UNIVERSITA` : SVILUPPO E RECLUTAMENTO

(10 Novembre 2003)

Paolo Rossi – Dipartimento di Fisica – Universita` di Pisa

 

Un requiem per l’Universita` ?

 

Una discussione dei possibili modelli di sviluppo per una societa` industriale avanzata non puo` prescindere da una presa d’atto del nesso esistente tra sviluppo economico-sociale e innovazione. E se tale nesso e` innegabile, altrettanto fuori discussione appare la connessione tra innovazione e ricerca, e piu` in generale tra innovazione e diffusione dei saperi, sia nei loro aspetti tecnici che in quelli critici.

Forse non altrettanto univoca e` l’indicazione sui luoghi di formazione di questi saperi, anche se riesce molto difficile immaginare che una pura dinamica di mercato possa generale tutti gli investimenti  (ingenti e di lungo periodo) necessari, soprattutto  per quelle componenti (peraltro indispensabili) della ricerca e della formazione che per loro propria natura non si traducono, ne` immediatamente ne` automaticamente, in sorgenti di profitto.

Secondo una valutazione largamente condivisa in molti paesi, quella costellazione di istituzioni, in Europa prevalentemente pubbliche, che va sotto il nome di Universita` rimane in questo momento storico uno dei luoghi centrali, e difficilmente sostituibili, in cui si concentra l’impegno organizzativo ed economico, oltre che culturale, volto a produrre e diffondere in ogni campo nuova conoscenza.

Qualcuno potra` forse immaginare, e storicamente e` gia` successo nell’arco plurisecolare di vita delle Universita`, che le forme piu` innovative di cultura possano essere prodotte in contesti differenti. Nessun dato concreto ci autorizza tuttavia a ritenere che, in questo preciso momento, siano in atto processi generalizzati di questo tipo. In tutti i paesi la ricerca industriale, per quanto vitale possa essere il suo ruolo nello sviluppo, e` priva di respiro strategico se non trova riscontro e stimolo in una ricerca fondamentale che l’industria non puo` per la propria natura economica sostenere.

Ma l’Universita`, come qualunque altra realta` sociale, non vive di aria ne` di sogni. Essa ha un bisogno assoluto di stimoli e di risorse. I primi per non ripiegarsi su se stessa perdendo ogni contatto con le motivazioni e le esigenze provenienti dal resto del corpo sociale; le seconde perche` i soggetti che in essa operano abbiano la possibilita` di tradurre le proprie ipotesi astratte in risultati concreti.

Le risorse di cui l’Universita` ha bisogno sono fondamentalmente di due tipi: risorse economiche e risorse umane. Esiste tra le due un nesso inscindibile: a nulla servono i migliori strumenti senza le persone capaci di farli funzionare; a poco servono i piu` brillanti ingegni senza la possibilita` di tradurre in pratica le proprie idee.

Alla luce di questi presupposti, e` lecito affermare che in questo momento in Italia stiamo assistendo a un accumulo di circostanze e di interventi forse volontari che nell’insieme somiglia a un requiem per l’Universita`, in quanto l’effetto cumulativo va nella direzione di una riduzione drastica delle risorse economiche e (forse ancor piu` gravemente) umane indispensabili per la sopravvivenza, per non parlare dello sviluppo, di questa istituzione.

 

 

 

Il fabbisogno di risorse umane

 

Un’analisi del fabbisogno di qualunque tipo di risorsa non puo` prescindere dall’esplicitazione di un modello di riferimento. Tuttavia nel caso di un settore che nel suo complesso, per quanto gia` detto, e` destinato a coprire la gran parte delle esigenze di produzione e diffusione di cultura del Paese, l’analisi aggregata puo` certo prescindere da molte specificita`, dettagli ed elementi congiunturali, e ricondursi, anche sul piano quantitativo, alla determinazione di un singolo parametro relativo al tasso di crescita percentuale che si vuole ipotizzare per il settore, in un quadro di compatibilita` politico-economiche e socio-culturali, nell’arco di un medio periodo che, per la natura stessa delle dinamiche coinvolte, non puo` comunque essere inferiore al decennio.

Premetto subito che un raffronto della situazione italiana con la media europea e` gia` stato fatto in sedi autorevoli e indica con chiarezza un sottosviluppo quantitativo delle nostre istituzioni universitarie, valutabile nella misura del 50% rispetto alle situazioni piu` avanzate e ai modelli auspicabili; in altri termini abbiamo un rapporto ricercatori-popolazione totale, un rapporto docenti-studenti e un rapporto laureati-popolazione giovanile che sono circa la meta` di quelli riscontrabili nei maggiori paesi industriali.

Va da se` che questo tipo di ritardi, anche a prescindere dalle compatibilita` economiche, non si puo` risolvere con un semplice atto di volonta` politico-amministrativa: le stime degli esperti indicano in una banda compresa tra il 3 e il 5 % annuo il massimo tasso di crescita sostenibile per un periodo medio-lungo salvando nel contempo un ragionevole equilibrio nelle dinamiche interne di sistemi cosi` delicati come quello della formazione e ricerca. Detto questo, deve essere comunque chiaro che con simili tassi di sviluppo occorrerebbe almeno un ventennio, a parita` di altre condizioni, per raggiungere i paesi con cui ci confrontiamo.

A fronte di questo, per cosi` dire “ottimistico”, scenario, vogliamo comunque mantenere come termine di paragone uno scenario di mera sopravvivenza, in cui le dimensioni del nostro sistema-ricerca restino perlomeno inalterate nel tempo.

Cerchiamo ora di tradurre questi due casi “estremi” in valutazioni quantitative relative alla misura del reclutamento annuo medio di giovani ricercatori compatibile e necessario per la realizzazione degli scenari delineati.

Un calcolo relativamente semplice dimostra che un’istituzione che voglia mantenere stabili nel tempo le proprie dimensioni deve reclutare mediamente ogni anno una frazione di poco inferiore al 3 % del personale a tempo indeterminato che essa possiede. Viceversa un’istituzione che voglia nell’arco di un ventennio raddoppiare le proprie dimensioni deve prevedere un reclutamento medio annuo non inferiore al 6 %.

Per evitare malintesi e` bene sottolineare che in questo contesto la quota di  “reclutamento” non si riferisce a una particolare figura giuridica o contratto di lavoro, ma indica soltanto il numero di giovani studiosi annualmente avviati a una carriera che sia poi  potenzialmente destinata a svolgersi tutta all’interno delle istituzioni di ricerca.

Per restare al sistema universitario italiano, le percentuali sopra citate si tradurrebbero nel quadro attuale nell’assunzione di un numero di nuovi ricercatori che va da un minimo di 1500 a un massimo di 3000 in media ogni anno, con le ovvie e conseguenti implicazioni anche sul numero di posti da destinare ogni anno alle scuole di dottorato di ricerca.

 

 

La crisi del reclutamento

 

Di fronte anche al piu` “pessimistico” tra questi scenari, la situazione effettiva e presente degli Atenei italiani e` incomparabilmente piu` drammatica.

Sul reclutamento e sul rinnovamento dell’Universita` hanno gravato negativamente a vario titolo, con meccanismi differenti e indipendenti ma purtroppo concomitanti, alcuni  processi avvenuti simultaneamente nell’ultimo quinquennio, e principalmente:

-  Il mancato finanziamento della riforma universitaria, che ha comportato un’impennata degli impegni didattici non sostenuta dalla creazione di un numero adeguato di nuove posizioni per docenti

- L’attivazione dei nuovi meccanismi concorsuali, che per l’effetto congiunto delle legittime aspettative maturate per quasi un decennio e delle nuove esigenze emerse a seguito della riforma ha generato una spinta pressoche` insopprimibile  (e anche, almeno in linea di principio, giustificabile) verso l’utilizzo di una quota molto rilevante delle risorse esistenti  per l’attivazione di meccanismi di promozione interna

-  Le limitazioni strutturali all’esercizio dell’autonomia universitaria in questo ambito, derivanti dalla legge 449 del 1997 che lega la quota del bilancio destinabile alle retribuzioni del personale a tempo indeterminato al 90% del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) delle Universita`, il quale a sua volta e` soltanto una frazione del “budget” finanziario complessivo degli Atenei

-  Il mancato incremento del FFO stesso, che e` rimasto sostanzialmente inalterato in valore assoluto negli ultimi anni, a fronte di una sistematica e inarrestabile crescita dei costi per il personale derivante dalle progressioni automatiche di carriera e dagli incrementi retributivi  originati dall’aumento del costo della vita

-  Infine, nell’anno in corso, e probabilmente anche nel prossimo, il blocco senza deroghe di ogni forma di assunzione a tempo indeterminato nelle Pubbliche Amministrazioni.

Se quindi nel triennio 2000-2002 l’obiettivo minimale del reclutamento e` stato in qualche modo realizzato (risultano a oggi circa 6200 ricercatori universitari non confermati, ovvero assunti nel periodo suddetto), e` invece lecito aspettarsi che nel triennio 2003-2005 il deficit di assunzioni si fara` drammatico, e che la situazione non potra` migliorare sostanzialmente neppure nel triennio successivo, a causa di due ulteriori fenomeni che e` bene a questo punto mettere in evidenza:

-  In primo luogo vi e` un ritardo strutturale nel verificarsi del “turnover” fisiologico, legato alla storia dello sviluppo degli Atenei italiani, segnata a sua volta da un breve periodo di immissioni in ruolo di massa intorno ai primi anni Ottanta per effetto della legge 382. Si tratta di una generazione di docenti tutti sostanzialmente “coetanei”, il cui ciclo di attivita` andra` di conseguenza a concludersi pressoche` simultaneamente in un periodo il cui inizio non e` databile antecedentemente al 2008 (anche per la paradossale sopravvivenza dell’anacronistica figura del “fuoriruolo”) ma che vedra` poi entro il 2015 il pensionamento di almeno il 50% dell’attuale personale docente universitario.

- In secondo luogo non si  puo` ignorare l’esistenza di progetti di riforma dello stato giuridico del personale docente che, pur non avendo ancora acquisito forma stabile e certezza di percorso legislativo, sono comunque costantemente caratterizzati da elementi di precarizzazione e destabilizzazione e che a tutto preludono fuorche` al definirsi di un quadro certo di programmazione entro il quale disegnare percorsi qualitativamente e quantitativamente credibili per il reclutamento.

 

Le forme del precariato

 

La conseguenza quasi inevitabile dei fenomeni sopra delineati e` stata la creazione di un’ampia fascia di precariato nella  quale ha trovato temporanea collocazione una grande quantita` di giovani  laureati, spesso in possesso del titolo di dottore di ricerca, i quali malgrado la forte incertezza sulle prospettive hanno comunque voluto tentare di intraprendere una carriera professionale nell’ambito della ricerca scientifica.

Le stime piu` accreditate del fenomeno del precariato, per quanto qualitative, tendono ad attestarsi su numeri che sono dello stesso ordine di grandezza di quelli del personale a tempo indeterminato. In altri termini si valuta che nell’Universita` vi sia all’incirca un ricercatore precario per ogni  docente o ricercatore  “strutturato”

Una valutazione quantitativa precisa delle dimensioni del fenomeno  e` tuttavia oggi pressoche` impossibile, per almeno due motivi “tecnici”. Il primo risiede nel fatto che l’autonomia universitaria ha svincolato largamente la creazione di posizioni precarie dall’attesa di  disposizioni e di finanziamenti ministeriali, e lo stesso meccanismo di “cofinanziamento” permette soltanto di stabilire un limite inferiore (per larghissimo difetto) al numero degli assegni di ricerca che vengono annualmente banditi.

Il secondo motivo risiede nella proliferazione, nell’ambito della ricerca, di forme di rapporto di lavoro precario anche molto diverse tra loro. Accanto agli assegni di ricerca, la cui disciplina e` comunque in larga misura stabilita dalla legge 449 del 1997, esistono vari tipi di borse di studio locali, di durata piu` limitata nel tempo, bandite spesso direttamente dai Dipartimenti, e borse di studio fruibili in ambito universitario ma create da Enti  Pubblici di Ricerca, quali il CNR, l’INFM, l’INFN. Queste forme di precariato, che sfuggono a ogni tentativo di censimento, sono soggette a normative spesso tra loro disomogenee.

Si evidenziano tuttavia, in questa galassia di situazioni e di profili, alcune caratteristiche comuni, tutte spiacevoli, e che vale la pena di sottolineare:

- In primo luogo vi e` la gia` evidenziata e totale mancanza di programmazione degli sbocchi, che rende non valutabile quantitativamente la gia` intrinsecamente aleatoria probabilita` di futuro inserimento in pianta stabile.

-Le posizioni precarie sono inoltre quasi  sempre caratterizzate da un trattamento economico non esaltante, paragonabile o talvolta addirittura inferiore a quello previsto per le borse di dottorato. Nel caso degli assegni di ricerca tale trattamento, gia` esiguo al momento della prima creazione di queste posizioni, non e` piu` stato in seguito soggetto a rivalutazioni o adeguamenti all’aumentato costo della vita.

- Un altro aspetto particolarmente sgradevole e` quello relativo al trattamento previdenziale e assistenziale, che e` per molti aspetti riconducibile a quello dei  contratti di lavoro autonomo ed e` pertanto tale da non garantire tutele talvolta anche elementari, come quelle relative alla maternita`, per non parlare della difficolta` “strategica” a maturare posizioni previdenziali complessivamente ragionevoli, nell’ambito del sistema contributivo, quando una frazione talvolta considerevole dell’arco della vita lavorativa risulti impegnata in questo tipo di rapporti di lavoro.

Vi e` infine almeno un aspetto di principio che merita di essere preso in esame, ed e` quello relativo alla liberta` (o almeno all’autonomia) di ricerca. E` del tutto evidente che tale autonomia viene negata “per ipotesi” in rapporti di lavoro caratterizzati, a partire dalla selezione stessa, dalla preminenza degli  interessi scientifici dei soggetti finanziatori (gruppi di ricerca, dipartimenti, enti) rispetto a quelli del ricercatore, che viene assunto su un “progetto” predefinito e da lui non sindacabile.

Siamo chiaramente in presenza di un problema molto delicato, e che nella sua sostanza tocca a vario titolo anche gli stessi ricercatori “strutturati”. E` tuttavia evidente che la condizione di minorita` scientifica del ricercatore precario, specialmente se protratta per tempi molto lunghi, non puo` che incidere negativamente sull’originalita` del contributo che questi  potra` portare alla crescita della conoscenza scientifica.

 

 

Che fare?

 

Date le premesse, e` del tutto chiaro che una soluzione strategica dei problemi fin qui indicati non puo` che essere legata a interventi a carattere nazionale (e governativo), di natura sia economica che normativa, ed esplicitamente finalizzati al potenziamento e al rilancio della ricerca universitaria, con particolare riguardo ai meccanismi del reclutamento.

In tale contesto e` perfettamente lecito ipotizzare e proporre una “leva straordinaria” di ricercatori che, salvaguardando in ogni caso l’imprescindibile carattere di selezione, offra nel breve la possibilita` di un intervento massiccio volto a riequilibrare i danni piu` gravi prodotti dalla stasi dell’ultimo periodo.

Cio` detto, occorre che anche a livello locale e nell’ambito dell’autonomia universitaria vengano esplorate tutte le possibilita` e messi in atto tutti i provvedimenti, anche a carattere temporaneo, capaci di contenere gli effetti negativi della situazione presente e di consentire una gestione della fase volta a non pregiudicare completamente la possibilita` di un equilibrato sviluppo futuro.

Gli elementi che in ogni caso dovrebbero caratterizzare qualunque tipo di intervento sono essenzialmente due: qualificazione e programmazione. In altri termini, occorre offrire ai giovani che si vuole avviare alla prospettiva di un inserimento permanente nel mondo della ricerca pubblica posizioni che, anche se dovessero risultare di  natura temporanea, siano da un lato caratterizzate da una normativa giuridica, previdenziale ed economica quanto piu` possibile conforme allo status, e che d’altro canto (e forse soprattutto) siano collocate all’interno di una pianificazione di medio periodo che preveda con ragionevole certezza una prospettiva di reclutamento stabile qualitativamente e quantitativamente conforme alle aspettative create.

A questo proposito vale qui la pena di osservare che  in diverse sedi universitarie si e` proceduto, fin dal 1997 e nell’ambito dell’autonomia, alla creazione di posizioni comunemente denominate di  “ricercatore a tempo determinato”, che sono usualmente contratti quadriennali con elementi economici e normativi affini per molti aspetti a quelli che caratterizzano il ruolo di ricercatore universitario non confermato.

Tuttavia gli svariati regolamenti locali esistenti in materia non risultano di solito conformi  al D.Lgs. 368 del 2001 che disciplina la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato in attuazione delle direttive europee.

Inoltre, e piu` gravemente, in tutti i casi esaminati non e` fatto alcun riferimento a una logica di programmazione; la filosofia e` anzi piuttosto quella di creare posizioni esclusivamente funzionali a specifici progetti di ricerca, e i cui fruitori, quasi per ipotesi, al termine dell’esperienza specifica maturata nell’ambito del contratto siano destinati a ricollocarsi  in realta` professionali completamente differenti.

In tal senso, al di la` di alcuni benefici normativi e retributivi, queste posizioni non si distinguono in maniera sostanziale dal restante (e preoccupante) panorama del precariato universitario, e addirittura sembrerebbero quasi talvolta prefigurare un modello (adombrato anche da taluni progetti ministeriali) di contratto di ricerca totalmente precarizzato e subalterno che rinvia a un futuro indeterminato ed evanescente ogni prospettiva di inserimento stabile e culturalmente autonomo.

E` invece possibile ipotizzare, sempre nell’ambito dell’autonomia universitaria, un modello piu` evoluto di rapporto di lavoro, pur sempre a tempo determinato, per il quale sia pienamente recepito a livello normativo il disposto del succitato D.Lgs. 368/2001.

Ma soprattutto la definizione e l’attivazione del rapporto dovrebbero essere rigidamente ancorate a un quadro di programmazione locale del reclutamento a tempo indeterminato, definito a livello di Ateneo e articolato a livello dipartimentale, e tale da indicare una prospettiva di inserimento al termine del contratto che interessi (almeno in termini di probabilita`) la stragrande maggioranza dei soggetti coinvolti.

Tutto questo non bastera` ovviamente a “salvare” l’Universita` e la ricerca, ma rinunciare anche a questa pur limitata prospettiva, in assenza di altre soluzioni, significherebbe la rinuncia a qualsiasi  tentativo di non disperdere o danneggiare irreparabilmente un ingentissimo patrimonio culturale (e sociale) collettivo.