucaristia deve essere offerta a quelli che la domandano
per la propria redenzione e rifiutata a quelli che non la vogliono. Infine
appariva loro non conveniente che il pane degli angeli e degli uomini fosse
donato senza discernimento agli indegni, poiché Dio stesso detesta gli impuri e
con mirabile parsimonia favorisce i puri, secondo ciò che è scritto: Lo
Spirito Santo fuggirà la falsa scienza e si sottrarrà dai pensieri che sono
senza intelligenza, e si allontanerà in fretta dalla sopravveniente iniquità.[59]
[32.] ARNOLFO EBBE AFFETTO PER CARLO PIÙ DEL GIUSTO.
Arnolfo fu dunque consacrato[60] dai
vescovi della provincia di Reims e rivestito solennemente dei paramenti
episcopali. E non molto dopo prese il pallium dell’autorità apostolica
inviatogli dal papa romano.[61]
Trovandosi a essere insigne per tanto grande dignità, egli tuttavia riteneva
che fosse un caso sfortunato il fatto che egli stesso non avesse nessun altro
sopravissuto della stirpe paterna a parte Carlo; e gli pareva cosa assai
miseranda che questi, nel quale soltanto risiedeva la speranza che la dinastia
paterna si riprendesse, fosse privato di ogni onore. E quindi s’impietosiva per
suo zio, pensava a lui, lo venerava, lo aveva carissimo al pari dei genitori.
Consigliatosi con lui, cercava il modo in cui potesse portarlo al culmine degli
onori, tuttavia così che egli stesso non apparisse traditore del re.
[33.] PRESA DI REIMS.
Egli riteneva che un tale esito si producesse fissando una
data in cui egli stesso avrebbe raccolto in città il maggior numero possibile
di grandi, come se avesse dovuto deliberare qualcosa di importante. Carlo
sarebbe allora arrivato, nel silenzio della notte, con un’armata fino alle
porte della città. E allora ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe aperto le
porte all’armata assalitrice, dopo aver giurato di mantenere il segreto.
L’armata, una volta introdotta, avrebbe invaso la città e l’avrebbe catturato
insieme ai grandi riuniti; essa avrebbe agito con la forza e li avrebbe messi
in prigione. E così sarebbe avvenuto che si indebolisse il potere reale, e
aumentasse la potenza di suo zio, ed egli stesso non sarebbe apparso un
traditore. E ciò fu portato ad effetto.
[34.] Invita i conti Gisleberto[62] e
Guido[63] e
altri nobili personaggi[64].
Notifica che ha un affare importante da regolare e perciò essi devono
affrettarsi molto. Questi arrivarono senza
ritardo, mostrandosi prontissimi all’obbedienza al loro signore. Arnolfo,
dicendo una cosa per un'altra, dissimula completamente ciò che in realtà si
prepara. Tutti ignorano ciò cui egli propriamente tende. Rivelò tutto ciò con
fiducia a un solo uomo, della cui discrezione e fedeltà egli non dubitava. Gli
fece sapere in quale notte Carlo dovesse essere introdotto nella città e gli
ordinò di prendere allora sotto il suo cuscino le chiavi delle porte e di
aprire la città agli uomini d’arme. Non molto tempo dopo[65]
giunse la notte in cui questo crimine era previsto. Carlo con la sua armata
arrivò di notte al tempo fissato davanti alle porte della città. Il prete
Adalgero[66],
così infatti era chiamato, si presentò all’interno con le chiavi. Subito le
porte furono aperte da lui e fu fatta penetrare l’armata. E la città fu
devastata e saccheggiata dai predoni.
[35.] CATTURA DI ARNOLFO E DEI SUOI
Per cui, levatosi clamore nella città, e poiché il tumulto di quelli che correvano svegliò gli abitanti sorpresi, Arnolfo finge di essere ugualmente turbato dal clamore e, simulando la paura, si diresse verso la torre e vi salì. I conti, avendolo seguito, serrarono le porte dietro di loro. Carlo, che cercava Arnolfo e non lo trovava, cercava dappertutto dove mai si nascondesse. Quando scoprì che si nascondeva in cima alla torre, mise subito dei guardiani alla porta; e poiché quelli non si erano prima provvisti di viveri né di armi, si arresero a Carlo e uscirono dalla torre.
[36.] Catturati e condotti a Laon, furono
affidati a guardiani. Quando Carlo ritornò e chiese da loro un giuramento di
fedeltà, rifiutarono all’unanimità. Dunque da una parte e dall’altra simularono
l’odio e non tradiscono in alcun modo tenera affezione. Da parte di entrambi si
finse dunque qualche lamentela, in quanto da una parte e dall’altra l’uno
veniva dichiarato traditore e l’altro invasore del primo. Alla fine Arnolfo,
avendo prestato giuramento di fedeltà, fu messo in libertà[67] e
ritornò alle sue cose. A partire da questo momento egli favorì Carlo in ogni
cosa. Ruppe anche completamente il vincolo di fedeltà che avrebbe dovuto essere
mantenuto nei confronti del re. Gisleberto e Guido, che erano restati in
prigione per qualche giorno, avendo non molto tempo dopo prestato giuramento,
furono autorizzati a rientrare. Carlo dunque, rafforzato per il felice esito,
ottenne la metropoli di Reims insieme a Laon, a Soissons e alle loro
piazzeforti.
[37.] CAMPAGNA DI UGO
Non mancò chi riferisse ciò alle orecchie del re. Colpito da
quest’offesa, questi s’interrogava su ciò che doveva essere fatto e riconobbe
che la situazione non poteva essere affrontata né mediante preghiere né
mediante doni, ma, con l’aiuto di Dio, solo con la forza e le armi. Levò dunque
seimila uomini intendendo marciare contro il tiranno, desiderando porgli
l’assedio se le proprie forze glielo avessero permesso e volendo, se la fortuna
gli fosse stata propizia, impegnarsi in ciò fino a quando non avesse fatto
cadere il nemico con le armi o per inedia. [68]
Partì dunque pieno di foga e condusse l’armata attraverso le terre dalle quali
i suoi avversari traevano i loro approvvigionamenti. Le devastò da cima a fondo
e le incendiò con una tale ferocia che non risparmiò neppure il tugurio di una
vecchia delirante. Poi, nella propria precipitazione, rivolgendo l’esercito
contro il nemico provava a porre l’assedio. Carlo, che si era preparato truppe,
tentava di resistere energicamente all’assalitore. Aveva infatti levato
quattromila combattenti a Laon ed era risoluto a non muoversi se non era
attaccato e a resistere se era attaccato.
[38.] L’ARMATA VIENE DIVISA IN TRE PARTI
Mentre fa avanzare la propria armata, il re vede le truppe
di Carlo disposte per il combattimento. Divide allora la propria armata in tre
parti, affinché, troppo appesantita dalla propria massa, essa non perdesse le
proprie forze. Pertanto formò tre corpi; il primo doveva in combattimento
ingaggiare il primo scontro, il secondo doveva portare soccorso in caso di
cedimento e fornire rinforzi, il terzo poi dispose che portasse via il bottino.
Avendo così ripartito e disposto le truppe, il primo corpo avanzava insieme al
re, con le insegne spiegate, per ingaggiare il combattimento; gli altri due,
preparati in luoghi stabiliti, si tenevano pronti a venire al soccorso.
[39.] Carlo, con i suoi quattromila uomini, avanzò in
senso opposto, pregando la somma Divinità di proteggere i suoi pochi uomini
contro gli altri innumerevoli e di provare che non si deve fare affidamento sul
numero né inquietarsi per la debolezza numerica. Mentre avanzava l’accompagnava
Arnolfo, esortando i propri uomini a resistere coraggiosamente, ad avanzare in
ordine e indivisi e a non disperare in alcun modo di ottenere da Dio la
vittoria; se dopo aver invocato Dio avessero tenuto duro, avrebbero velocemente
ottenuto una vittoria con molta gloria e fama. Entrambi gli eserciti avanzarono
finché ciascuno ebbe in vista l’altro e a quel punto entrambi, fermatisi,
esitavano. Dai due lati si era non poco indecisi, poiché Carlo aveva scarsità
di truppe, mentre l’animo, conscio del proprio delitto, diceva al re che aveva
agito ingiustamente[69]
spogliando Carlo della dignità paterna e trasferendo a sé i diritti del regno.
Entrambi stavano fermi, esitando per questi motivi. Infine fu a ragion veduta
suggerito al re dai grandi di restare fermo per qualche tempo con la propria
armata, ingaggiando il combattimento se il nemico si avvicinava e ritirandosi
con l’esercito se nessuno attaccava. La stessa cosa fu poi decisa da Carlo. Per
cui, dato che entrambi restarono fermi, entrambi si ritirarono. Il re riportò
indietro l’esercito; Carlo poi si ritirò a Laon.
[40.][70]
A quel tempo Eude[71],
desiderando Dreux[72], si
lamentava ipocritamente con il re di dubitare parecchio della presa di Laon,
poiché l’ariete era inefficace, le truppe non avevano fiducia nelle proprie
forze e la città stessa per la posizione inaccessibile sfidava i loro sforzi.
Il re, desolato, domandò rinforzi a Eude promettendogli in cambio una
ricompensa se questi avesse fornito truppe e si fosse impadronito dell’intera
città. Se avesse chiesto anche immediatamente qualcosa che gli potesse essere
donato, senza dubbio egli era pronto ad accordarglielo generosamente. Eude
promette insieme l’assedio di Laon e la sua presa entro breve tempo, purché
possa ottenere Dreux dal re. Il re, desiderando la gloria di una vittoria,
concede il castello a colui che lo richiede. Confidando nelle promesse relative
a Laon, glielo cede pubblicamente. Ed Eude si impegna pubblicamente a
riprendere quanto prima la città perduta. Poi raggiunge senza ritardo[73] la
piazzaforte che il re gli ha concesso, legando a sé la guarnigione col vincolo
del giuramento e aggiungendole alquanti altri uomini di cui conosceva la forza
della fedeltà, per poi occuparsi seriamente degli affari del re. Ma l’effetto
del suo impegno fu nullo, in quanto un improvviso tradimento della città lo
rese vano e circostanze impreviste fecero sì che le cose andassero altrimenti.
[41.] SOTTILE MACCHINAZIONE CONTRO CARLO E ARNOLFO
A quel tempo Adalbéron, vescovo di Laon, che in precedenza,
imprigionato da Carlo, era fuggito, cercava con tutto l’ingegno un’occasione di
prendere Laon a sua volta e di impadronirsi di Carlo. E così inviando ad
Arnolfo dei messaggeri molto adatti a questa bisogna gli offre la propria
amicizia, fedeltà e assistenza; vuole riconciliarsi con lui in quanto suo
arcivescovo; gli è di offesa esser chiamato transfuga e traditore in quanto non
si è sottomesso a Carlo dopo avergli giurato fedeltà e, se ne ha il modo, vuole
allontanare da sé quest’onta; desidera rientrare nelle grazie di sua Altezza e
ricerca l’amicizia di Carlo come suo signore; per cui gli offre di incontrarlo
ovunque sarà gradito. Non riconoscendo l’ipocrisia, Arnolfo accoglie i
messaggeri venuti per ingannarlo e li tratta con molti riguardi, come
messaggeri di un uomo onesto. Indica con solerzia tramite loro il luogo dove
dovranno incontrarsi e colloquiare. Questi, felici di averlo ingannato,
riferiscono ciò al loro signore che, vedendo che si è riusciti a seminare con
profitto i germi del complotto, osserva che le proprie perfide macchinazioni
possono essere portate avanti. Dopodiché si incontrano[74] nel
luogo fissato, complimentandosi a vicenda con molteplici abbracci e baci e
dimostrandosi così tanto affetto che non si percepiva alcuna menzogna né alcun
inganno.
[42.] MACCHINAZIONE INGANNEVOLE DI ADALBÉRON
Ma dopo che furono scambiati sufficienti abbracci e
sufficienti baci, Adalbéron, che aveva i colori della simulazione e l’impegno
dell’inganno, per primo così si rivolse all’incauto: “Uno stesso infortunio,
una stessa malvagia sorte ci affligge sfortunatamente entrambi; così pare che
noi dobbiamo adottare le stesse risoluzioni e la medesima condotta. Noi due
abbiamo appena perduto, voi il favore del re, io l’amicizia di Carlo. E’ per
questo che voi ora sostenete Carlo e io il re. Quello ha grande fiducia in voi,
come questo in me. Se dunque grazie a voi mi sarà restituito l’affetto di
Carlo, a voi non mancherà il favore del re. La cosa non sarà difficile a farsi.
Andate quindi a trovare Carlo e pregate in mio favore, se ve lo permette. Non
sarà inutile che vi mettiate d’accordo sugli impegni che dovrò prendere verso
di lui. Se vi parrà che egli conservi dei dubbi a questo riguardo, ditegli che
in seguito potranno essere messi alla prova con giuramenti. Se egli grazie a
ciò mi renderà il seggio episcopale, che mi si presentino reliquie di santi;
sono pronto a giurare. Se ciò gli basterà ed egli mi restituirà il vescovado,
voi potrete contare sicuramente sul favore reale. In questa lingua e in questa
mano si trovano la pace e la discordia. Andrò a trovare il re, m’impegnerò a
procurargli un bene, del quale non solamente lui, ma anche i suoi eredi
approfitteranno; io rivelerò le macchinazioni di Carlo. Mostrerò che egli ha
fatto un torto all’arcivescovo troppo fiducioso e sosterrò con molta enfasi che
l’arcivescovo se ne pente completamente. Il re, che ha naturalmente fiducia in
me, accoglierà le mie dichiarazioni con grande soddisfazione. Poiché il nostro
obiettivo è doppio, ne risulteranno due beni. E da questi due ne nascerà un
terzo. Infatti, recuperando voi il favore reale, io quello di Carlo, di
conseguenza noi procureremo vantaggio agli altri. Ma sia ora qui la fine delle
parole. Ora i discorsi siano dimostrati dai fatti.” Baciatisi con effusione, si
lasciarono dopo essersi scambiati queste promesse.
[43.] ARNOLFO PER PROPRIA IGNORANZA TRAE IN INGANNO
LO ZIO CARLO
Arnolfo, recatosi da Carlo, gli vanta Adalbéron, senza
sapere che è un impostore, dichiara anche che questi sarà molto utile e garantisce
che manterrà la fedeltà; convinto a tal punto, lo persuade che non si deve
avere alcun dubbio nei suoi confronti. Carlo, approvando il nipote, s’impegna a
far ciò e non rifiuta di rendere il vescovado. Mentre presso Carlo si
deliberavano lealmente queste cose, Adalbéron si tratteneva col re a proposito
di Carlo, di Arnolfo e della presa della città. Ed mentre egli esponeva gli
accordi di cui sopra, vi erano rallegramenti e non scarsa speranza di
riprendere la città. Non molto tempo dopo, Arnolfo invia messaggeri ad
Adalbéron, lo informa che il perdono di Carlo gli è stato generosamente
accordato, che egli sarà accolto in gran pompa nella città e che egli
recupererà anche senza ritardo le proprie funzioni. Che egli pertanto non si
attardi, ma che arrivi quanto prima per sperimentare la liberalità promessa.
[44.] ADALBÉRON COL GIURAMENTO INGANNA CARLO E
ARNOLFO
Adalbéron partì senza ritardo per incontrare Carlo e Arnolfo
nel luogo designato. Accolto da loro cordialmente, procurò loro non poca gioia.
Se c’era stato in precedenza qualche motivo di discordia, dopo averlo trattato
con un leggero e breve discorso lo lasciarono da parte. Esposero con ragioni
diverse i motivi per coltivare maggiormente d’ora in poi i loro legami
d’amicizia, a lungo sottolinearono quanti vantaggi sarebbero loro venuti se
avessero praticato correttamente l’amicizia, e quanta gloria, quanto onore,
quanta sicurezza. E si auspicò che si potessero in breve tempo verificare il
trionfo del loro partito e la caduta dei loro nemici; e niente avrebbe potuto
farvi ostacolo, a meno che Dio stesso non vi si opponesse; se i loro voti si
fossero realizzati, sarebbe venuto un giorno in cui, grazie a loro, lo stato
sarebbe fiorito e si sarebbe riempito d’onore e di gloria. Detto ciò essi si legarono
l’un l’altro con un giuramento e si separarono. Adalbéron si recò allora dal re
per esporgli ciò che aveva fatto. Udito ciò, il re approvò[75] la
sua tattica; promette di ricevere Arnolfo se costui si presenta, di ascoltare
favorevolmente la sua giustificazione relativa alle accuse, e di trattarlo con
lo stesso favore di prima, se riesce a discolparsi. Adalbéron riporta queste
parole ad Arnolfo; lo assicura che il re è benevolo e clemente nei suoi
confronti; che è disposto a intendere la sua giustificazione e a rendergli
immediatamente le sue buone grazie; bisogna dunque che si affretti e venga al
più presto a presentare la sua richiesta, che si rechi velocemente dal re,
affinché gli intrighi di qualcuno non cambino le sue intenzioni.
[45.] ARNOLFO SI RECA DAL RE PER OTTENERE IL SUO
PERDONO
E così entrambi si recano dal re. Arnolfo, introdotto presso
il re, ricevette da lui un bacio, e giacché voleva offrire qualche
giustificazione delle accuse, il re disse che gli bastava che si astenesse dai
comportamenti passati e mantenesse inviolabilmente per l’avvenire la fedeltà
verso di lui; non ignorava affatto che Carlo gli aveva fatto violenza, che a
causa di grandissima costrizione era accaduto che egli si separasse
momentaneamente da lui e sostenesse Carlo anche non volendo. Ma poiché ciò che
era accaduto non poteva essere cancellato, gli pareva essere molto giusto che
egli riparasse in qualche modo il danno dovuto alla perdita della città. E se
non poteva riavere la città come prima, doveva almeno far sì che Carlo gli si
sottomettesse, per mantenere con il suo consenso ciò di cui si era impadronito.
Arnolfo promette di fare ciò e parecchie altre cose ancora, a patto soltanto
che gli fossero rese le buone grazie del re e fosse trattato da lui con gli
onori dovuti a un arcivescovo. Il re gli accordò la sua grazia e l’autorizzò a
godere in sua presenza dei più grandi onori. E’ così che, il giorno stesso,
durante il pasto, lo si fece sedere alla destra del re, mentre Adalbéron sedeva
alla sinistra della regina.[76] Dopo
esser stato così trattato Arnolfo prese congedo dal re. Riferì a Carlo la
mirabile benevolenza del sovrano; e raccontandogli con quanti onori era stato
ricevuto presso di lui si vantava fortemente delle sue buone grazie. A partire
da quel momento egli cercava la riconciliazione e il favore del re e di Carlo. [77]
[46.] ADALBÉRON È RICEVUTO DA CARLO
Mentre ciò avveniva, Adalbéron lasciò il re recandosi da
Carlo. Fu ricevuto a Laon in gran pompa. I suoi familiari, che erano stati in
precedenza esiliati dalla città, ritornano preso di lui. Si dedicano ai loro
affari personali come in passato, senza dubitare di nulla e con la speranza di
avere finalmente la pace. Adalbéron rivede il clero che aveva lasciato, gli
esprime la propria simpatia, l’assicura della propria benevolenza, l’invita a
non abbandonarlo. Dopo che ebbe avuto un sufficiente colloquio con i suoi,
s’incontra con Carlo per rassicurazioni sulla fedeltà e sulla città. Questi
comincia così: “Poiché la Divinità, misericorde con tutti, agisce con misericordia
anche quando punisce, riconosco che è per un giusto giudizio da parte sua che
io sono stato cacciato, poi richiamato. Grazie alla sua equità ritengo essere
stato accolto in questa città, attendo il resto dalla sua bontà. Essa, io
ritengo, mi ha restituito voi e questa città. Io domando quindi che ciò che mi
è stato restituito da Dio mi resti attaccato. Ecco delle sante reliquie; ponete
la vostra mano destra su di esse e prestatemi giuramento di fedeltà contro
tutti. Non fate alcuna riserva se volete essere un mio compagno.” Adalbéron,
desideroso di arrivare ai suoi fini, promette ciò che gli viene domandato.
Stende la propria destra sulle reliquie sante, senza vergognarsi di giurare
tutto ciò che gli si propone. Per cui, creduto da tutti, non fu sospettato da
nessuno. In nessun negoziato è tenuto lontano da chicchessia, egli stesso
discute e decide delle fortificazioni della città; si interessa degli affari di
ciascuno; dà consigli a tutti. Ed egli rimase in realtà sconosciuto e ignoto a
tutti.
[47.] CATTURA DI CARLO DA PARTE DI ADALBÉRON
Allorché ha ben osservato le abitudini di Carlo e dei suoi e
sentito che nessuno lo sospetta, combina ogni tipo di inganni per riprendere la
città, impadronirsi di Carlo e consegnarlo al re. Moltiplica i suoi incontri con
Carlo prodigandogli sempre più testimonianze di amicizia. Gli offre perfino, se
è necessario, di impegnarsi con giuramenti più stretti. Le precauzioni che
prende sono così abili che riesce a dissimulare completamente le proprie
macchinazioni sotto le proprie apparenze ipocrite. Ora, una notte[78] in
cui era seduto a cenare allegramente, Carlo, che teneva una coppa in cui aveva
rotto il proprio pane per farlo inzuppare nel vino, gliela tese, dopo matura
riflessione, dicendo: “Poiché oggi, conformemente ai decreti dei padri, voi
avete santificato le palme e le fronde, consacrato il popolo con le vostre
sante benedizioni e poiché voi ci avete offerto l’eucaristia, disdegnando le
accuse dei maldicenti che dicono che non ci si deve fidare di voi, mentre si
avvicina il giorno della passione[79] di
Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo io vi offro questo vaso che conviene
alla vostra dignità con il vino e il pane spezzato. Vuotate questa coppa in
segno della fedeltà che dovete avere e mantenere. Ma, se voi non avete in animo
di mantenerla, non toccate questa coppa per non donare di nuovo lo spettacolo
orribile di Giuda il traditore!.” A quello che rispose: “Io prenderò il vaso e
berrò volentieri la bevanda.” Carlo subito proseguendo disse di aggiungere: “E
manterrò la mia fedeltà.” Adalbéron proseguì al tempo stesso in cui beveva: “E
io manterrò la mia fedeltà. Altrimenti che io perisca come Giuda!” E disse ai
convitati molte altre parole simili a queste maledizioni. Calava la notte
testimone del futuro dolore e del tradimento. Si decise di riposarsi e di
dormire fino al mattino. Adalbéron, lucido nelle proprie macchinazioni, mentre
Carlo e Arnolfo dormivano tolse le spade e le armi dal loro capezzale e le
depositò in un nascondiglio. Facendo venire il portiere ignaro del suo inganno
gli ordina di fare una corsa veloce e di chiamare uno dei suoi compagni,
promettendogli di guardare la porta nel frattempo. Una volta partito costui,
Adalbéron si pose in mezzo alla porta, tenendo una spada sotto l’abito. Subito
tutti i suoi complici, a conoscenza del suo piano criminale, furono fatti
entrare da Adalbéron. Carlo e Arnolfo giacevano oppressi dal sonno mattutino.
Quando i loro nemici si presentarono in truppa davanti a loro ed essi
risvegliandosi si accorsero dei loro avversari, saltando giù dal letto,
cercando di prendere le armi e non trovandole si domandarono che cosa mai
significasse quell’avvenimento mattutino. Allora Adalbéron disse: “Poiché voi
mi avete in passato[80]
tolto questa piazzaforte e mi avete forzato ad andare via da essa in esilio,
ebbene, anche voi ne sarete cacciati, ma con sorte differente. Io infatti sono
rimasto indipendente; voi sarete sottomessi ad altri.” A ciò Carlo disse: “Io
mi chiedo con grande sorpresa, vescovo, se tu ti ricordi della cena di ieri? Non
ti arresterà dunque la stessa reverenza per la Divinità? Non è nulla il vincolo
di un giuramento? Non sono nulla le maledizioni della cena di ieri?” Dicendo
queste parole, si lancia precipitosamente sul suo nemico. Gli uomini armati
circondano il furioso e rigettandolo sul letto lo tengono fermo. Si
impadroniscono anche di Arnolfo. Dopo averli catturati li rinchiusero in una
stessa torre; e fortificano la torre con serrature, con lucchetti e con sbarre,
piazzandovi dei guardiani. Frattanto, poiché grida di donne e di fanciulli e
gemiti dei servitori salivano fino al cielo, in città gli abitanti furono
turbati e risvegliati. Tutti quelli che tenevano la parte di Carlo tentarono
subito di salvarsi fuggendo. E ciò avvenne a stento. Infatti, quando erano appena
fuggiti, fu dato ordine da Adalbéron[81] di
chiudere subito tutta la città per impadronirsi di tutti quelli che egli
considerava a lui avversi. Furono ricercati ma non trovati. Fu condotto via
anche un figlio[82]
di Carlo, di due anni, che aveva lo stesso nome del padre, e fu sottratto alla
prigionia. Adalbéron inviò con solerzia messaggeri al re a Senlis, per
comunicargli che la città un tempo perduta era stata già recuperata, che Carlo
era stato fatto prigioniero con la moglie e i figli[83] e
che Arnolfo era stato trovato tra i nemici e catturato. Venga dunque e senza
indugio con il più gran numero di uomini possibile, non ponga alcun ritardo nel
levare un esercito; mandi inviati a tutti i vicini in cui ha fiducia perché
vengano dietro a lui e venga subito, anche con pochi uomini.
[48.] IL RE ENTRA A LAON DOPO CHE CARLO E ARNOLFO
SONO STATI CATTURATI
Il re prende con sé quanti uomini può e si dirige verso Laon
senza ritardo, e dopo aver raggiunto la città ed esser stato ricevuto con gli
onori dovuti a un re s’informò della sorte dei suoi fedeli, della presa della
città, della cattura dei nemici, ed ebbe risposte. Convocati per il giorno
successivo i cittadini parlò loro del loro dovere di fedeltà. Quelli, che erano
stati presi, e che erano già passati sotto un’altra dominazione, si impegnarono
alla fedeltà prestarono giuramento al re; ristabilita la sicurezza nella città,
il re rientrò a Senlis con i prigionieri nemici. Allora interrogando i suoi
fedeli chiedeva loro consiglio.
[49.] CONSIGLI DATI AL RE A PROPOSITO DI CARLO
A tale proposito gli uni erano del parere che da Carlo, uomo
illustre e di razza reale, bisognasse prendere come ostaggi tutti i figli e le
figlie ed esigere da lui un giuramento con il quale desse garanzia al re di non
rivendicare mai il regno di Francia, e anche di diseredare i propri figli;
fatto ciò pensavano che Carlo dovesse essere rilasciato.[84]
L’opinione degli altri era invece di tal fatta: un personaggio così illustre,
di una razza così antica, non doveva essere subito liberato, ma doveva essere
tenuto presso il re tanto a lungo fino a ché venissero allo scoperto quelli che
erano indignati per la sua prigionia; e bisognava badare se, per il loro
numero, il loro rango, il loro capo, questi fossero così importanti da non
risultare indegni di essere qualificati come nemici del re dei Franchi o se
fossero trascurabili. Se dunque si fossero indignati in pochi e poco
importanti, pensavano che occorresse tenerlo prigioniero; se al contrario
fossero stati importanti e numerosi, consigliavano di rimetterlo in libertà
alle condizioni di cui sopra. Di conseguenza il re fece imprigionare[85]
Carlo con la moglie Adelaide e il figlio Ludovico[86], e
le due figlie, di cui una si chiamava Gerberga[87] e
l’altra Adelaide[88],
e anche il nipote Arnolfo.
[50.] DIFFICOLTA’ DEL PROPRIO VIAGGIO DALLA CITTA’ DI
REIMS A CHARTRES[89]
Circa quattordici giorni[90]
prima del loro imprigionamento, mentre per il desiderio di apprendere la logica[91] di
Ippocrate di Cos[92]
pensavo molto e spesso agli studi liberali, un certo giorno trovandomi nella
città di Reims incontrai un cavaliere di Chartres. Costui, da me interrogato su
chi fosse, a chi prestasse servizio, perché e da dove venisse, rispose che era
stato inviato da Eribrando[93],
chierico di Chartres, e che voleva parlare a Richer, monaco di San Remigio[94]. Io
subito sentendo il nome di un amico e l’oggetto della missione, gli indicai me
stesso come quello che cercava, e datogli un bacio ci ritirammo da parte. Egli
mi mostrò subito una lettera, che mi invitava alla lettura degli Aphorismi[95].
Per cui io, profondamente rallegrato, dopo aver assunto un domestico con il
cavaliere di Chartres, mi disposi a prendere la strada per Chartres. Partendo
tuttavia ottenni dal mio abate[96] per
aiuto soltanto una bestia da soma. E arrivai a Orbais[97],
luogo reputato per la grande ospitalità. sprovvisto di denaro, di abiti di
ricambio e di ogni altro oggetto necessario, e là, confortato dalla
conversazione del signor abate D.[98], e
al tempo stesso sostentato dalla sua generosità, all’indomani presi la strada
da percorrere fino a Meaux[99].
Essendomi poi addentrato con i miei due compagni nei sentieri sinuosi dei
boschi, non mi mancarono occasioni d’infortunio. Infatti, essendoci sbagliati
agli incroci, facemmo una deviazione di sei leghe[100].
Dopo aver attraversato Château-Thierry[101] la
cavalcatura, che era parsa fin là un bucefalo, cominciò a dimostrarsi più lenta
di un asinello. Già il sole aveva lasciato il meridiano e volgeva al tramonto,
mentre tutto il cielo si era sciolto in pioggia, quando il nostro vigoroso
bucefalo, vinto da uno sforzo supremo, s’abbatté sfinito tra le gambe del
domestico che lo montava e come colpito da un fulmine spirò a sei[102]
miglia[103]
dalla città.
Chi ha provato una volta incidenti simili e può confrontare
tra loro casi analoghi è in grado di comprendere quanta fu allora l’emozione,
quanta fu l’ansia. Il domestico, non preparato alle difficoltà di un così
grande viaggio, spossato in tutto il corpo, dopo aver perso il cavallo si era
sdraiato. I bagagli erano rimasti senza un portatore. La pioggia scendeva con
eccessiva violenza; il cielo era coperto di nubi; Il sole già al tramonto
minacciava le tenebre. In mezzo a tutto questo, mentre esitavo non mi venne a
mancare il consiglio di Dio. E in effetti lasciai là il domestico con i
bagagli; e dopo avergli specificato ciò che, interrogato, doveva rispondere ai
passanti, e che doveva resistere al sonno imminente, accompagnato solamente dal
cavaliere di Chartres arrivai a Meaux. E avanzai vedendo il ponte a malapena,
per la scarsa luce; ma contemplandolo più attentamente, fui assalito da nuove
preoccupazioni. Infatti era forato da tanti e tanto grandi buchi che a stento
coloro che erano in relazione con i cittadini avevano potuto attraversarlo
durante il giorno stesso. L’uomo di Chartres, dinamico e abbastanza esperto di
come si fa un viaggio, avendo cercato tutt’intorno un battello e non avendolo
trovato, ritornò ai pericoli del ponte e ottenne dal cielo che i cavalli lo
attraversassero incolumi. Infatti, piazzando sotto i piedi dei cavalli nei
punti bucati o il suo scudo o delle assi gettate là, e talvolta piegato,
talvolta eretto, talvolta avanzando dolcemente, talvolta correndo, riuscì a
passare con i cavalli, con me che lo accompagnavo. La notte era diventata
spaventevole e aveva coperto il mondo di tenebre orribili, quando entrai nella
basilica di Saint-Faron[104],
mentre i frati preparavano ancora la bevanda di carità. Quel giorno avevano
pranzato solennemente dopo aver letto il capitolo relativo al cellerario del
monastero, cosa che aveva causato la tanto tardiva libagione. Accolto da loro
come un fratello, con dolci parole, e con alimenti sufficienti fui ristorato.
Rinviai con i cavalli dal domestico lasciato indietro il cavaliere di Chartres,
che doveva affrontare una seconda volta i pericoli del ponte appena scampati.
Lo attraversò con la stessa abilità e, dopo aver errato, arrivò presso il
domestico alla seconda veglia della notte; e lo trovò con fatica dopo averlo
spesso chiamato gridando. Presolo con sé, quando fu giunto alla città, poiché
non si fidava dei pericoli del ponte che per esperienza aveva appreso essere
temibili, si rifugiò in un tugurio con il domestico e i cavalli; e là, sebbene
fossero restati tutto il giorno senza mangiare, si ritirarono per quella notte
per riposarsi invece che cenare. Che notte insonne passai e quanto, durante
essa, fui afflitto da tormenti possono comprenderlo quelli che una volta sono
stati costretti a vegliare dalla preoccupazione per persone care. Dopo che
infine il giorno bramato arrivò; si presentarono di buon’ora, afflitti dalla
troppa fame. Fu anche a loro offerto cibo; fu dato grano e paglia ai cavalli. E
lasciando all’abate Agostino[105] il
domestico appiedato, accompagnato del solo uomo di Chartres arrivai rapidamente
a Chartres[106].
Avendo subito rinviato da là dei cavalli feci venire il domestico dalla città
di Meaux. Allorché l’ebbero riportato, essendo dissipate tutte le mie
inquietudini, mi misi a studiare attentamente gli Aphorismi di Ippocrate[107]
presso il signore Eribrando, un uomo di grande generosità e sapienza. Ma,
poiché avevo potuto trovarvi soltanto la diagnostica delle malattie e questa
semplice conoscenza delle malattie non bastava alla mia curiosità, gli chiesi
anche la lettura del suo libro che s’intitola: Concordanza di Ippocrate, di
Galeno e di Surano[108].
E ottenni anche questo, poiché le proprietà farmaceutiche, botaniche e
chirurgiche non erano sconosciute a lui, espertissimo nella scienza.
[51.] UN SINODO E’ RIUNITO PER ORDINE DEL RE PER LA
PROTESTA DI COLORO CHE CONDANNAVANO LA DETENZIONE DI ARNOLFO.[109]
Ma per riprendere il seguito dell’affare di cui sopra,
poiché alcuni tra gli amici si erano indignati per l’arresto del vescovo. e
certi scolastici avevano scritto alcune cose in sua difesa[110] e
avevano prodotto dai canoni altri scritti, e ciò era stato riferito alle
orecchie del re, per editto regio fu ordinato che tutti i vescovi della Gallia
che potevano, e soprattutto quelli che erano della stessa provincia, si
riunissero insieme; quelli poi che non avessero potuto essere presenti
avrebbero dovuto farsi scusare da inviati autorizzati; e là, se secondo le
regole fisse e precise dei decreti fosse stato giudicato colpevole, lo
avrebbero dovuto condannare; oppure se fosse stato assolto, l’avrebbero dovuto
restituire alla precedente dignità della sede.[111]
Pertanto si riunirono[112] nel
cenobio dei monaci del confessore Saint Basle[113] i
vescovi della provincia di Reims, cioè i suffraganti dell’arcivescovo di Reims:
Guido[114]
vescovo di Soissons; Adalbéron, vescovo di Laon; Hervé[115],
vescovo di Beauvais; Godesmanno[116],
vescovo d’Amiens; Ratbod[117],
vescovo di Noyon; Eude[118],
vescovo di Senlis; Daiberto[119],
arcivescovo di Bourges; i suffraganti dell’arcivescovo di Lyon: Gualtiero[120],
vescovo d’Autun; Brunone[121],
vescovo di Langres; Milone[122],
vescovo di Macon; Seguin[123],
arcivescovo di Sens, con i suoi suffraganti: Arnolfo[124],
vescovo d’Orléans; Eriberto[125],
vescovo d’Auxerre. Costoro dopo essersi riuniti insieme, dopo una discussione
segreta permisero che sedessero con loro gli abati di numerosi monasteri che
erano presenti.
[52.] DELIBERA RELATIVA ALLE FUNZIONI DI PROMOTORE E
DI PRESIDENTE.[126]
Dopo che fu dunque stabilito il programma del sinodo che si
doveva tenere, pensarono a designare il personaggio al quale sarebbe stato dato
il potere di regolare i dettagli e quello che dovevano incaricare come
controllore e interprete del regolamento. E così la dignità di presidente fu
conferita a Seguin, arcivescovo di Sens, poiché era molto raccomandato per il
rispetto dovuto all’età e per i meriti della sua vita. La carica di promotore e
la funzione di interprete furono confidate ad Arnolfo, vescovo d’Orléans,
perché egli si distingueva tra i vescovi della Gallia per la qualità
dell’eloquio e per l’efficacia oratoria. pertanto, fatto ciò, dopo l’entrata
del clero, e dopo che furono lette le decisioni che erano applicabili
all’affare, Arnolfo presa la parola parlò così:[127]
[53.] ALLOCUZIONE DI ARNOLFO AL SINODO.[128]
“Poiché noi siamo riuniti qui, molto reverendi Padri, per
ordine dei re serenissimi e nell’interesse della santa religione, appare chiaro
che noi che siamo riuniti qui per la grazia dello Spirito Santo dobbiamo
evitare con tutta la nostra lealtà e con tutto il nostro zelo, che l’odio o
l’amore per qualcuno ci faccia uscire fuori dalla retta norma. E poiché siamo
qui riuniti nel nome del Signore, noi dobbiamo trattare tutte le questioni con
discorsi franchi al cospetto della Divinità suprema, non togliere a nessuno il
suo turno di parola, impegnarci per la verità, stare appassionatamente in
favore della verità, discutere e refutare le accuse con discorsi semplici e
corretti. Che si renda a ciascuno l’onore che gli è dovuto; che si dia a tutti
la potestà di parlare; che sia concessa a tutti la libertà di accusare e di
rispondere. Ora quindi, poiché voi avete voluto che io parli davanti a voi
tutti, io credo di dovervi far conoscere l’oggetto di questo sinodo, affinché,
esposto chiaramente, sia visto da tutti così come è. L’illustre metropoli di
Reims è stata di recente invasa a tradimento dai nemici. Il santo dei santi è
stato profanato dall’assalto dei nemici; il santuario di Dio è stato violato da
ogni sorta di empietà; gli abitanti sono stati depredati da briganti. Ed è
accusato di essere autore di questi mali Arnolfo, vescovo della città medesima.
colui che avrebbe dovuto difenderla contro i nemici; ciò gli si rimprovera; per
ciò discutere l’autorità reale ci ha convocati qui. Datevi da fare dunque,
reverendi Padri, affinché la perfidia di un singolo non avvilisca la dignità
dell’episcopato.” Avendo qualcuno dei presenti obiettato[129] che
un uomo di tale specie doveva essere condannato al più presto e così punito con
giusta sentenza, il vescovo Seguin replicò che non avrebbe permesso che uno che
era accusato di lesa maestà fosse sottoposto a un’inchiesta giudiziaria se
prima non avesse ricevuto con giuramento promessa d’indulgenza da parte dei re
e dei vescovi; asseriva che ciò doveva essere fatto in virtù del trentunesimo
canone del concilio di Toledo.[130] Poiché aspiriamo alla brevità abbiamo omesso
di trascriverlo.
[54.] DICHIARAZIONE DI DAIBERTO A FAVORE DELLA
PRONUNCIA DEL GIUDIZIO.[131]
Daiberto, arcivescovo di Bourges,[132]
dichiarò:[133]
“Poiché il fatto è flagrante, e v’è alcun dubbio sulla qualifica del fatto, e
di quanto grave crimine si stia esaminando, io non comprendo affatto perché si dovrebbe
necessariamente avere indulgenza per il colpevole. In effetti qui sembra che
questa necessità esista, poiché non si vuole pronunciare un giudizio a meno che
la remissione della pena non sia stata preliminarmente accordata all’incolpato.
Ma se ci si rivolge al diritto secolare, chiunque abbia commesso un qualunque
crimine sarà sottoposto alla severità della pena secondo il tipo del crimine.”
[55.][134]
Hervé, vescovo di Beauvais, disse:[135]
“Bisogna guardarsi innanzitutto dall’assimilare le leggi divine alle leggi
civili. Infatti sono tra loro molto differenti, poiché spetta alle leggi divine
trattare gli affari ecclesiastici e alle leggi laiche occuparsi degli affari
laici. Tra loro le prime sono superiori alle seconde, tanto quanto le seconde
sono inferiori alle prime. Dunque occorre sempre conservare alle leggi divine
la loro dignità. Se dunque il nostro fratello e covescovo Arnolfo sarà
riconosciuto colpevole di lesa maestà, io non mi oppongo a che sia trattato con
una certa indulgenza dai re serenissimi, per rispetto verso il sacerdozio e per
riguardo ai legami di sangue. Tuttavia egli non sfuggirà completamente a una
sentenza di condanna se apparirà per propria confessione indegno della dignità
sacerdotale.
[56.] REQUISITORIA DI BRUNONE CONTRO ARNOLFO.[136]
Brunone, vescovo di Langres, disse:[137]
“Pare che io abbia precipitato nella disgrazia costui di cui si parla
elevandolo alla vetta degli onori contro i voti di molte persone oneste. E
realizzai ciò non solo per i legami di sangue, ma anche per trarlo verso una
migliore condotta di vita, poiché io non ignoravo che egli stesso, invasore
della città di Laon e capo audace di un partito criminale, aveva impegnato la
propria fedeltà ai re col vincolo di un chirografo, con l’impegno di non
violare mai la fedeltà promessa in nome di alcun giuramento passato o futuro,
di perseguire con l’ingegno e la forza i nemici dei re e di non avere alcuna
relazione con loro. Ma quando Carlo, mio zio, si è posto come avversario dei
re, colui del quale parliamo è entrato in relazione con lui e gli ha offerto
con giuramento la fedeltà, ha rotto completamente il vincolo della lealtà
promessa. Non meritano forse di essere qualificati come avversari dei re
Manasse[138]
e Ruggero[139],
che con Carlo furono gli invasori della città di Reims, che penetrarono a mano
armata nella basilica di Maria, madre di Dio, e che, con questa irruzione
scandalosa, violarono il santuario? E questi teneva costoro come suoi
confidenti e come preferiti tra gli amici. Poiché ciò è del tutto evidente, che
egli dica ora per la spinta o la persuasione di chi ha intrapreso queste
azioni. O egli accuserà chiaramente qualcuno, o soccomberà, dimostrato
colpevole dalle testimonianze. Nessun affetto per la parentela, nessuna
considerazione della passata intimità mi allontaneranno in alcun modo dalla
formulazione di un giudizio equo.”
[57.] ELOGIO DELLA GENEROSITÀ DI BRUNONE DA PARTE DI
GODESMANNO E RICHIESTA CHE IL GIUDIZIO SIA PRONUNCIATO DA LUI[140]
Godesmanno,
vescovo d’Amiens, disse:[141]
“Noi conosciamo la generosità del venerabile Brunone, che né il sentimento
familiare né l’amicizia distolgono dalla verità; ma il rigore dello spirito e
l’onestà dei costumi provano manifestamente che egli è sincero ed è uno cui si
deve credere. Pertanto poiché in precedenza è stata fatta menzione di
un’inchiesta sul crimine del nostro fratello e collega Arnolfo, pare che
convenga domandare a lui quale giudizio si debba formulare su questo caso, in
quanto proprio a lui sarà necessario temperare la severità del giudizio, poiché
egli è collocato tra le due parti, essendo tenuto alla fedeltà verso il re e
all’affetto per Arnolfo a causa della parentela. Di conseguenza, non lo si
potrà ritenere sospetto di alcun inganno, poiché la fedeltà nei confronti del
suo signore l’inciterà a un giudizio e il suo affetto per un parente gli
impedirà la malevolenza.”
[58.] RISPOSTA DI BRUNONE.[142]
Il vescovo Brunone a ciò replicò:[143]
“Comprendo molto chiaramente il vostro pensiero. Questi, che è accusato del
crimine di lesa maestà, è unito a me dalla parentela carnale, in quanto figlio
di mio zio, il re Lotario. E pertanto la vostra bontà teme che mi sia fatta
ingiuria, se da parte vostra sarà pronunciato su di lui un giudizio adeguato.
Ma non avvenga che io valuti più prezioso l’affetto per la parentela rispetto
all’amore per Cristo. Che la vostra santità analizzi con me il caso di cui si
tratta con un’inchiesta minuziosa, senza che voi abbiate nulla da temere da una
condanna da pronunciarsi contro un colpevole, poiché è altrettanto giusto
condannare un colpevole di lesa maestà che rilasciare un innocente.”
[59.] ESPOSIZIONE DA PARTE DI RATBOD DEL FATTO CHE I
VESCOVI LORENESI CONTESTANO L’ATTO DI FEDELTÀ.[144]
Ratbod, vescovo di Noyon, disse:[145] “
Io penso, reverendi padri, che se a voi piace bisognerebbe ora esaminare l’atto
di fedeltà che Arnolfo ha una volta presentato ai re per offrire la propria
fedeltà. È infatti evidente che esso basterebbe alla sua condanna, in quanto
egli ha violato completamente, con uno spergiuro sacrilego, l’impegno di
fedeltà promesso con giuramento e confermato da uno scritto di suo pugno. Ma
c’è qualcosa che si oppone a ciò, poiché in effetti alcuni vescovi lorenesi[146], si
dice, levano critiche contro questo atto. Contestano infatti che è stato
scritto, letto e tenuto nascosto contro le leggi divine.[147]
Pertanto se a voi piace lo si produca, cosicché ora possa essere discusso da
voi.” Il sinodo disse: “Lo si produca.”
[60.] TESTO DELL’ATTO DI FEDELTÀ DI ARNOLFO.[148]
E così fu prodotto questo testo avente il contenuto
seguente: “Io Arnolfo per grazia di Dio arcivescovo di Reims prometto ai re
dei Franchi, Ugo e Roberto, di conservare la mia assoluta fedeltà verso di
loro, di fornir loro consiglio e aiuto secondo le mie conoscenze e le mie
possibilità in tutte le loro iniziative, di non prestare volontariamente
consiglio e aiuto ai loro nemici contro l’impegno di fedeltà a loro. Io
prometto ciò presentandomi al cospetto della maestà divina, delle anime beate e
di tutta la Chiesa, con l’intento di ricevere, in cambio dell’avere ben
mantenuto l’impegno, il premio della felicità eterna. Se al contrario, cosa che
io non voglio e che spero non avvenga, io me ne discosterò, che ogni benedizione
si converta per me in maledizione, che i miei giorni siano abbreviati e che un
altro riceva il mio vescovado, che i miei amici si allontanino da me e
diventino per sempre miei nemici. Sottoscrivo questo chirografo da me redatto
come pegno della mia benedizione o della mia maledizione e prego i miei
fratelli e i miei figli di sottoscriverlo. Io Arnolfo arcivescovo ho
sottoscritto.”
[61.] ARNOLFO IN PARTE APPROVA E IN
PARTE CRITICA L’ATTO.[149]
Dopo che quest’atto è stato letto, il sinodo esamina se esso appaia dare forza a una qualche accusa o difesa. Il venerabile vescovo Arnolfo prende allora la parola, in quanto gli era stato affidato il compito di dare le spiegazioni:[150] “Di per sé, dice, l’atto in parte contiene elementi di difesa e in parte dà forza agli accusatori. In effetti la ragione per cui fu scritto fu Arnolfo stesso, il suo autore. Questi, essendo eccessivamente afflitto dal morbo dell’esecrabile ambizione, commise un atto che può essere condannato, non rispettando la fede giurata. Ciò in effetti è soggetto alla condanna. E il fatto che persone sagge e oneste fecero sì che egli contrastasse le perfidie e l’astuzia di un uomo perduto, è una cosa che offre un sostegno alla difesa contro gli accusatori e che gli procura un rinforzo. Tutto ciò, come che sia, deve tuttavia essere confermato da una testimonianza. Venga avanti il prete Adalgero; è infatti presente colui che, come complice del tradimento, conosce meglio la sequenza degli avvenimenti. Che compaia, dico io, e che esponga alla vostra chiarezza questo crimine inaudito affinché voi riconosciate dove deve esserci la condanna e vediate dove si deve concedere l’approvazione.”
[62.] ADALGERO VIENE FATTO COMPARIRE PER L’ACCUSA.[151]
E così Adalgero, che era stato citato, si presenta;
interrogato sull’affare, risponde senza esitare: “Vorrei, santi padri, che
durante questa comparizione mi si accordasse qualche indulgenza e remissione.
Ma, poiché sono arrivato al punto in cui, qualora si possa trovare qualcosa che
risulti in mio favore, pare che poi si rivolga contro di me, esporrò molto
brevemente ciò che mi domandate. Dudone[152],
vassallo di Carlo, mi invitò a intraprendere questo tradimento su cui indagate,
giurando che così sarebbe piaciuto al mio signore. Poi giacché non gli credevo
ho interrogato per conto mio il mio signore. Egli ha risposto che voleva che
ciò accadesse. Per coprire quest’azione vergognosa con un’apparenza di onestà,
ho prestato omaggio nelle mani di Carlo e, divenuto suo uomo, mi sono impegnato
con giuramento a commettere il tradimento. Io l’ho commesso, in effetti, ma non
senza che mi fosse ordinato. Se ciò vi sembra falso, sono pronto a subire ogni
genere di prove giudiziarie.
[63.] BREVE E CHIARA DIMOSTRAZIONE DEL CRIMINE DA
PARTE DEL VESCOVO GUIDO[153]
Guido, vescovo di Soissons, disse: [154]
“Come si capisce da questi fatti sulla base dell’esposizione di costui, sono
entrambi colpevoli di un unico crimine. In effetti, benché quest’uomo dichiari
di averlo eseguito, il suo signore, che l’ha convinto a commetterlo, non è
innocente, dal momento che egli ha presentato se stesso come causa del delitto.
Pertanto, dal momento che il ruolo di entrambi appare chiaro da indizi
evidenti, poiché l’uno ha persuaso al delitto e l’altro l’ha compiuto,
argomenti per un giudizio di condanna non mancano a vostra paternità. C’è anche
di che dare forza alla formulazione di una condanna per il fatto che, mentre
egli stesso era l’autore del tradimento, il vescovo per dissimulare il proprio
crimine sotto l’ardore di un più vivo zelo con una sentenza di scomunica[155]
maggiore e di maledizione privò del corpo e del sangue del Signore e separò
dalla Chiesa dei fedeli gli istigatori, i capi, i complici, i partigiani dei
predatori di Reims e coloro che avevano tolto i beni ai loro veri proprietari
col pretesto dell’acquisto. Ma poiché il vescovo è l’artefice di un male così
grave, è assai chiaramente evidente che egli si è avviluppato nell’anatema. E
ciò non ha un valore trascurabile al fine della sua condanna.”
[64.] INDIGNAZIONE DI GUALTIERO NEI CONFRONTI DI
ARNOLFO.[156]
Gualtiero, vescovo di Autun, disse: “Non è forse insensato
questo vescovo che cerca per sé una difesa, dal momento che la sua colpevolezza
appare in modo eclatante ai re e a tanti padri e che per di più è coinvolto
dalla testimonianza di un prete complice delle sue colpe? Come potrebbe
l’autore stesso del crimine sfuggire alle conseguenze dell’anatema quando egli
stesso, autore e fautore del male, trafigge gli autori, gli artefici e i
complici con la freccia della maledizione? Non sa egli dunque che Dio stesso
giudica la sua condotta, poiché sta scritto che gli occhi del Signore
contemplano ovunque i buoni e i malvagi[157]?
Io immagino che certamente quest’insensato si sia detto in cuor suo: Dio non
esiste.[158]
Considerate dunque, padri, quanto l’artefice e il complice del crimine si sono
corrotti e sono diventati abominevoli grazie alle loro macchinazioni.”
[65.] AMMONIMENTO DEL VESCOVO EUDE AFFINCHÉ SI
ACCELERI IL GIUDIZIO.
Eude, vescovo di Senlis, disse: “Poiché noi siamo qui riuniti nell’interesse della religione e per ordine dei re serenissimi, non bisogna differire la preparazione del giudizio da formularsi. I re infatti l’attendono; il clero e il popolo parimenti lo desiderano. Non c’è ragione di attardarsi più lungamente nell’esposizione delle opinioni più diverse, poiché il fatto è flagrante e il testo del giudizio è pronto. Non solamente voi avete letto i decreti dei Padri, ma in conseguenza dei fatti voi non avete difficoltà a pronunciare una giusta condanna.”
[66.] INVITO DI ARNOLFO AI DIFENSORI AFFINCHÉ
DISCUTANO LIBERAMENTE.[159]
Arnolfo, vescovo di Orléans, disse: “Venerabili padri,
benché a proposito di Arnolfo le cose stiano certamente così come è stato
detto, e benché sulla base di numerose decisioni dei Padri sia lecito che lo si
condanni con una giusta sentenza, tuttavia, perché non sembri che noi ci
compiacciamo della rovina di un fratello o ardiamo oltre il giusto per la sua
condanna, stimo che si debba decidere di comune accordo che chiunque intenda
dire qualcosa in sua difesa abbia il permesso a difenderlo, di sfogliare dei
volumi, di proferire le opinioni che vorrà e di produrre qui davanti a noi,
senza timore, tutto ciò che avrà preparato per la difesa. Io penso che noi
dobbiamo prendere questa risoluzione affinché non si dia loro un’ulteriore occasione
per la difesa. Che esprimano qui ed ora il proprio pensiero una volta per
tutte.” Il vescovo Seguin approva allora la mozione di Arnolfo e proibisce che
sia violata, sulla base delle decretali. Egli invita, di conseguenza, tutti
quelli che hanno qualcosa da dire a prendere la parola.
[67.] DIFESA DEGLI SCOLASTICI IN FAVORE DI ARNOLFO.[160]
E mentre ci furono là parecchi che s’impegnarono per la
difesa, i principali tuttavia furono gli abati Abbone[161] di
Fleury e Ramnulfo[162] di
Sens[163],
oltre a Giovanni[164] scolastico
di Auxerre. Essi in effetti si distinguevano fra i loro colleghi per la scienza
oltre che per l’eloquenza. Ottenuto il silenzio, si aprirono molti volumi di
libri, e si produssero numerosi decreti dei Padri, e diversi di questi furono
utilizzati per la difesa. Tra le altre furono avanzate quattro obiezioni
principali. Essi dicevano infatti prima di tutto che Arnolfo doveva essere
ristabilito sul proprio seggio, poi che doveva venirgli fatta una regolare
citazione, poi che l’affare doveva essere notificato anche al pontefice romano
e infine che si doveva discutere tutta l’imputazione in un sinodo generale, con
l’autorizzazione del pontefice romano. Essi asserivano anche che ciò doveva
essere riconosciuto in conformità alle leggi divine e umane.
[68.] REFUTAZIONE DELLA DIFESA.[165]
Ma dall’altra parte fu risposto che non si poteva ristabilire Arnolfo sul suo antico seggio poiché, essendo stato coinvolto in colpe evidentissime da un accusatore degno di fede, appariva più incline al vizio che rispettoso dell’onore della Chiesa e della fedeltà ai propri signori. Non c’era del resto motivo di citarlo di nuovo poiché, dopo il crimine di tradimento, era stato citato continuamente per sei mesi e non si era degnato di venire a giustificarsi. Non si poteva poi riferire al pontefice romano, in quanto impedivano ciò grandemente le difficoltà della strada e le minacce dei nemici. Del delitto poi non era più necessario discutere, in quanto era del tutto evidente: l’accusatore aveva sostenuto l’accusa e portato in appoggio prove multiple, al punto che l’accusato, dimostrato colpevole, non aveva potuto obiettare. Davanti a queste conclusioni dei vescovi, sostenute con molti argomenti, i difensori capitolano.
[69.][166]
Avendo costoro rinunciato alla difesa, i vescovi stimarono che non restava
più che introdurre Arnolfo in mezzo a loro, affinché rispondesse come voleva in
propria difesa. [167]
Pertanto, convocato, sedette nel rango dei vescovi. Dopo che a lui
furono rivolte dai vescovi molte domande alle quali imbarazzato non rispose, e
dopo che egli sostenne certe cose come poté, e altre ne negò, alla fine, vinto,
soccombette alla logica delle argomentazioni e si riconobbe pubblicamente
colpevole e indegno dell’episcopato.[168]
[70.] ENTRATA DEI RE NEL SINODO.[169]
Quando il fatto fu portato alla conoscenza dei re, essi
stessi si recarono con i grandi alla sacra assemblea dei vescovi, per
ringraziarli di aver tenuto una così lunga deliberazione nel loro interesse e
per il bene dei principi.[170]
Essi domandarono, inoltre, che fosse loro riferita la sequenza dei fatti e
quale fosse la conclusione dei dibattimenti. E allora la sequenza di tutti i
fatti fu esposta ai re. Dopo averne inteso lo svolgimento della narrazione, i
re dichiararono che il momento di pronunciare il giudizio era infine giunto. I
vescovi invitano allora Arnolfo a gettarsi ai piedi dei re, a confessare il
proprio crimine e a supplicare per la propria vita e per l’integrità delle
proprie membra. Egli subito, prosternato ai piedi dei suoi signori, confessò il
proprio crimine e, dichiarandosi indegno dell’episcopato, inondato di lacrime
chiedeva la grazia per la vita e le membra. Per cui commosse fino alle lacrime
l’intero sinodo. I re, presi da una profonda pietà, gli accordano salva la vita
e le membra e decidono che Arnolfo resterà prigioniero sulla parola, senza
ferri né catene.
[71.]
SENTENZA[171]
Quando fu sollevato da terra, gli fu domandato se voleva che si procedesse alla sua abdicazione solenne, secondo l’autorità dei canoni. Poiché egli rimise ciò completamente alla decisione dei vescovi, si decise subito che, poiché si dichiarava indegno dell’episcopato e non negava il proprio crimine, come per gradi era stato elevato così per gradi sarebbe stato deposto. Egli dunque in primo luogo rese ai re, come gli fu richiesto, ciò che aveva ricevuto da loro, poi abbandonò senza indugio le insegne episcopali ai vescovi. Ed essendogli stato chiesto se acconsentiva a redigere il proprio atto di abdicazione e di rinuncia, rispose che avrebbe fatto ogni cosa in conformità ai desideri dei vescovi, e davanti ai re lesse al sinodo e sottoscrisse l’atto, che era stato subito scritto e consegnato.
[72.] TESTO DELL’ATTO DI RINUNCIA DI ARNOLFO.[172]
Il testo dell’atto era di tal fatta:[173] “Io
Arnolfo, un tempo per grazia di Dio vescovo di Reims, riconoscendo la mia
debolezza e il peso dei miei peccati, ho preso come giudici delle mie colpe i
seguenti testimoni, miei confessori: Seguin arcivescovo; Daiberto arcivescovo;
Arnolfo vescovo; Godesmanno vescovo; Hervé vescovo; Ratbod vescovo; Gualtiero
vescovo; Brunone vescovo; Milone vescovo; Adalbéron vescovo; Eude vescovo;
Guido vescovo; Eriberto vescovo; e ho fatto loro una confessione sincera,
chiedendo, come rimedio di penitenza e salvezza della mia anima, di recedere
dalla funzione e il ministero episcopale, di cui mi riconosco indegno e di cui
mi sono reso incapace per le mie colpe, nelle quali ho loro segretamente
confessato di essere caduto e di cui ero pubblicamente accusato: ciò affinché
siano essi stessi testimoni e abbiano il potere di mettere al mio posto e di
consacrare un altro, che sia capace di governare e di servire degnamente la
Chiesa di cui io sono stato fin qui il capo indegno. E, affinché d’ora in poi
io non possa produrre alcuna rivendicazione, alcun appello valido in virtù dei
canoni, ho confermato quest’atto sottoscrivendolo di mio pugno. Dopo averne
dato lettura, l’ho sottoscritto così: Io Arnolfo già arcivescovo di Reims, ho
sottoscritto.” Poi i vescovi che erano presenti, richiestine da lui,
sottoscrissero e così gli risposero: “Conformemente alla tua dichiarazione e
alla tua sottoscrizione, lascia la tua funzione.” Dopodiché Arnolfo sciolse dal
loro giuramento quelli che erano stati suoi fedeli e, poiché era decaduto,
accordò loro l’autorizzazione a passare sotto la dominazione di un altro.
[73.] DEGRADAZIONE DEL PRETE ADALGERO.[174]
Mentre questa cerimonia si svolgeva con molta solennità, il prete Adalgero, prosternato ai piedi dei re, si lamentava con grandi lagnanze di essere stato scomunicato, chiedendo di essere reintegrato nella comunione, giudicando che la punizione avrebbe dovuto essergli imposta con più indulgenza, poiché aveva ubbidito a un ordine del suo signore. Arnolfo, vescovo di Orléans, rivoltosi a lui disse: “Forse che oggi le tue menzogne ti renderanno libero dalla condanna? Non sei forse tu quello che ha aperto le porte a Carlo e che è penetrato con lui ostilmente nel santo dei santi? Non sei forse tu che con i tuoi simili hai perduto questo giovane? Confessa, miserabile!” Avendo egli risposto: “Non posso negarlo”, il vescovo subito proseguendo disse: “Si deve dunque reintegrarti nella comunione affinché tu rida, miserabile, mentre il tuo signore piange?” Alla fine si decise che egli avrebbe potuto scegliere tra due pene: o essere degradato o essere vincolato da un anatema perpetuo. Dopo aver riflettuto a lungo, egli infine preferì essere degradato piuttosto che essere vincolato da un anatema perpetuo. E subito per ordine dei vescovi viene rivestito di abiti sacerdotali. Poi, mentre gli venivano tolti uno dopo l’altro senza alcuna pietà, ciascuno dei vescovi gli diceva: “Lascia la tua funzione.” Restituendogli soltanto la comunione dei laici lo sottomettono alla penitenza[175], e poi sciolgono il sinodo. Se poi qualcuno volesse conoscere più completamente quali canoni conciliari e quali decisioni dei Padri ciascuno di loro produsse durante il concilio, e che cosa sia stato da loro là stabilito, e che cosa sia stato indirizzato dai re e dai vescovi al pontefice romano, e con quali argomenti sia stata corroborata l’abdicazione di Arnolfo, che legga il libro[176] del signore Gerbert, uomo incomparabile, il successore di Arnolfo sul seggio episcopale, che, contenendo un’esposizione di tutti questi dibattimenti, per il fascino ammirevole dell’esposizione sostiene il confronto con l’eloquenza ciceroniana. L’opera, piena di obiezioni, di risposte, di requisitorie e di perorazioni, si invettive, di interpretazioni e di definizioni, espone, riassume e conclude assai chiaramente e logicamente. Risulta utilissimo a quelli che studiano non solo le cause sinodali, ma anche le regole della retorica.
[74.] LAMENTELA DI EUDE CON I SUOI PER LA PERDITA DI
MELUN.
Nel frattempo[177]
Eude cercava di accrescere i propri possedimenti. Perciò si preparava, con i
suoi uomini di cui conosceva l’indubitabile fedeltà, a far passare a città di
Melun[178]
sotto il suo potere, dicendo di essere molto sfortunato in quanto non gli si
apriva alcun passaggio sul fiume Senna per far transitare le proprie truppe,
per cui per gli era venuta l’idea di volgere alla sua parte Melun, che è molto
protetta, poiché la Senna scorre tutt’intorno, e accessibile, grazie ai suoi
due porti, anche perché gli erano già aperti diversi porti sulla Loira; e non
si doveva temere il delitto di spergiuro, poiché il luogo era stato in passato
posseduto da suo nonno[179] e
al momento esso non apparteneva al re ma a un altro[180]. Di
conseguenza Eude invitava tutti quelli che gli promettevano fedeltà ad
affrettarsi in tutti i modi possibili a farla passare sotto il suo dominio.
[75.] CORRUZIONE DEL COMANDANTE DI MELUN DA PARTE
DELL’INVIATO DI EUDE
Allora uno dei suoi uomini, recandosi dal comandante[181] del
posto, finge grandissima amicizia e gli promette grande fedeltà. E ben presto
ciò viene confermato con un giuramento reciproco. Interrogando il comandante
l’uomo gli domanda a chi la città apparteneva in passato. Quello non negò di
chi[182]
fosse. Questi replica: “In che modo è passata in potere del re?” Quello
prosegue dicendogli anche questo. E questi gli dice: “Perché si fa danno a Eude
che ha spesso reclamato che gli si restituisca questa città e perché essa è
oggi nelle mani di un uomo[183] che
gli è inferiore?” “Perché così è piaciuto al re” risponde. E questi dice “Ma tu
non credi che Dio venga offeso quando, dopo la morte di un padre, si spoglia
del suo patrimonio un pupillo senza risorse?” E quello dice “Sì. E non solo
questo, ma si causa anche la disperazione delle persone oneste. Chi infatti,
tra i grandi, è più potente di Eude? Chi è più degno di tutti gli onori?” E a
ciò questo asserisce: “Se tu consenti a passare sotto la dominazione di Eude,
non credi che tu ti eleverai a una maggiore potenza? Se tu fossi un suo uomo tu
otterresti senza dubbio le sue buone grazie, i suoi consigli e la sua
assistenza; invece di una sola città, tu ne possederesti diverse. Per cui la
fama del tuo nome si estenderebbe tanto più quanto più tu ti eleveresti al
culmine degli onori.” “Ma -gli dice quello- come credi tu che tutto ciò possa
effettuarsi senza colpa né disonore?” E questi gli dice: “Se tu ti consegni a
Eude con la città, qualunque delitto tu pensi ne possa nascere, divenga mio,
sia considerato mio; subisca io la pena e ne renda io ragione alla somma
Divinità. Pensa alla tua nobiltà; causa un aumento dei tuoi beni; è giunto il
tempo; le circostanze invitano a ciò, poiché il re è privo di gloria per
l’incapacità di regnare, e un successo sempre più ampio accompagna Eude.”
Quello desideroso delle cose promessegli chiede un giuramento. Questo lo
concede e chiede ostaggi per compiere l’impresa. Quello, ritenendo di poter
ottenere per sé molto onore, non tarda a dare gli ostaggi; questi avendoli
ricevuti li conduce a casa e riferisce tutte queste cose a Eude.
[76.] PRESA DI MELUN DA PARTE DI EUDE.
Egli consiglia a Eude di insistere nell’azione intrapresa.
Frattanto Eude prepara truppe di nascosto per penetrare nella città e
impadronirsene. Quando esse sono pronte, lanciato il suo attacco alla data
fissata, marcia sulla città e vi penetra; cattura il traditore con simulato
furore e lo chiude in carcere. Questi, rimesso in libertà poco dopo, s’impegna
pubblicamente con giuramento alla fedeltà e da quel momento si prepara a
resistere, d’accordo con Eude. Tutti questi avvenimenti vengono presto
riportati alle orecchie dei re. I re scossi dalla perdita della città preparano
truppe contro i nemici, proponendosi di non ritirarsi dall’assedio finché o
avendola espugnata la riprendano o, se la cosa lo richiede, confrontino col
nemico gli uomini e le armi.
[77.] ARRIVO DEI RE A MELUN.
E così avendo preparato le truppe essi si muovono per prendere
la città. E poiché era circondata dalla Senna che scorre intorno, essi
dispongono gli accampamenti vicino alla riva; dall’altra parte dispongono le
truppe dei Pirati[184]
venute in aiuto; e affinché l’assedio non fosse interrotto in qualche modo,
piazzano nel fiume tutt’intorno flotte armate. E così avvenne che, trascinati
sulla superficie del fiume, essi attaccarono duramente la città con un assalto
navale. Quelli della guarnigione, non inferiori, resistono agli assalitori;
combattono con tutte le forze; in nessun modo cedono agli avversari. Mentre
questi combattendo resistevano a lungo e non cedevano, i Pirati, dopo aver
demolito con la forza dei colpi una porta che era nascosta in basso,
penetrarono e, sopraggiungendo alle spalle di quelli che combattevano sul muro,
li assalirono con grande strage. E così avvenne che il resto dell’esercito, che
fino ad allora era rimasto sulla riva, fu portato dentro, appiedato, con le
navi e rapidamente invase la città.
[78.] LA GUARNIGIONE CATTURATA E’ CONSEGNATA AL RE
Fatti prigionieri e vinti, gli uomini della guarnigione
furono subito consegnati al re. Essendo stata fatta in loro favore una
perorazione al re da parte degli amici, essi furono rilasciati, dopo essersi
impegnati alla fedeltà al re, poiché furono riconosciuti non tanto colpevoli di
lesa maestà quanto fedeli al proprio signore; e asserivano di essere stati
indotti a ciò non per vizio di perfidia ma per grande correttezza. Quindi, dopo
che questi furono mandati via con impegno di ostaggi e dopo che la città fu
restituita al signore precedente[185], il
traditore[186],
per la cui colpa si produsse un infortunio di tal sorta, subito catturato, morì
per impiccagione presso la porta della città. E la moglie di lui, con un oltraggio
di genere inusitato, sospesa per i piedi e denudata degli abiti che le cadevano
tutt’intorno, perì di una non meno atroce fine accanto al marito.[187]
Mentre si compivano queste azioni, Eude con l’esercito non lontano attendeva lo
svolgersi degli avvenimenti, giudicando che la città potesse essere difesa dai
suoi contro i nemici, ma avendo qualche sospetto per gli inganni dei Pirati.
Mentre dunque titubava dubbioso a proposito degli avvenimenti, giunsero dei
nunzi che dichiararono che la città era presa, i suoi catturati e resi inermi.
Udito ciò, di malanimo ricondusse l’esercito a casa. E poiché da parte di
qualcuno in vena di lamentele gli si faceva notare che per causa sua un uomo di
dignità consolare era morto per impiccagione, si narra che Eude rispondesse che
era maggiormente danneggiato dalla cattura dei suoi che dall’impiccagione di un
traditore.
[79.] CONFLITTO TRA EUDE E FOLCO PER LA BRETAGNA.[188]
Non molto tempo dopo le guerre civili ricominciarono. E
infatti Folco[189],
che sosteneva la parte del re, preparava un’armata contro Eude per riprendergli
una parte della Bretagna che questi gli aveva sottratto non molto tempo prima.[190] E
così raccolse quattromila uomini, che non dovevano combattere corpo a corpo,
poiché le loro forze non sarebbero state sufficienti contro la potenza di Eude,
ma affliggere il suo territorio con incendi e saccheggi. E si proponeva di fare
ciò finché Eude o vinto dal tedio gli avesse reso i suoi possedimenti o gliene
avesse dati altri equivalenti in cambio. Pertanto si slanciò precipitosamente e
tormentò il territorio con saccheggi, ruberie e incendi. Mentre incendiava i
sobborghi di Blois poiché gli incendi si propagarono tutt’intorno per il vento
che soffiava, il fuoco raggiunse con violenza il convento dei monaci del santo
confessore Lomer[191]. Il
monastero fu ben presto consumato e distrutto. Anche i viveri furono
annientati, per cui ci fu anche un’emigrazione dei monaci. Compiute queste
distruzioni, Folco portò le proprie truppe verso altre regioni e le devastò.
Dopo la sua partenza, Eude a sua volta condusse l’esercito sulle sue terre
infierendo su queste tanto che non lasciò né una capanna né un gallo,
provocando il nemico e invitandolo a venire a battersi. Ma quello, che sapeva
che le proprie truppe erano insufficienti, indietreggiò davanti al provocatore
e rientrò nei suoi possedimenti. E ciò andò avanti per quasi due anni.
[80.] DISCORSO DEGLI AMBASCIATORI AL RE A PROPOSITO
DELL’INVASIONE DI MELUN
Nel frattempo[192]
Eude, spogliato della città perduta, adottò anche in questo una condotta molto
prudente. Infatti riteneva di poter essere afflitto da due calamità, poiché si
doleva amaramente per la perdita della città e poteva essere seriamente
pressato dal re irritato. Perciò inviò ambasciatori al re tramite i quali
supponeva di poter rendere ottimamente ragione di qualunque accusa; pretendendo
di non aver in alcun modo leso la maestà reale. Qualora si trattasse di Melun,
egli non aveva tentato nulla di male contro il re, poiché non al re l’aveva
tolta, ma al suo compagno d’armi[193];
non aveva fatto torto al re, poiché egli stesso era un suo uomo, esattamente
come quello cui l’aveva tolta; nulla importava, in relazione alla dignità del
re, chiunque la tenesse; del resto egli aveva agito per motivi legittimi,
poiché poteva dimostrare che la città era stata un tempo posseduta dai suoi
predecessori. Sembrava dunque che egli potesse tenerla più legittimamente di
chiunque altro. E infine era stato fatto qualcosa di illecito, era ricaduta su
di lui la punizione del disonore e un tale crimine era stato cancellato da una
pari ignominia. E perciò si poteva essere più facilmente indulgenti verso di
lui e perdonargli più ampiamente per la così grande ingiuria subita. Il re,
cogliendo la forza della perorazione, accorda soddisfazione agli ambasciatori e
comunica la sua benevolenza a colui che la chiede. Gli inviati comunicano ciò a
Eude. E così Eude si reca dal re. Avendo proficuamente perorato davanti a lui,
guadagnò le sue buone grazie, e fu tanto notevole per la cortesia che essi
rinnovarono l’antica amicizia ed egli non era in alcun modo sospettato dal re.[194]
[81.] GUERRA TRA EUDE E FOLCO PER LA BRETAGNA.
Nella stessa epoca ripresero le guerre civili.[195]
Infatti Folco, spogliato di una parte della Bretagna, tentava ancora di
preparare insidie; avendo radunato un’armata, si slancia precipitosamente sulla
Bretagna e si dirige su Nantes.[196] In
parte corruppe i suoi guardiani con l’oro, in parte li allettò con certe
promesse, e li convinse fino al risultato che lo soddisfaceva, cioè ad aprirgli
le porte della città. Convinti da un giuramento, essi fissano la data e non
molto tempo dopo lo introducono nella città. Una volta entrato la occupò e
ricevette dagli abitanti ostaggi a garanzia di un giuramento. Soltanto non
riuscì a espugnare la fortezza[197],
poiché era tenuta da soldati valorosi. E perciò vi rinunciò, decidendo di
ritirarsi per ritornare, avendo raccolto truppe più numerose, ed espugnare la
fortezza.
[82.] Conan[198]
teneva un consiglio di guerra con i suoi nella regione estrema della Bretagna
che è chiamata Broerec[199],
quando questi fatti furono riportati alle sue orecchie. Insistendo maggiormente
nell’attività iniziata, raccoglie un esercito, e lo prepara ad affrontare la
guerra. E poiché il tempo spingeva a intraprendere l’assedio[200],
raccolto l’esercito lo conduce verso la città e gli ordina l’assedio da un lato
dalla parte della terra. Sull’altro lato invece dalla parte della Loira si
serve della flotta dei Pirati. Dunque avendo disposto l’assedio da tutte le
parti, i cittadini sono fortemente pressati dai Pirati dal lato del fiume, dai
Bretoni dal lato della terra. Non da meno erano quelli che erano rimasti nella
fortezza, dall’alto lanciavano ogni genere di proiettili: e quelli che erano in
mezzo erano tormentati in ugual misura dall’assalto di quelli che erano sopra e
di quelli che erano in basso. Infatti i combattenti nella fortezza e gli
assedianti difendevano gli interessi di Conan, invece i cittadini davano il
loro impegno per la vittoria di Folco.[201]
Folco preparava truppe in misura non minore, e radunava un esercito tanto di
suoi fedeli quanto di mercenari[202].
Avendo udito che Conan aveva posto l’assedio alla città, subito conduce una
legione in Bretagna.[203]
[83.] INGANNO PREPARATO CONTRO FOLCO
C’era un campo non molto lontano, grande per la sua
lunghezza e larghezza, che era occupato da un grandissimo felceto. Conan,
stabilendo qui il luogo per condurre il combattimento[204],
predispose inganni di trabocchetti. Infatti allagando là numerose fosse, coprì
poi superiormente i loro buchi con rami, frasche e paglia, avendo fissato
all’interno delle stecche che reggevano ciò che c’era sopra e simulavano la
solidità della superficie E affinché la superficie simulata fosse interamente
nascosta vi fece spargere sopra la felce raccolta e dissimulò i trabocchetti.[205]
[84.] INGANNO DI CONAN CONTRO I NEMICI
Egli stesso, schierando l’esercito dopo aver disposto le
insidie fece uso dell’inganno dicendo che sarebbe rimasto in quel luogo e non
avrebbe ulteriormente cercato i nemici; se i nemici l’avessero attaccato, là
soltanto avrebbe difeso la vita; e non avrebbe fatto ciò per paura, ma affinché
i nemici, se lo avessero cercato e attaccato, facessero ciò contro giustizia.
Così infatti la loro rovina avrebbe potuto giungere più facilmente, se avessero
per la propria avventatezza aggredito chi era quieto e innocuo. E così schierò
in quel luogo l’esercito, avendo davanti a sé i trabocchetti. Dunque stava
fermo e aspettava i nemici pronto a riceverli. Folco, vedendo Conan che stava
fermo e non aveva intenzione di uscire da quel luogo, non sapendo dei
trabocchetti, convinceva i suoi con molte esortazioni affinché facessero un
forte e unanime assalto, e non esitassero ad aggredire i nemici; non avessero
dubbi sulla vittoria, poiché a loro non mancava una grandissima speranza nelle
proprie forze, se la Divinità non si fosse dimostrata avversa. E così dato il
segnale si slanciano. E, giudicando il terreno solido, senza esitazione si
avvicinano alle fosse.
[85.] CADUTA DEI NEMICI PER L’OPERA DI CONAN.
Mentre credevano i Bretoni trattenuti dalla paura,
difendendosi dalle frecce si gettano verso i fossati; caduti con i cavalli vi
annegano e disorientati dalla cieca rovina circa ventimila furono annegati e
schiacciati. Ma l’esercito che stava dietro, essendo caduto quello davanti,
volse le terga. Per cui anche Folco, preoccupandosi soltanto della vita,
cercava di salvarsi con la fuga.
[86.] UCCISIONE DI CONAN.
Mentre quello si dava alla fuga, nel frattempo Conan si
ritirò in una macchia con tre dei suoi[206], e
deposte le armi mitigava all’aria il calore del corpo. Uno degli avversari
avendolo visto, assalendolo con impeto lo trafisse con la spada, e strappò la
vittoria per Folco. Folco, ripreso coraggio, si diresse di nuovo verso Nantes e
vi entrò, tormentando duramente quelli che erano nella fortezza. Costoro,
privati del principe, quasi esanimi, cedono all’assalitore e di ciò richiesti
si impegnano alla fedeltà.
[87.] RIPUDIO DELLA REGINA SUSANNA DA PARTE DEL RE
ROBERTO.
Mentre si svolgevano questi avvenimenti il re Roberto, che,
nel proprio diciannovesimo anno, si trovava nel fiore della giovinezza, ripudiò
col divorzio, perché era vecchia, la sua sposa Susanna[207], di
razza italiana. Costei, ripudiata, poiché voleva riprendere ciò che aveva
ricevuto in dote, e poiché il re non glielo consentiva, volse l’animo ad altro.
E a partire da quel giorno ella tese degli inganni al re per recuperare i
propri beni. Ella voleva, in effetti, rientrare in possesso del castello di
Montreuil[208],
che ella aveva ricevuto in dote e, non potendo riuscirci, ella ne fece
costruire un altro accanto a quello, chiamato …, mentre il re era occupato
dalle malefatte di Eude e di Folco. Ella pensava che avrebbe potuto arrestare
da questa fortezza tutti i convogli di navi; poiché questi arrivando si
presentavano a lei, era perciò possibile impedir loro di passare oltre.
[88.] CONDANNA DEL RIPUDIO
Lo scandalo di questo ripudio fu a quel tempo vivamente
criticato da qualche persona di sentimenti particolarmente delicati[209], ma
di nascosto, e non fu biasimato con manifesta opposizione.
[89.] SINODO TENUTO A CHELLES
In quei giorni, poiché la deposizione di Arnolfo e l’elevazione di Gerbert erano state criticate dal papa di Roma B.[210] in molte lettere da lui scritte e poiché i vescovi autori di queste misure, insieme agli altri che avevano collaborato, erano stati redarguiti con diversi rimproveri, parve opportuno ai vescovi di Gallia riunirsi insieme e deliberare su questa critica. Essendosi riuniti a Chelles[211], si tenne un sinodo. Il re Roberto lo presiedette, e vi sedettero i metropolitani, Gerbert di Reims, cui fu affidata la direzione della discussione di tutte le cause sinodali, e Seguin di Sens, Archambaud[212] di Tours, Daiberto di Bourges, e diversi altri dei loro suffraganei. In quella sede. dopo aver promulgato dei regolamenti di interesse per la Santa Chiesa sulla base dei decreti dei Padri, tra diverse altre utili risoluzioni parve opportuno stabilire e suffragare che da quel giorno avrebbero pensato le stesse cose, voluto le stesse cose e operato insieme per gli stessi fini, secondo ciò che sta scritto: Avevano un solo cuore e una sola anima.[213] E vollero anche decretare ciò, che se si fosse prodotto in una qualche chiesa un qualunque abuso che paresse meritare di essere colpito dalle frecce dell’anatema, ne avrebbero deliberato tutti insieme in primo luogo, per rimediarvi così con un decreto comune. E quelli che meritavano di essere liberati da un anatema, ugualmente dovevano essere liberati con un decreto comune, secondo ciò che sta scritto: Domanda consiglio al saggio.[214] Parve anche opportuno che fosse stabilito che se dal papa romano fosse stato proposto qualcosa in contrasto con i decreti dei Padri, ciò diventasse nullo e senza effetto, secondo ciò che l’apostolo dice: Evita del tutto l’uomo eretico e dissenziente dalla chiesa.[215] Parve non meno opportuno che fossero irrevocabilmente sancite la decadenza di Arnolfo e l’elevazione di Gerbert, così come erano state da loro ordinate e portate a affetto. Secondo ciò che si trova scritto nei canoni: Ciò che è stato stabilito da un sinodo provinciale non può essere annullato avventatamente da nessuno.
[90.] SCONTRO TRA EUDE E FOLCO
In quest’epoca ricominciarono le guerre civili.[216]
Poiché infatti era ripresa la lotta di Eude e di Folco per il possesso della
Bretagna in seguito agli intrighi di questi due tiranni, e poiché quelli non
andavano d’accordo tutti gli altri grandi del reame, coinvolti, si trovarono in
discordia. Il re sosteneva il partito di Folco; Eude aveva l’appoggio dei propri
fedeli, dei Pirati che, abbandonato il re, erano passati a lui, e degli
Aquitani[217].
E perciò Folco, gettandosi su Eude, devasta le sue terre, poi vi costruisce non
lontano dalla città di Tours una cittadella[218] e
la fortifica; vi piazza una guarnigione; la riempie di soldati e, prevedendo
che Eude verrà per distruggerla, va a trovare il re per implorare dei soccorsi.
Poiché il re gli promise il proprio aiuto, egli era spinto da un animo ancor
più risoluto. Prepara delle truppe per combattere contro il nemico, riunisce
un’armata e dichiara la guerra a Eude. Eude, ferito nell’onore, domanda
rinforzi ai Galli Belgi e promette loro, se verranno, di ricompensarli per la
loro buona volontà. Essi accettano di buon cuore e giurano fedeltà. Parimenti
fece appello ai Fiamminghi[219] e
chiese da loro assistenza, promettendo reciprocità se essi non rifiuteranno ciò
che chiede. Anch’essi accolgono di buon grado le richieste. Mandando inviati
anche ai Pirati, li supplica di non rifiutargli delle forze. Per tutti si
fissano l’epoca e il luogo in cui, raccoltisi, si recheranno insieme. Nel
frattempo Eude modera le proprie truppe, le raccoglie e le incita; e valutando
che i Belgi e i Pirati arriveranno in tempo si getta contro Folco con pochi dei
suoi con una tale fretta che non aveva più di quattromila uomini quando
ingaggiò la lotta. Tuttavia pone l’assedio[220] al
castello e dispone i propri guerrieri; attacca vigorosamente la guarnigione.
[91.] SUPPLICA DI FOLCO A EUDE MEDIANTE AMBASCIATORI
Convinto che il re, che era in ritardo, non sarebbe venuto
in suo soccorso e che l’armata di Eude non fosse sostenibile, Folco subito si
dispose a un contegno più moderato. E così tramite inviati sollecita l’amicizia
di Eude; gli fa sapere che è disposto a versare cento libbre d’argento per l’uccisione
di Conan; propone che il proprio figlio[221]
combatta per lui al posto del vassallo ucciso; S’impegna a demolire il castello
costruito nel suo feudo e a farlo evacuare dai suoi; andrebbe anche egli stesso
a porsi spontaneamente al suo servizio se ciò non fosse un’ingiuria per il re.
Poiché ciò non si poteva fare senza offesa per il re, avrebbe prestato omaggio
al figlio[222]
di lui, cosicché egli stesso con il proprio figlio l’avrebbe servito, in quanto
avrebbe dato il proprio figlio a Eude al posto di Conan, e si sarebbe legato
come vassallo al figlio di Eude; era anche disposto a prestare omaggio con
giuramento contro la causa di tutti[223] a
eccezione del re e di quelli ai quali era più fortemente legato a causa di una
parentela stretta, come un figlio, un fratello o dei nipoti[224].
Quando ebbe conoscenza di queste proposte Eude dopo aver preso consiglio dai
suoi fedeli fece sapere che le avrebbe accettate assai volentieri se egli
avesse restituito e fatto evacuare dai suoi Nantes, città di Bretagna, che era
stata presa a tradimento. Gli sarebbe infatti parso ingiusto se non avesse
ripreso in primo luogo i beni sottrattigli e se avesse fatto pace con il nemico
senza che fossero restituiti.
[92.] RINUNCIA ALLA SUPPLICA DA PARTE DI FOLCO.
Mentre si svolgevano questi fatti e mentre Eude giudicava
che la propria armata si stesse accrescendo poco a poco, prima che egli avesse
le forze necessarie per ingaggiare la lotta il re arrivò con dodicimila uomini,
mentre seimila dei suoi erano al fianco di Folco. Quando essi furono congiunti,
fu messa insieme una grande armata di soldati. E perciò Folco, fattosi più
arrogante, spregia le proposte che aveva fatto in precedenza supplicando;
Spinge febbrilmente affinché si faccia la guerra, ed esorta e sollecita ad
attraversare i guadi della Loira che scorre tra di loro e ad attaccare il
nemico. Eude, accorgendosi che i suoi alleati non arrivavano come gli avevano
promesso, poiché la brevità di quel tempo non era sufficiente a raccogliere le
armate, era afflitto da un grande turbamento d’animo. Tuttavia, resistendo con
quattromila uomini, rendeva inaccessibili i guadi della Loira.
[93.] Essendogli impedito il transito del guado, il
re riporta l’armata al castello d’Amboise[225],
che si elevava non lontano in mezzo alle rocce sulla stessa riva[226] del
fiume, così che, passando là il fiume e dopo un movimento obliquo, egli possa
arrivare all’improvviso alle spalle dei nemici e assalirli. Eude, non potendo
reggere l’esercito del re, gli invia ambasciatori: mandandogli a dire che ha
assalito il proprio nemico, non il re, e che non ha intenzione di tramare nulla
contro il re, ma contro il nemico. Se il re lo ordina, egli subito gli andrà
incontro e gli darà soddisfazione su ogni cosa. Il re, riflettendo sulle
conseguenze dell’affare, sospettava di quest’uomo così potente, che egli aveva
offeso senza motivo. Così, per impedire che Eude lo abbandonasse completamente,
accettò da lui degli ostaggi accordandogli una tregua; intenzionato ad
ascoltare in seguito la spiegazione di tutto ciò che gli avrebbe esposto. E
perciò egli, conducendo indietro l’armata, ritornò a Parigi. Da parte sua, Eude
indenne si recò a Meaux con i suoi senza aver perso nulla.
[94.] MORTE DI EUDE.
Da là, dopo non molti giorni, si diresse verso il castello chiamato Châteaudun[227] per curare i propri affari. Dunque mentre Eude deliberava con ampie consultazioni riguardo ai suoi fedeli che aveva lasciato al re come ostaggi stabilendo la tregua, afflitto da un eccesso di umori a causa del cambiamento del tempo, contrasse la malattia che dai medici è detta angina; poiché questa ha sede nell’interno della gola e poiché risulta da una infiammazione reumatica, provoca talvolta alle mascelle e alle gote, talvolta al torace e ai polmoni dei gonfiori che s’accompagnano a vivi dolori. E poiché questi si gonfiano e bruciano essa uccide il paziente entro tre giorni, non compreso il giorno dell’inizio. Eude dunque, essendo stato colpito da questo male, soffriva in tutta la gola per dolori intollerabili; la febbre arteriosa causava l’impedimento della parola. Un dolore di tal fatta non raggiunse però la parte superiore della testa, ma attaccandosi ai precordi tormentava con un dolore acuto il polmone e il fegato. Pertanto si ebbero il lutto dei vassalli, le grida dei servitori, i frequenti urli delle donne, in quanto essi perdevano improvvisamente il loro signore e ai suoi figli non veniva lasciata alcuna speranza di esercitare il potere, poiché i re persistevano nella loro irritazione contro il padre e Folco, per la sua arroganza, turbava la pace in molti modi. Egli tuttavia, essendo in procinto di soccombere, inviò degli ambasciatori veloci ai re che supplichevoli pregassero convincentemente in suo favore e che promettessero un’assai equa compensazione per i torti fatti. Il vecchio re, che era disposto ad accettare dagli inviati la riparazione dei danni, ne fu impedito da suo figlio indignato. Per cui respinse del tutto l’offerta degli inviati e li obbligò a rientrare senza risultati. Poiché essi fecero ritardo lungo la strada Eude, che s’era fatto monaco[228], spirò[229] e così giunse alla fine della vita prima che ritornassero, nel quarto giorno dopo che era iniziata l’angina: e così terminò la sua esistenza; fu trasportato a Saint-Martin[230] e fu sepolto con molte onoranze da parte dei suoi nel luogo che è detto Marmoutier[231].
[95.] IL PAPA GIOVANNI MANDA L’ABATE LEONE IN GALLIA
PER DISCUTERE L’ABDICAZIONE DI ARNOLFO.
Alla stessa epoca poiché da parte dei vescovi dei Germani era stato
insistentemente suggerito tramite lettere al signor papa Giovanni[232] di
annullare l’elezione di Gerbert, metropolita di Reims, e di condannare come
effettuata illegalmente la deposizione di Arnolfo, fu allora inviato dal papa
in Germania[233]
Leone[234],
monaco e abate, il quale,
avendo la delega del papa, facesse un’inchiesta sull’affare, insieme ai vescovi di
Germania e delle Gallie, e pronunciasse in seguito un giudizio meditato. Egli,
accolto[235]
con molti riguardi dai vescovi[236],
s’intrattenne con loro in merito alla necessità di convocare un sinodo a proposito
di questo affare. Furono da loro inviati ambasciatori ai re dei Galli, cioè a Ugo e a suo figlio Roberto, per
far loro conoscere l’ordine del papa, così come la volontà dei vescovi a questo
proposito, e per convincerli con ragionamenti a riunirsi, insieme ai loro
vescovi; inoltre per domandare il luogo e la data in cui ci si doveva riunire e
per riferire dei loro sentimenti riguardo a ciò.
[96.] VIENE ANNUNCIATO AI RE CHE I VESCOVI DI
GERMANIA SI RIUNIRANNO IN SINODO
Furono inviati dunque gli ambasciatori, e l’ambasciata fu
riferita. I re, avendola ricevuta con molta serenità, non obiettarono nulla sul
momento alle disposizioni del papa e dei vescovi, rispondendo che avrebbero
domandato consiglio su questo argomento e che su tutti i punti avrebbero reso
giustizia. Ma una volta che gli inviati furono partiti da qualcuno fu suggerito
ai re che ciò era stato ordito con
l’inganno da Adalbéron vescovo di Laon; che egli aveva macchinato tutto da
molto tempo con Eude; che tutti e due avevano per obiettivo di introdurre il re
Ottone[237]
nelle Gallie e di espellere i re con l’astuzia e la forza; che i vescovi di
Germania si riunivano per portare a compimento il complotto progettato. E così i re, riconosciuto il tradimento,
tramite ambasciatori notificarono ai vescovi, che erano già riuniti nel luogo
designato[238],
che essi non vi si sarebbero recati, poiché non avevano presso di loro i loro
grandi, senza il consiglio dei quali essi non pareva opportuno né decidere né
respingere nulla; che del resto a loro pareva indegno sottomettere alla censura
dei vescovi di Germania i loro propri vescovi, che non erano né meno nobili né
meno potenti e che erano sapienti quanto o anche più di loro. Se quelli dunque avevano bisogno, che venissero in
Gallia per dire ciò che volevano; che essi in caso contrario tornassero a casa
per regolare i propri affari come credevano. Così il loro progetto si rivolse
al contrario. Infatti poiché
Adalbéron,
che si era offerto come loro agente, ignorando la denuncia consigliava al re di
unirsi a quelli che si incontravano, il vecchio re, non ignaro delle sue
perfidie, gli chiese indietro Ludovico[239]
figlio di Carlo, che aveva affidato a lui perché lo custodisse, avendolo catturato durante la presa di Laon.
Gli chiese indietro anche la torre della medesima città, che gli aveva
similmente affidato.
[97.] ADALBÉRON CAUSA DI TUTTO L’INGANNO VIENE
RIMPROVERATO
Avendo costui rifiutato di restituire ciò che gli era stato
affidato, i consiglieri del re replicarono con indignazione: “Come mai tu,
vescovo, dopo aver tramato con il re Ottone e il tiranno Eude a danno dei re e
dei principi, non ti vergogni di inventare qui davanti ai re tuoi signori cose
così eclatanti? Perché temi di restituire Ludovico e la torre se non dubiti di
aver mantenuto la fedeltà ai re? Che cosa
significa il non voler rendere ciò che ti è stato affidato, se non che tu
prepari contro i re azioni a loro danno? Evidentemente tu hai violato la tua
fedeltà quando hai complottato con Ottone per l’eliminazione dei re e hai
tentato di minare il loro potere. Quindi sei coinvolto anche nel reato di
spergiuro. Tu hai anche inviato al re Ottone un messaggio come se fosse stato
mandato da loro e tu hai complottato perfidamente con lui perché arrivi con
pochi uomini[240],
ma facendo appostare non lontano una moltitudine di truppe. Tu hai anche
consigliato ai nostri re di andare davanti all’avversario con pochi uomini e tu
hai promesso che non gliene sarebbe venuto alcun male. Tu hai anche detto che
questo colloquio sarebbe stato molto utile alle due parti, fingendo che essi
dovessero intrattenersi nell’intimità sugli affari pubblici e personali. Ma in
verità avevi altro in mente,
perché usavi ciò come pretesto per far
catturare i re tuoi signori dal re Ottone e trasferire il regno dei Franchi
sotto la sua dominazione, cosicché tu potessi diventare
arcivescovo di Reims e Eude duca dei Franchi. Ciò è stato da noi ora completamente scoperto, ma è stato
impedito in tempo. O misericordia ineffabile della Divinità suprema, a quali
dolori siamo sfuggiti, a quale disonore ci siamo sottratti! È giunto il momento in cui i complotti
tramati dovevano produrre il loro effetto. E in effetti con il pretesto di
trattare affari religiosi, di fare un’inchiesta sull’elevazione e la
deposizione dei vescovi Gerbert e Arnolfo, i vescovi arrivano, preceduti da
inviati. Anche il re Ottone è a Metz[241] e
non lontano da lui, si dice, è raccolta un’armata. Se dunque noi andiamo là, o
combatteremo o saremo catturati. Se poi non andiamo, ci si accuserà di spergiuro.
Ma non bisogna che i re vadano perché non hanno sufficiente abbondanza di
truppe. Ma su di te ricadrà il crimine di spergiuro, poiché tu solo hai
prestato il giuramento all’insaputa dei re.”
[98.] A ciò il
vescovo arrossendo tacque. Vedendolo atterrato da queste parole, uno dei suoi
si levò per rispondere contro di esse, e si rivolse così all’interlocutore: “Che colui che ha
lanciato tutte queste accuse si rivolga a me; io sono qui per sostenere la
causa in favore dell’accusato; che uno soltanto affermi queste cose; che
opponga la sua testa alla mia, che incroci le sue armi con le mie armi e misuri
le sue forze con le mie forze.” A costui, che smaniava e si riscaldava in
favore del proprio signore, il conte Landerico[242] si
rivolse così: “Ottimo vassallo, tu sei del tutto ignaro di questi complotti,
come vedo. E tuttavia, malgrado la tua ignoranza, le cose sono state portate
avanti così come è stato detto. Calmati dunque; modera il tuo ardore; non
importi l’obbligo di un duello; non spingerti dove non potrai uscire una volta
che tu ci sia entrato. Ma ora seguendo il mio consiglio allontanati un poco e
interroga il tuo signore su queste cose, se per caso siano vere. Se egli ti
invita al combattimento, combatti. Se egli ti dice di astenerti, risparmiati il
furore.” L’uomo allora si appartò, e chiamato il suo signore e gli chiese se le
cose si erano svolte in quel modo. Il vescovo, sentendosi coinvolto da un
testimone, confessò a quello che lo
interrogava che le cose stavano così,
e quindi impedì il duello. E così
quando la
grande collera del cavaliere si fu calmata, l’affare divenne del tutto noto. Il
vescovo dunque, arrestato per ordine dei re fu messo sotto custodia come
traditore[243];
i suoi vassalli si sottomisero ai re con un giuramento.
[99.] IL SINODO CHE VIENE TENUTO A MOUZON IN FAVORE
DI ARNOLFO.[244]
Mentre avvenivano questi fatti, poiché i re avevano proibito
ai vescovi di Gallia di recarsi al sinodo progettato, i vescovi di Germania,
per non essere accusati di dolo se non si fossero presentati, si recarono a
Mouzon all’epoca fissata[245],
avendo con loro l’inviato del papa. Riuniti dunque nella basilica di Maria
Santa Madre di Dio si sedettero nell’ordine, secondo il costume ecclesiastico,
e cioè Suger[246] di
Münster, Liudolfo[247] di
Treviri, Notker[248] di
Liegi e Aimone[249] di
Verdun. In mezzo a loro sedette l’abate Leone, e fece le veci del signor papa.
Di fronte a loro sedette anche Gerbert, arcivescovo di Reims che, solo fra i
vescovi delle Gallie, si era presentato anche se i re l’avevano vietato, pronto
a rispondere in proprio favore dalla parte opposta. Si era seduto dal lato
opposto, pronto a rispondere in proprio favore. Sedettero insieme anche gli
abati di diversi monasteri, e numerosi chierici e anche dei laici, il conte
Goffredo[250]
con i suoi due figli[251] e
Reginaro[252]
vicedomino di Reims.
[100.] PROLUSIONE DI AIMONE DI VERDUN SULLA CAUSA DEL
SINODO.[253]
Mentre tutti quanti intorno tacevano il vescovo di Verdun,
che conosceva la lingua francese[254], si
alzò per esporre l’oggetto del sinodo, dicendo: “Poiché è spesso stato
riportato alle orecchie del signor papa che la metropoli di Reims è stata
invasa e privata del suo pastore, contrariamente al diritto e alla giustizia,
egli ha suggerito tramite lettere non una volta, ma due, che dopo esserci
riuniti insieme esaminassimo questa grave infrazione con equità e imparzialità
e, avendola noi corretta sulla base della sua autorità, riportassimo la
situazione alla norma. Ma poiché, impedendolo una varietà di circostanze, abbiamo rinviato di farlo, egli ha voluto
ora, dopo tanti avvertimenti, inviare questo signor abate e monaco Leone per
sostituirlo e regolare l’affare ora ricordato con noi che gli obbediamo. Ci ha
fatto pervenire inoltre per mezzo suo un testo scritto della sua volontà, cosicché, se si trascurasse
qualcosa per dimenticanza, venisse richiamato dallo scritto. E’ utile al
presente udire ciò. “ E subito produsse lo scritto e lo lesse per le orecchie
dei convenuti; poiché noi cerchiamo di essere brevi e questo era per noi meno
interessante abbiamo evitato di inserirlo nei nostri scritti.[255]
[101.] DISCORSO DI GERBERT PRONUNCIATO IN CONCILIO IN
PROPRIO FAVORE.[256]
Dopo la lettura di questo, Gerbert si alzò e subito lesse in
concilio la perorazione scritta in proprio favore; e perorò con quelli in modo
assai soddisfacente. Ma ci piacque inserirla qui perché essendo ricca di
argomentazioni procura al lettore grande utilità; il suo testo è di tal fatta :[257]
[102.] ESORDIO
“Sempre invero, reverendissimi padri, ho avuto questo giorno
davanti agli occhi, e ad esso mi sono rivolto con speranza ed auspicio, da
quando incitato dai miei fratelli ho assunto quest’onere del sacerdozio non
senza pericolo per la mia testa. Di tanto conto era per me la salvezza di un
popolo che periva, di tanto conto la vostra autorità, dalla quale ritenevo di
essere protetto. Mi ricordavo dei benefici passati, della dolce e affabile
benevolenza vostra, alla quale insieme a grandi lodi dei presenti ero stato
spesso abituato, quando ecco un improvviso rumore insinua che voi siete offesi,
e s’affanna ad attribuire a malizia ciò che per gli altri risultava compiuto
per grande virtù. Inorridii, lo affermo, e posposi le spade che prima paventavo
alla vostra indignazione. Ora che la Divinità propizia mi ha portato davanti a
quelli cui sempre affidai la mia salvezza, riporterò poche cose riguardo alla
mia innocenza ed esporrò sulla base di quale considerazione io sia stato messo
a capo della città di Reims. Io in effetti dopo la morte del divino augusto
Ottone[258],
avendo deciso di non allontanarmi dal servizio del beato padre mio Adalbéron, a
mia insaputa fui da lui stesso predestinato al sacerdozio e nell’occasione
della sua dipartita al Signore fui designato futuro pastore della chiesa alla
presenza di uomini illustri. Ma l’eresia simoniaca, trovando me fermo nella
saldezza di Pietro, mi respinse e preferì Arnolfo. Al quale tuttavia prestai
fedele ossequio più di quanto sarebbe stato necessario, finché comprendendo
palesemente che secondo molti e secondo me egli stava tradendo, inviatogli un
atto di ripudio lo abbandonai[259] con
tutti i suoi compagni di tradimento; non con la speranza, né con l’accordo di
impadronirmi della sua dignità, come dicono i miei rivali, ma atterrito dalle
azioni mostruose nell’immagine dell’uomo che si nascondeva. Non per questo
motivo, io dico, lo abbandonai, ma per non incorrere in quella profezia: Offri
aiuto all’empio, e ti unisci in amicizia a coloro che mi odiano, e per questo
motivo in verità ti sei meritato l’ira del Signore.[260]
In seguito essendo state disposte per un lungo intervallo di tempo le sanzioni
ecclesiastiche, trascorso il perentorio termine di legge, non restando
nient’altro se non che egli fosse costretto dalla potestà giudiziaria del
principe e rimosso come sedizioso e ribelle dalla cattedra principale, secondo
la legge del concilio Africano[261], di
nuovo fui convocato e sollecitato dai miei fratelli e dai grandi del regno
affinché, espulso il traditore, assumessi la cura di un popolo diviso e
dilaniato[262].
Cosa che invero differii a lungo, e poi accettai non certo spontaneamente,
poiché compresi quale genere di tormenti mi avrebbero in ogni modo
accompagnato. Questa è la semplicità dei miei percorsi, questa la purezza
dell’innocenza, e in tutte queste vicende davanti a Dio e a voi sacerdoti sta
una coscienza pulita.”
[103.] DIVISIONE
“Ma ecco dalla parte opposta arriva un calunniatore; parla
compiacendosi con novità di espressioni, affinché sia maggiore l’astio: Hai
tradito il tuo signore, l’hai assoggettato al carcere, hai rapito la sua sposa,
hai invaso la sua sede!”
[104.] SVILUPPO SUCCESSIVO DELLA DIFESA E DELL’ACCUSA
“Ma perché mai io avrei per signore uno di
cui mai fui servo, e al quale mai prestai alcun genere di giuramento? E se in
effetti per qualche tempo sono stato al suo servizio, ottenne ciò l’ordine del
padre mio Adalbéron, che mi impose di restare nella chiesa di Reims fino a
quando avessi potuto riconoscere i costumi e le azioni del pontefice in essa
consacrato. Mentre sto facendo ciò, divento preda dei nemici, e ciò che la
vostra munificenza e la chiara ed eminente generosità dei grandi duchi mi aveva
conferito, la violenta mano dei predoni mi portò via e si dolse che io
pressoché nudo fossi sottratto alle loro spade. Infine dopo che ebbi
abbandonato quel traditore non seguii le sue vie e i suoi percorsi, e non
comunicai con lui in qualsivoglia modo. In che modo dunque lo tradii, io che
ignoravo dove egli fosse in quel tempo?[263] Ma nemmeno lo consegnai
al carcere, io che ora di recente in presenza di testimoni fedeli mi recai dal
mio signore affinché per riguardo a me egli neppure per un momento fosse
trattenuto in alcuna custodia. Se in effetti la vostra autorità stesse in mio
favore, Arnolfo sarebbe così tanto svilito che a ben poco gli servirebbe opporsi
a me. Mentre se la vostra sentenza risultasse contraria a me, cosa che spero
non accada, che cosa potrebbe interessarmi se Arnolfo o un altro fosse
stabilito come vescovo di Reims? Già ciò che si dice della sposa rapita e della
sede invasa è ridicolo. Dico infatti in primo luogo che non è mai stata sua
sposa, quella che in cambio del dono legittimo di una dote spirituale egli
spogliò dei benefici raccolti in precedenza, squarciò e dilaniò. Non era ancora
stato insignito dell’anello sacerdotale e già i seguaci di Simone avevano
saccheggiato tutto ciò che risultava essere appartenuto alla cosiddetta sposa.
Dico anche che, se si concedesse che in qualche modo essa fosse la sua sposa,
essa ha cessato del tutto di esserlo dopo che egli l’ha umiliata avendola insozzata,
violata e, per così dire, prostituita ai suoi predoni. Ho dunque forse rapito
la sua sposa, quella che egli o non ebbe, o per il proprio delitto perdette?
Come potei poi invadere la sede, ricca di una moltitudine di abitanti, io
straniero e pellegrino, non dotato di nessuna ricchezza? Ma forse la sede
apostolica si oppone a noi in quanto questo caso importantissimo è stato
discusso senza che essa sia stata consultata, per ignoranza o per arroganza. Di
certo nulla fu fatto o deciso di fare che non venisse riferito alla sede
apostolica, e la sua sentenza fu attesa per diciotto mesi.[264] Ma quando da parte degli
uomini non viene presa una decisione si ricorre alla suprema parola del figlio
di Dio: Se il tuo occhio, dice, ti scandalizza[265]
e ciò che segue. E stabilisce che il fratello che pecca, che è stato ammonito
davanti a testimoni e davanti alla chiesa, e che non dà ascolto, deve essere
trattato come un pagano e un pubblicano.[266]
Dunque Arnolfo, convocato, e ammonito da lettere e da inviati dei vescovi
della Gallia affinché desistesse dalla follia intrapresa e, se ne era capace,
purgasse se stesso in un qualunque modo dal delitto che lo perdeva, poiché
disprezza gli ammonimenti salvifici,viene trattato come pagano e pubblicano. E
tuttavia non viene per questo motivo giudicato come pagano, per reverenza alla
sede apostolica e per i privilegi del sacro sacerdozio, ma da se stesso viene
pronunciata contro se stesso la sentenza di condanna; questa sola cosa in tutta
la sua vita si giudicò che egli conducesse in modo eccellente; poiché
certamente, se i vescovi l’avessero assolto mentre egli condannava se stesso,
sarebbero incorsi nella pena per il suo crimine: Se, dice il papa Leone
Magno[267],
tutti i sacerdoti e il mondo approvano quelli che devono essere condannati, la
condanna coinvolge i consenzienti, e il consenso non assolve la prevaricazione.
In effetti il Dio di tutti indicò ciò, annientando il mondo che peccava con il
diluvio universale.[268]
E papa Gelasio[269]: L’errore che è
condannato una volta con il suo autore, causa la sua esecrazione e la pena in
chiunque è fatto partecipe della malvagia comunione.[270]
E così quando quello fu escluso dalla chiesa di Reims, a me riluttante e
molto timoroso di ciò che ho patito e finora patisco, fu imposto dai miei
fratelli vescovi delle Gallie quest’onere del sacerdozio con l’invocazione del
nome divino. E se per caso in qualche modo si è deviato dalle sacre leggi, non
la malizia ma la necessità dei tempi comportò ciò. D’altronde in tempo di
guerra garantire ogni diritto e ogni legittimità che altro è se non perdere la
patria e portare la rovina? In verità tacciono le leggi tra le armi; delle
quali quella feroce bestia di Eude ha abusato al punto di impadronirsi di
reverendissimi sacerdoti di Dio come di vili schiavi, da non rispettare nemmeno
gli stessi sacrosanti altari, da interrompere i convogli pubblici.”
[105.] EPILOGO
“Ritorno a me, padri reverendissimi, sul quale specialmente
per la salvezza di un popolo che periva e per la cura di tutta la cosa pubblica
si scatenò con tutte le sue forze una morte furibonda. Qui una miseria
terribile s’impadronisce a mano armata dei granai e delle botteghe; là
esternamente la spada e internamente la paura resero insonni i giorni e le
notti. Soltanto dalla vostra autorità ci si aspetta che giunga un sollievo a
tanti mali; essa che si crede abbia tanta forza da riuscire a essere d’aiuto
non solo a quella di Reims, ma anche a ogni chiesa delle Gallie desolata e
ridotta quasi a niente. Cosa che ci aspettiamo dalla Divinità propizia e che
tutti insieme preghiamo che accada.
[106.][271]
Avendo finito di leggere ciò subito ne porse il testo all’inviato del papa.
Allora tutti i vescovi, insieme al conte Goffredo che stava in mezzo a loro,
alzandosi contemporaneamente e ritiratisi in disparte, deliberavano che cosa
fosse da farsi a questo punto. E dopo pochissimo invitano lo stesso Gerbert.
Poiché dopo qualche parola da parte del papa volevano proibirgli in presenza
del legato il corpo e il sangue del Signore e l’ufficio sacerdotale, egli
subito dai canoni e dai decreti con sicurezza dimostrò che ciò non poteva
essere imposto a nessuno se non a uno condannato per un crimine oppure a uno
che manifestasse disprezzo dopo una richiesta di venire al concilio o una
richiesta di spiegazioni; a questa pena egli non era soggetto, poiché egli si
era presentato anche se gli era stato proibito[272] e
fino ad allora non era stato riconosciuto colpevole di nessun crimine. E
sosteneva ciò sulla base dei concili sia d’Africa che di Toledo[273]. Ma
perché non apparisse resistere del tutto al signore papa promise che avrebbe
cessato la celebrazione delle messe fino al prossimo sinodo. E subito dette
queste cose tornarono a sedersi.
[107.][274]
Mentre questi erano seduti insieme, il vescovo di Verdun alzandosi di nuovo
in quanto agiva da interprete del sinodo così dichiarò parlando agli altri che
non erano stati presenti al consiglio dei vescovi[275]:
“Dal momento che ciò di cui qui si discute non può ora essere concluso, in
quanto manca l’altra parte della controversia, piace a questi signori vescovi
che vi sia mostrato che la discussione del presente affare deve essere
trasferita ad altra data, affinché là si trovino insieme davanti al giudice chi
accusa e chi refuta, affinché, discusse le posizioni dei singoli, sia
pronunciata una sentenza basata su un giusto giudizio.” La cosa è approvata e
lodata da tutti. Si stabilisce dunque il luogo a Reims presso il convento dei
monaci di Saint-Remi; e la data nell’ottavo giorno dopo la nascita del santo
Giovanni Battista[276].
Stabilite e dette queste cose il sinodo viene sciolto.[277]
[108.] Al tempo stabilito un sinodo di vescovi
fu riunito a Senlis[278],
dove anche la vertenza tra Gerbert e Arnolfo fu discussa, loro presenti, alla
presenza del legato Leone abate e monaco e di moltissimi altri.
Berta[279], moglie
di Eude, prese il re Roberto come avvocato e difensore dei suoi interessi.
Riccardo[280],
duca dei Pirati, morì[281] per
un’apoplessia minore; anche Ilduino[282] per
eccesso di vino.
Si tenne a Mont-Nôtre-Dame[283] un
sinodo. di cinque vescovi.[284] Fu
indetto un altro sinodo presso Ingelheim da tenersi per la festa di sant’Agata,
che fu poi tenuto al tempo fissato[285].
Berta, volendo sposare Roberto, consulta Gerbert e viene da
lui scoraggiata.
Gerbert va a Roma per giustificarsi e là, avendo egli offerto
al papa[286]
una giustificazione, mentre nessuno lo accusava, fu indetto un altro sinodo.[287]
[109.] Il re Ugo, afflitto da pustole in tutto il
corpo, fu ucciso[288] dai
Giudei[289]
nella fortezza di Ugo[290].
Il re Roberto, succedendo al padre, con il consiglio dei suoi
sposò[291]
Berta, servendosi dell’argomento che è meglio compiere un male piccolo per
evitarne uno grandissimo.
Il re Roberto, presa in moglie Berta, si porta contro Folco
che era stato avversario di Eude e da lui riceve la città di Tours e altre che
questi aveva invaso.[292]
Il re Roberto in Aquitania mette sotto assedio Ildeberto[293] a
favore del proprio nipote Guglielmo[294].
Gerbert si reca di nuovo a Roma, e, mentre vi sosta, Arnolfo
viene rimesso in libertà dal re Roberto. Gerbert riconoscendo la perfidia del re
Roberto si lega al re Ottone e, resa manifesta la qualità del suo ingegno,
riceve da lui l’episcopato di Ravenna.[295]
Il papa Gregorio[296]
concede[297]
ad Arnolfo l’ufficio sacerdotale fintantoché a suo tempo regolarmente o ne
acquisisca il diritto per legge o per legge lo perda.
[1] cfr Gerbert,
Lettera n.74
[2] L’ultima frase è
aggiunta a margine
[3] Qui R. ha cancellato “e
sempre finché sarò in vita resterà assolutamente valida”
[4] cfr Gerbert,
Lettera n.89
[5] Nel gennaio/febbraio
987
[6] L’assemblea che doveva
ascoltare Adalbéron fu convocata per il 27 marzo 987; cfr Gerbert, Lettera n.89
[7] Ragenerus (fr.
Regnier), probabilmente il vicedominus di Reims
[8] Silvanectis nel
testo; la meta di Ludovico era tuttavia Compiègne, dove è attestato il 29 marzo
987
[9] Il 22 maggio 987 (XI
Kal. iun.); secondo altre fonti il 21
[10] L’assemblea era stata
rinviata al 18 maggio; cfr. Gerbert, Lettera n. 101
[11] Compendium nel
testo
[12] A San Remigio di Reims
(vedi Libro III, cap. 110)
[13] Nel 978
[14] Discorso composto da R.
a imitazione di Sallustio, Bellum Iugurthinum, XIV, 8 e segg.
[15] Cfr Gerbert,
Lettera n. 122
[16] Alla fine di maggio del
987, probabilmente il 30 o il 31
[17] In quanto duca di
Lorena, Carlo era vassallo del re di Germania
[18] Adelaide, forse la
seconda moglie; Carlo aveva in prime nozze sposato una figlia di Roberto conte
di Troyes
[19] Isaia, V, 20
[20] Il 1 giugno 987 (Kal.
Iun.)
[21] Ugo era a Orléans il 25
agosto 987
[22] Rotbertus (fr.
Robert), Roberto II il Pio (970/1-20.VII.1031 Melun), re di Francia (987-1031,
solo dal 996), figlio di Ugo Capeto e di Adelaide, sposò Susanna (rip.996), poi
Berta di Borgogna, infine Costanza di Provenza
[23] cfr anche
Gerbert, lettera n. 112
[24] Marca di Spagna (contea
di Barcellona)
[25] Gli arabi di Almansor
(939†1002), che avevano occupato Barcellona per qualche tempo nel 985
[26] “nel tumulto bellico” è
una correzione che sostituisce “nella guerra spagnola”
[27] Domenica 25 dicembre
987
[28] Sancta Crux, cattedrale
di Orléans
[29] Qui R. ha cancellato “a
mostrare un po’ di misericordia”
[30] Qui R. ha cancellato
“perché potessero nasconderli e”
[31] Lex agraria,
probabilmente un tributo legato alla produzione agricola, ma non si hanno
notizie precise
[32] R. ha rimaneggiato le
ultime due frasi
[33] Questa frase è stata
aggiunta da R. in una nota a piè di pagina
[34] Frasi rimaneggiate da
R., ma la redazione primitiva è illeggibile
[35] Adalbéron (Ascelin) di
Laon
[36] Sui sentimenti di Carlo
verso Emma, cfr Gerbert, Lettera n. 31; fu forse Carlo a ispirare le
dicerie su Emma (III.66)
[37] Si veda la definizione
di Celtica che R. offre nel Libro I al cap. 2
[38] Si riferisce al
percorso apparente del sole in cielo, seguendo Isidoro, Etymologiae, 5,
35, 6
[39] Sull’esatta sequenza
degli avvenimenti c’è qualche difficoltà a conciliare la narrazione di R. con
le lettere di Gerbert; la versione più plausibile (Havet) è la seguente: Carlo
prende Laon nella primavera del 988; in giugno Ugo assedia Laon; in agosto gli
assediati bruciano il campo degli assedianti che se ne vanno; in ottobre
l’assedio è ripreso e poi ritolto; nel corso dell’inverno 988-989 l’arcivescovo
Adalbéron s’ammala e muore; cfr Gerbert, Lettere n. 102 e 122. Se così
fosse, R. avrebbe semplicemente invertito l’ordine cronologico dei due assedi
[40] La fuga di Ascelin si
colloca presumibilmente nell’autunno 988
[41] Se la ricostruzione
cronologica di cui sopra è corretta, R. si riferisce qui al primo assedio di
Laon.
[42] La costruzione
dell’ariete è per R. un puro pretesto narrativo
[43] “con la cupa oscurità”
è un inciso aggiunto a margine
[44] Frase aggiunta a piè di
pagina
[45] Agosto 988; per i fatti
narrati cfr Gerbert, Lettere n. 121, 125, 131, 135
[46] In realtà probabilmente
nel palazzo di Chelles; cfr Gerbert, Lettera n. 149
[47] Il 23 gennaio 989 (X
Kal. febr.)
[48] A(rnulfus) (av.967†1021),
figlio illegittimo di re Lotario, arcivescovo di Reims (989-dep.991, di nuovo
997-1021)
[49] Qui nel testo R. ha
cancellato Burch(ardus) (il conte di Vendôme?)
[50] I tempi della
successione furono assai lenti, se Gerbert (Lettera n. 155) lamenta che il
seggio è rimasto vacante per più di trenta giorni, contro le leggi canoniche; cfr
anche Gerbert, Lettera n. 217
[51] Di nobile origine,
sorella di un Roberto (conte?), vassallo di Carlo di Lorena
[52] “insieme al colpevole”
è un inciso aggiunto
[53] cfr anche
Gerbert, Lettere n. 137 e 139
[54] cfr anche
Gerbert, Lettera n. 179
[55] I discorsi di Ugo e dei
cittadini di Reims furono scritti da R. dopo il tradimento di Arnolfo, e sono
probabilmente condizionati da questa conoscenza degli avvenimenti successivi
[56] Secondo Gerbert
(Lettera n. 152), mentre il clero era favorevole ad Arnolfo, solo alcuni dei
laici lo erano
[57] La redazione di un
chirografo da parte di Arnolfo è un episodio autentico, e il testo è riportato
nel seguito al cap. 60
[58] La pratica in questione
fu proibita dal Concilio di Toledo del 694
[59] Sapienza, I, 5
[60] Tra la fine di marzo e
la fine di aprile del 989
[61] cfr. Gerbert,
Lettera n. 160; il papa in questione è Giovanni XV (985-996)
[62] G(islebertus)
(fr. Gilbert) (†1000), conte di Roucy, figlio di Rainaldo (†967) di Roucy e di
Alberada figliastra di Ludovico IV; fratello di Brunone di Langres e cugino di
Arnolfo
[63] U(uido) (fr.
Gui), conte di Soissons, cugino di Brunone di Langres e di Gisleberto di Roucy
[64] Tra loro il vescovo
Brunone di Langres, cugino di Arnolfo
[65] Nel corso dell’autunno
989
[66] Algerus/Adalgerus
(fr. Augier), la cui deposizione figura negli Atti del concilio di Saint-Basle
[67] Nel marzo 990; cfr
anche Gerbert, Lettere n. 162, 163, 166
[68] La campagna di Ugo si
colloca nel periodo estivo (luglio-settembre) del 990; cfr Gerbert,
Lettera n. 177
[69] Il giudizio di R. sulla
legittimità dell’ascesa al trono di Ugo appare ondivago, ma è bene ricordare
che tale fu anche il giudizio di Gerbert (cfr Lettera n. 164) e di molti
contemporanei
[70] Questo capitolo fu
inserito da R. in un secondo tempo, su un foglio separato (richiamato da un
asterisco) e infatti interrompe una narrazione che prosegue logicamente nel
cap. 41
[71] O(do) (fr.
Eudes) (†12.III.996), conte di Blois e Chartres
[72] Drocae nel testo
(dép. Eure-et-Loir), cittadina situata circa 70 Km a O di Parigi e 35 Km a N di
Chartres
[73] Nell’autunno del 990 o
nell’inverno 990-991
[74] Nell’autunno del 990 o
nell’inverno 990-991
[75] Non è chiaro in realtà
se Ugo fosse effettivamente al corrente del piano di Ascelin
[76] La notizia
dell’ammissione di Arnolfo alla tavola reale è riferita anche da Gerbert,
Lettera n. 217
[77] Cfr anche su
questo punto Gerbert, Lettera n. 217
[78] La notte tra il 29
marzo 991 (Domenica delle Palme) e il 30
[79] Venerdì Santo, il 3 aprile
991
[80] Tre anni prima, nella
primavera del 988
[81] “da Adalbéron” è una
nota aggiunta
[82] Di questo Carlo non si
hanno altre notizie; forse si rifugiò presso il fratello Ottone (†1012), poi
duca di Lorena
[83] Ludovico, Gerberga e
Adelaide
[84] Frase rimaneggiata da
R.
[85] A Orléans, secondo il
cronista Adhemar de Chabannes
[86] Ludouicus (fr.
Louis), citato in un atto di Guglielmo V d’Aquitania nel 1005/12
[87] Gerberga (fr.
Gerberge) (†d.1015) sposò Lamberto I conte di Lovanio
[88] Adelaidis (fr.
Adélaïde), sposò Alberto I conte di Namur
[89] I capitoli da [50.] a
[73.] sono stati intercalati al testo originario in un secondo tempo, e
occupano tre fogli separati
[90] Verso il 15 marzo 991
[91] logica, in
quest’accezione, è espressione tratta da Isidoro, Etymologiae, 4, 4, 1
[92] Yppocrates Chous, il
massimo esponente della medicina greca classica
[93] Heribrandus/Herbrandus
(fr. Hèribrand) (†av.1029), chierico e canonico di Nôtre-Dame di
Chartres
[94] È l’unico riferimento
autobiografico di R., a parte il prologo
[95] La parte più celebre
dell’opera di Ippocrate
[96] Arbodus (†11.IV.1007),
abate di Saint-Remi (987-1007)
[97] Orbatium nel
testo (dép. Marne, cant. Montmort-Lucy), abbazia benedettina, fondata nel VII
secolo, situata circa 40 Km a SO di Reims
[98] Il nome dell’abate di
Orbais non è noto
[99] Meldis nel
testo, circa 90 Km a SO di Reims, 60 Km a O di Orbais
[100] leuga, unità di
misura di lunghezza equivalente nell’antichità a 1,5 miglia (2,222 Km) per cui
la deviazione di R. corrisponderebbe a più di 13 Km; in epoca più tarda la lega
valeva 3 miglia, ma questo valore implicherebbe una deviazione di lunghezza
maggiore della distanza totale tra Orbais e Château-Thierry
[101] Castellum Teodorici
nel testo, 50 Km a SO di Reims, 25 Km a O di Orbais, 40 Km a NE di Meaux
[102] “sei” è una correzione
di “tre” che compariva nella prima redazione
[103] Circa 8,5 Km
[104] Sanctus Pharo
nel testo, abbazia di Meaux
[105] Aug(ustinus),
abate di Saint-Faron a Meaux
[106] Carnotum, circa
200 Km a SO di Reims, 115 Km a SO di Meaux
[107] Nota aggiunta a margine
[108] De concordia
Yppocratis, Galieni et Surani nel testo; non si conosce un manoscritto che
abbia esattamente questo titolo, ma MacKinney ha identificato un manuale
redatto per voci ordinate alfabeticamente, ricavato a sua volta da un’opera
intitolata Passiones Yppocrates, Gallieni et Surani attribuita ad Aurelius
Escolapius
[109] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 1
[110] Di questi documenti non
è rimasta traccia
[111] Frase rimaneggiata da
R.
[112] Il 17 giugno 991;
l’elenco dei vescovi è lo stesso che figura negli Acta del sinodo,
redatti da Gerbert
[113] Sanctus Basolus, abbazia
scomparsa, 15 Km a SE di Reims
[114] Guido (fr. Gui),
Guido II vescovo Suesorum (966/985-995/1005), che successe a Guido I in
data indeterminata
[115] Heriueus (†8.IV.997?),
vescovo Belvacensis (v.987-998/1002)
[116] Godesmannus,
vescovo Ambianensis (v.977-992/995)
[117] Ratbodus (fr.
Rabeuf) (†21.VI.997), vescovo Nouiomensis (v.989-v.997)
[118] Odo (fr. Eudes),
vescovo Silvanectensis (988-993?)
[119] Daibertus,
arcivescovo Bituricensium (986/7-1013)
[120] Gualterus (fr.
Gautier) (†8.V.1024), vescovo Augustudunensis (975/6-1018/20)
[121] Bruno (fr.
Brunon). vescovo Lingonensis (980-1016), figlio di Rainaldo conte di
Roucy e di Alberada sorellastra di re Lotario, e quindi cugino di Arnolfo
[122] Milo (fr.
Milon), vescovo Matisconensis (977/981-993/996)
[123] Siguinus, arcivescovo
Senonensium (977-999)
[124] Arnulfus (fr.
Arnoul), vescovo Aurelianensis (963/972-1003)
[125] Herbertus (fr.
Herbert) (†23.VIII.996), vescovo Autisiodorensis (971-995/6), figlio di
Ugo il Grande
[126] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 1
[127] In realtà la parafrasi
di R. del testo conciliare è spesso abbastanza libera
[128] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 2
[129] L’intervento di membri
dell’assemblea a questo punto del dibattito non è riportato negli atti
[130] Canon Toledo IV
(633) c. 31, riportato negli atti del sinodo
[131] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 3-4
[132] Inciso aggiunto a
margine
[133] R. non comprende (e
rielabora quindi in modo arbitrario) l’oscuro intervento di Daiberto: “Gravissimum
vero est ideo te iudicem prebere in alienis negotiis, ut cum reum convincis, tu
concidas; cum diudicas, tu dampnatus abeas”
[134] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 4
[135] Anche questo intervento
è largamente frainteso e rielaborato da R.
[136] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 5
[137] La parafrasi di R. è in
questo caso abbastanza fedele
[138] Manasse, nipote
di Artaud arcivescovo di Reims, conte di Rethel o di Omont e vassallo della
chiesa di Reims, era stato inviato da Adalbéron al fratello Goffredo nel 988 (cfr
Gerbert, Lettera n. 129)
[139] Rotgerus (fr.
Roger) (III) conte di Porcien (?), forse fratello di Manasse di Rethel
[140] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 6
[141] Anche in questo caso R.
travisa il senso originario dell’intervento
[142] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 6
[143] In questo caso la
parafrasi è fedele
[144] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 7
[145] La parafrasi è conforme
al testo originario
[146] Lotharienses nel
testo; i loro nomi non sono noti, ma in quanto sudditi dell’Impero erano
presumibilmente ostili per principio al sinodo
[147] Queste contestazioni
specifiche non compaiono negli atti del sinodo
[148] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 7
[149] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 9
[150] Ancora un caso di grave
fraintendimento da parte di R.
[151] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 11
[152] Dudo (fr.
Dudon), vassallo di Alberto conte di Vermandois, nel 987 insieme al conte
Sigeberto aveva invaso beni dell’arcivescovo di Colonia ed era stato perciò
scomunicato; cfr anche Gerbert, Lettere n. 100 e 137
[153] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 12
[154] Negli Atti l’intervento
di Guido segue quello di Gualtiero, che a sua volta segue Eude; questi è il
primo a parlare della scomunica lanciata da Arnolfo, mentre Guido richiama le
decisioni del sinodo di Senlis (990?) più volte citato negli Atti (c. 14), ma
mai ricordato da R.
[155] Cfr Gerbert,
Lettere 175 e 176
[156] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 13
[157] Proverbi, XV, 3
[158] Salmi, XIV, 1
[159] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 17-18
[160] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 19, c. 23
[161] Abbo (fr. Abbon)
Floriacensis (v.945†13.IX.1004), abate (988-1004) di Fleury, oggi St-Benôit-sur-Loire
(dép. Loiret, cant. Ouzouer)
[162] Ramnulfus (fr.
Rannoux) Senonensis, forse il Romulfus corrispondente di Gerbert
(Lettere n. 116, 167, 170)
[163] Secondo alcuni
commentatori si tratta invece di Senones, nei Vosgi, ma non risulta là un abate
Ramnulfo/Romulfo
[164] Iohannes (fr.
Jean) Autisiodorensis, scolastico poi vescovo (996-998) di Auxerre,
scolaro di Gerbert
[165] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 23
[166] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 30
[167] A questo punto R.
sopprime ogni riferimento al successivo e famoso discorso di Arnolfo, riportato
negli Atti (c.28), in cui il vescovo d’Orléans muove contro l’autorità papale
un forte attacco, oggetto in seguito di prolungate polemiche
[168] Secondo gli Atti (c.
30) la confessione di Arnolfo avvenne nella cripta
[169] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 50, c. 53
[170] Da questo punto in poi
il racconto si riferisce alla seconda giornata del sinodo (18 giugno 991)
[171] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 53
[172] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 54
[173] Il testo è l’adattamento
del Libellus sottoscritto dall’arcivescovo Ebbone di Reims al sinodo di
Diedenhofen (835)
[174] Fonte: Acta Concilii
Remensis c. 55
[175] Forse Adalgero trovò
ospitalità presso l’arcivescovo Archambaud di Tours
[176] Acta Concilii
Remensis ad sanctum Basolum auctore Gerberto (ed. Pertz), MGH SS 3 (redatti
nel 995)
[177] L’episodio qui narrato
avvenne tra giugno e settembre del 991; R. riprende la narrazione interrotta al
cap. 49
[178] Meledunum/Milidunum
nel testo (dép. Seine-et-Marne), cittadina sulla Senna, sita circa 45 Km a SE
di Parigi
[179] Si intende il nonno
materno di Eude I di Chartres, Eriberto II di Vermandois (†943)
[180] Burcardo di Vendôme
[181] Secondo la Vita di
Burcardo il Venerabile di Eude di Saint-Maur, il suo nome era Gualtiero (Uualterius)
[182] Eriberto II di
Vermandois
[183] Burcardo di Vendôme
[184] La partecipazione dei
Normanni all’assedio di Melun è confermata anche da altre fonti
[185] Burcardo di Vendôme
[186] Il castellano Gualtiero
[187] L’esecuzione della
donna, atto del tutto inconsueto, colpì i contemporanei ed è riportato in
diverse cronache
[188] Questo capitolo si
collocherebbe più naturalmente dopo il successivo, e subito prima del cap. 81
cui sembra legato
[189] F(ulco) (†1040),
Folco Nerra conte d’Anjou (987-1040), figlio di Goffredo Grisegonelle, sposò
Elisabetta figlia di Burcardo di Vendôme
[190] In realtà Conan I conte
di Rennes si era impadronito di Nantes e aveva preso il titolo di duca di
Bretagna nel 990, ma ciò era comunque avvenuto con il consenso di Eude, suo
signore feudale
[191] Sanctus Laudomarus
nel testo (dép. Loir-et-Cher), abbazia nei pressi di Blois
[192] Le vicende narrate si
connettono a quelle del cap. 79 e si svolsero probabilmente nel 991/992
[193] Burcardo di Vendôme
[194] R. potrebbe aver
attinto a fonti orali relative alle vicende di Eude durante la propria
permanenza a Chartres
[195] Si tratta di una
ripresa dell’inizio del cap. 79, al quale il cap. 81 fa seguito logicamente
[196] La Cronaca di Nantes
riporta l’assedio e lo colloca nel mese di giugno 992
[197] Probabilmente la
fortezza vecchia, non quella nuova (Le Bouffay) da poco costruita
[198] Conanus (†27.VI.992),
conte di Rennes, duca di Bretagna
[199] Bruerech nel
testo, regione storica della Bretagna, intorno a Vannes (dép. Morbihan)
[200] L’assedio di Nantes da
parte di Conan non è attestato dalla Cronaca e potrebbe essere
invenzione di R.
[201] Le frasi a partire da
“E poiché il tempo” fin qui sono state aggiunte da R. e compaiono su un foglio
separato
[202] conducticii nel
testo; è una delle prime attestazioni dell’uso di mercenari in combattimento
[203] Frase rimaneggiata da
R.
[204] La battaglia di
Conquereil (dép. Loire-Atlantique, arr. Châteaubriant, cant. Guéméne-Penfao) si
svolse il 27.VI.992
[205] Il particolare dei
trabocchetti è confermato dalla Cronaca
[206] “con tre dei suoi” è
una nota aggiunta
[207] Susanna,
Rozala/Susanna (†1003), figlia di Berengario II re d’Italia e di Willa, sposò
in prime nozze (v.968) Arnolfo II il Giovane (†988), conte di Fiandra, e in
seconde nozze Roberto II re
[208] Monasteriolum nel
testo (dép.Pas-de-Calais), era stata tolta ad Arnolfo di Fiandra da Ugo Capeto
nel 980/981
[209] Qui R. si riferisce
quasi certamente a Gerbert che, non potendo rinunciare al sostegno dei re di
Francia, non poteva permettersi di manifestare la propria opposizione verso un
atto certamente condannato dalla dottrina della Chiesa
[210] In realtà papa
Benedetto VII (VIII.984†10.VII.983) era già morto, e all’epoca era papa
Giovanni XV (985-996)
[211] Chelae nel testo
(dép. Seine-et-Marne, arr. Meaux); il sinodo avvenne in data imprecisata, tra
fine 992 e inizio 995
[212] Erchembaldus
(fr.Archambaud) (†18.XI.1004/8) arcivescovo Turonicus (984-1004)
[213] Atti degli Apostoli,
IV, 32 (cfr anche Gerbert, Lettera n. 190)
[214] Libro di Tobia,
IV, 19
[215] Epistola di S.Paolo
a Tito, III, 10
[216] Di nuovo compare la
formula con cui iniziano i capp. 79 e 81, e R. torna alle guerre tra Eude e
Folco per la Bretagna
[217] Emma, sorella di Eude
I, aveva sposato Guglielmo IV Fierabras (†995/6) duca d’Aquitania e fratello di
Adelaide moglie di Ugo Capeto
[218] Si tratta del castello
di Langeais (dép. Indre-et-Loire, arr. Chinon); i fatti si svolgono verso il
995
[219] Flandrenses nel
testo
[220] Eude era all’assedio di
Langeais il 12 febbraio 996
[221] Folco nel 996 non aveva
ancora figli; d’altronde le condizioni offerte da Folco a Eude risultano nel
complesso troppo umilianti e poco credibili
[222] Il riferimento è
probabilmente a Roberto, primogenito di Eude (†v.996), o al secondogenito
Teobaldo II (†1003/4)
[223] Si tratta di formule di
omaggio ligio
[224] Folco aveva un
fratellastro chiamato Maurizio, e nipoti dalla sorella Ermengarda
[225] Ambatia nel
testo (dép. Indre-et-Loire, arr. Tours), castello sulla Loira, tra Tours e
Blois
[226] In realtà Amboise si
trova sulla riva sinistra della Loira
[227] Castrum Dunum
nel testo (dép. Eure-et-Loir), circa 45 Km a S di Chartres
[228] A Marmoutier; si tratta
di un inciso aggiunto alla prima redazione
[229] Il 12 marzo 996
[230] A Tours
[231] Maius monasterium nel
testo (dép. Indre-et-Loire, cant. Tours, com. Ste-Radegonde), importante
abbazia fondata nel 372 da san Martino, benedettina dal 982
[232] Iohannes, Giovanni
XV (†996), papa (VIII.985-III.996), figlio del prete Leone, successe al breve
pontificato di Giovanni XIV (Pietro Canepanova, XII.983-20.VIII.984), che a sua
volta succedeva a Benedetto VII (974-983)
[233] “in Germania” è una
nota aggiunta a margine
[234] Leo, abate dei
SS. Bonifacio e Alessio (Roma)
[235] All’inizio di maggio
995 ad Aquisgrana
[236] Qui R. ha cancellato
“della Germania”
[237] Ottone III imperatore
[238] A Mouzon
[239] Ludouicus (fr.
Louis), imprigionato col padre nel 991, poi affidato in custodia ad Ascelin
[240] Qui R. ha cancellato
“nel luogo che è chiamato Mouzon”
[241] La data dell’unica
presenza attestata di Ottone III a Metz è il 15 maggio 993, tuttavia non è noto
dove si trovasse Ottone tra il 1 maggio e il 12 giugno 995
[242] Landricus (fr.
Landri) (†1028), conte di Nevers, bersaglio del Rhytmus Satiricus di
Adalbéron di Laon
[243] Ascelin era sicuramente
di nuovo libero il 9 giugno 998, e probabilmente già dopo il sinodo di Pavia
(febbraio 997)
[244] Fonte: Acta Concilii
Mosomensis
[245] Il 2 giugno 995
[246] Sugerus (ted.
Swidger), vescovo Mimagardvurdensis (993-1011): mome aggiunto a margine
[247] Leodulfus (7.IV.1008),
arcivescovo Treuerensis (994-1008): nome aggiunto a margine
[248] Nocherus (†10.IV.1008),
vescovo Leodicensis (972-1008)
[249] Haimo (fr.
Haimon, ted. Heimo) (†21.IV.1024/5), vescovo Uirdunensis
(988/991-1024/5)
[250] Godefridus,
conte di Verdun
[251] Probabilmente i
maggiori tra i figli ancora viventi, ovvero Federico (†1022) ed Ermanno
(†1029), conti di Verdun
[252] Ragenerus, già
menzionato in precedenza
[253] Fonte: Acta Concilii
Mosomensis
[254] Gallica lingua
nel testo
[255] In realtà questo
documento non figura negli atti del sinodo
[256] Fonte: Acta Concilii
Mosomensis
[257] I capitoli seguenti
(102-105) non sono presenti nel testo di R., ma sono tratti dagli Acta
Concilii Mosomensis auctore Gerberto archiepiscopo (ed. Pertz), MGH SS 3
[258] Ottone II (†983), che
aveva nominato Gerbert abate di Bobbio
[259] Cfr Gerbert,
Lettere n. 178 e 197
[260] II Paralipomeni, XIX,
2
[261] Riferimento ai canoni
conciliari già richiamati nel sinodo di Saint-Basle
[262] Cfr anche
Gerbert, Lettera n. 179
[263] Quando Arnolfo era a
Laon
[264] Calcolati dalla presa
di Reims da parte di Carlo (ottobre 989) a quella di Laon da parte di Ugo
(aprile 991)
[265] Matteo, V, 29
[266] Matteo, XVIII,
15-17
[267] Leo (†461), papa
Leone I Magno (440-461)
[268] La citazione è
riportata nello scritto di un chierico romano a un prete Giovanni al tempo di
papa Vigilio
[269] Gelasius (†496),
papa Gelasio I (492-496)
[270] Lettera n. 26 c.4 di
papa Gelasio I (in Patrologia latina, t.LIX, col.79)
[271] Fonte: Acta Concilii
Mosomensis (Qui ricomincia il testo di R.)
[272] Gerbert era l’unico
vescovo francese presente a Mouzon
[273] Quest’allusione ai
concili Africanus et Toletanus non è presente negli atti del concilio,
ma il riferimento ritorna negli Atti del sinodo di Saint-Basle e nella :Lettera
n. 217 di Gerbert
[274] Fonte: Acta Concilii
Mosomensis
[275] L’ultima parte della
frase è aggiunta in una nota a piè di pagina
[276] Il 1 luglio 995
[277] Qui finisce il testo
vero e proprio delle Historiae; i brani successivi sono brevi note di
R., trascritte su un foglio separato, probabilmente in preparazione di
ulteriori capitoli che non furono però mai redatti
[278] In realtà a Saint-Remi,
come indicato nel capitolo precedente, gli atti di questo concilio sono perduti
[279] Berta (fr.
Berthe) (†d.1007), figlia di Corrado II re di Borgogna e di Matilde di Francia,
sposò in prime nozze Eude I di Blois (†996); la nonna materna di Berta,
Gerberga di Sassonia, era sorella di Hedwig, nonna paterna di Roberto II
[280] Richardus,
Riccardo I duca di Normandia (943-996)
[281] Il 20/21 novembre 996
[282] Hilduinus,
personaggio non identificato, forse Ilduino I conte di Arcis-sur-Aube, signore
di Ramerupt
[283] Mons Sanctae Mariae;
su questo sinodo non si hanno altre informazioni
[284] Qui R. ha cancellato la
frase “Morì anche il duca Enrico”
[285] Il 5 febbraio 996
[286] Alla morte di Giovanni
XV gli era successo Gregorio V (Brunone di Carinzia) (v.973†II.999 Roma),
figlio di Ottone duca e cugino di Ottone III, che fu consacrato il 3.V.996, e a
sua volta incoronò Ottone III imperatore il 21.V.996
[287] “fu indetto un altro
sinodo” è una nota aggiunta
[288] Ugo Capeto morì il 23,
24 o 25 ottobre 996, e R. forse considera i medici ebrei responsabili della sua
morte, probabilmente dovuta al vaiolo
[289] Iudei, nome di
popolo, forse in questo caso volto piuttosto a identificare la categoria dei
medici, spesso ebrei
[290] oppidum Hugonis
nel testo; forse località Les Juifs (dép. Eure-et-Loir, arr. Chartres, cant.
Voves, com. Prasville)
[291] All’inizio del 997
[292] Avvenimenti svoltisi
all’inizio del 997
[293] Hildebertus (fr.
Audebert) (†997?) (I) conte di Périgord, figlio di Bosone I il Vecchio
[294] Uuilelmus (fr.
Guillaume) (†31.I.1030), Guglielmo V duca d’Aquitania (v.993), figlio di
Guglielmo IV
[295] Nei primi mesi del 998
[296] Gregorius, papa
Gregorio V (maggio 996-febbraio 999)
[297] Gennaio/febbraio 998